TERZA PARTE
Esplorazioni
Sulle tracce dell’ebreo errante
Nessuno ha colto il segreto della grande arte come George Steiner. Di tutta la grande arte. Questo straordinario intellettuale ebreo, cosmopolita, poliglotta, coltissimo e agnostico, che ha insegnato e insegna letterature comparate e critica della cultura dalle più autorevoli e prestigiose cattedre universitarie del mondo, è il nostro filo di Arianna.
Scrive:
Ciò che ho sostenuto fin dai miei primissimi libri, […] ciò che ho cercato di insegnare è questo: è stato «il problema di Dio», quello sull’esistenza o la non esistenza di dio insieme ai tentativi di dare a questa esistenza «una dimora e un nome», che ha alimentato fino a tempi recentissimi la maggior parte della grande arte, della grande letteratura e delle grandi costruzioni speculative. Ha dato alla nostra coscienza un centro di gravità.46
La questione di Dio dunque è «scolpita nella psiche umana» a tal punto da dare l’orizzonte di significato a tutta la civiltà.
Tutta la grande letteratura e la grande arte – quindi anzitutto il corpus classico – ha a che fare con Dio, non solo e non necessariamente come tema, ma come orizzonte ultimo di significato, come presenza implicita.
È la stessa condizione umana che si proietta dentro un racconto misterioso, quindi alla ricerca del significato, perciò ogni atto vitale dell’uomo, ogni suo atto creativo o linguistico, all’interno della narrazione della vita, deve assumere come presupposta l’esistenza del significato. E la ricerca di questo significato misterioso è il centro della cultura.47
Ci sono però dei crinali della storia che sono come vette di una montagna: offrono punti di osservazione ideali per vedere la meta e per capire l’itinerario che laggiù, nella valle, seguono i diversi, tortuosi sentieri.
Su un crinale della storia si colloca di sicuro l’avventura di Agostino d’Ippona, che ha visto il crollo di quella Roma che dominava da un millennio, il crollo di quella cultura classica in cui era nato e di cui era imbevuto. Ha disegnato un grandioso affresco di teologia della storia nella Città di Dio, ma è il suo pellegrinare alla ricerca del significato della vita e della felicità e alla fine è stato l’incontro con la salvezza che gli ha dato quell’intelligenza della realtà e che ce lo fa sentire così moderno, così simile a noi.
Giacomo Leopardi poi è il vero pellegrino dell’infinito nel tempo del trionfo dell’illuminismo, del sensismo e del materialismo che ci ha regalato il Novecento dei terribili totalitarismi.
Andai sulle sue tracce a Recanati, nel 1992, quando avevamo alle spalle l’inferno del Novecento, perché era appena crollato il Muro di Berlino e s’intuiva un cambiamento epocale in arrivo.
Ma da allora abbiamo imboccato la spericolata discesa di una globalizzazione del nichilismo e della violenza, soprattutto la violenza anticristiana.
In quell’anno, sul crinale di quella montagna del Novecento, davanti a quel panorama di rovine, viaggiai anche sulle tracce di altri pellegrini del mistero: Franz Kafka, vera voce profetica del secolo e voce ebraica, voce dell’attesa messianica; e poi Jack Kerouac che sta all’origine di quella beat generation che anticipa la fuga di massa nei paradisi artificiali della droga e quella rivoluzione sessuale – poi esplosa col ’68 – che è l’unica rivoluzione riuscita e che sta letteralmente stravolgendo la fisionomia di ciò che è umano.
Kerouac ha intuito e vissuto tutto questo riconoscendo infine che la vera felicità è il volto di Dio.
Guardare e sentire le rondini fra i tetti di Recanati come Leopardi, camminare per ore lungo le geometriche strade della New York di Kerouac, attraversare le magiche vie della Praga di Kafka, infine vedere le pietre di quell’Ostia antica, il porto di Roma, dove Agostino ha vissuto qualcosa di eccezionale, aiuta a immedesimarsi con il cuore di coloro che non hanno mai sopito il desiderio e dappertutto hanno cercato le tracce dell’eternità.
L’inquietudine di Agostino
Il cristianesimo non è un cumulo di proibizioni,
ma una opzione positiva. […]
Questa consapevolezza oggi è quasi
completamente scomparsa.
Benedetto XVI
L’avventura di quest’uomo si è compiuta sedici secoli or sono, ma sembra una storia di oggi. Se vogliamo fotografare la prima scena della vita di Agostino, infatti, lo vediamo a diciassette anni, studente a Cartagine, dove inizia a convivere – una «coppia di fatto» – con una giovane nordafricana che amerà per quindici anni, avendo da lei, all’età di diciotto anni, anche un figlio, Adeodato.
Una situazione – come si può capire – molto moderna e che di per sé non permetterebbe affatto di immaginare i sorprendenti sviluppi.
La sua vicenda però è emblematica e assume un’importanza enorme perché, convertendosi al cristianesimo, Agostino d’Ippona diventerà uno dei più grandi intellettuali della storia e fra i maggiori santi della storia della Chiesa, il più importante fra i padri e i dottori della Chiesa.
Un uomo che ha avuto un grande peso nella nostra civiltà.
Agostino, originario di Tagaste, conclude dopo pochi anni la sua formazione ellenistico-latina e, diventato lui stesso docente di retorica, in breve è un brillante intellettuale di Cartagine.
Presto però non ne può più di insegnare lì perché gli studenti sono dei veri teppisti.
Pur essendo poco più che ventenne, non sopporta la loro «impudenza pazzesca» e i loro «soprusi» (erano stati capaci di irrompere in aula con schiamazzi e grida nel mezzo della lezione).
Così – siamo nel 383 – Agostino, ventinovenne, decide di trasferirsi nella capitale, a Roma, con la sua compagna e il figlio.
Gli amici gli hanno prospettato «maggiori guadagni e una maggiore considerazione» e lui, inquieto e ambizioso, accetta.
E poi aveva voglia di cambiare aria: «A quanto sentivo dire, gli studenti a Roma studiavano in tranquillità, e vigeva là una disciplina più regolata».
Nei primi mesi Agostino si lancia con entusiasmo nelle lezioni. Ma sul finire dell’anno scoprirà di che pasta son davvero fatti gli studenti di Roma: «Spesso i giovani, per non corrispondere l’onorario al professore, si mettono d’accordo, e improvvisamente passano ad un altro docente, infischiandosi dell’impegno preso».
Agostino è infuriato e disgustato. È il 384 e viene a sapere che a Milano si è resa vacante la cattedra di retorica. Così lui, che anche a Roma frequenta i manichei, una setta eretica ben introdotta nei palazzi del potere, si rivolge lì per una «raccomandazione».
Tramite i manichei – di cui Agostino condivide la filosofia – ottiene dal prefetto di Milano, Quinto Aurelio Simmaco, quel posto d’insegnamento: l’uomo politico pagano fa così un favore ai manichei e coglie l’occasione anche per fare uno sgarbo al vescovo della città, il famoso ed energico Ambrogio, con il quale – nonostante sia suo cugino – è in lotta furibonda.
Simmaco e i manichei sperano di assestare un colpo al prestigio di Ambrogio facendo arrivare lassù – con tanto di vettura statale – un giovane intellettuale di idee eretiche, per di più concubino e con un figlio illegittimo.
In realtà Agostino non è affatto l’intellettuale arrogante che cerca la rissa e non è più così convinto della filosofia manichea. È pieno di inquietudini, di dubbi, di domande su di sé e sul senso della vita.
Non ha ancora trent’anni, è un intellettuale in carriera, ma la sua faccia non è lo specchio della felicità. Forse perché ha domande immense sull’esistenza e da nessuna parte riesce a trovare risposte vere e convincenti. Anche per questo, poco dopo l’arrivo a Milano, si avvicina alla filosofia neoplatonica.
Un incontro
È la fine dell’estate del 384 e – come autorità dell’apparato scolastico, per fare le presentazioni – chiede di essere ricevuto dal vescovo che ha pochi anni più di lui (circa quarantaquattro): Ambrogio.
Il quale è forse un po’ freddino, ma corretto: insomma è un incontro molto formale. I due, che hanno sentito parlare l’uno dell’altro, si studiano, con una certa diffidenza da parte di Ambrogio e con curiosità da parte di Agostino.
Del resto anche Ambrogio ha una storia davvero avventurosa. Basti dire che è stato battezzato appena dieci anni prima, in fretta e furia, per essere consacrato vescovo…
Cosa era accaduto? Nato a Treviri da una famiglia patrizia romana, si trova, giovane funzionario imperiale, a Milano dove c’è da sedare il confuso scontro tra ariani e cattolici per la nomina del nuovo vescovo.
A un certo punto il popolo comincia ad acclamare proprio lui per quel ministero.
Ambrogio, che era giovanissimo, trentaquattro anni, ed era ancora catecumeno, perché a quel tempo si usava differire il battesimo, aveva iniziato una brillante carriera di funzionario pubblico e non pensava proprio alla vita ecclesiastica.
Non aveva nemmeno mai studiato teologia, perciò rifiutò decisamente quell’imprevista e per lui sgradevole «nomina» popolare.
Per far cambiare parere al popolo architettò perfino delle trovate assurde che macchiassero la sua reputazione (arrivò addirittura ad invitare delle prostitute nel suo palazzo).
Ma non ci fu niente da fare e alla fine, per sottrarsi all’imbarazzante situazione, si vide costretto a fuggire.
Il popolo però non mollò, lo ritrovò e, grazie all’imperatore Flavio Valentiniano, «costrinse» Ambrogio ad accettare. Perciò si fece battezzare e subito dopo acconsentì ad essere fatto vescovo a trentaquattro anni.
Nonostante la singolarità di questa vicenda, che l’interessato visse come una costrizione, Ambrogio, una volta detto il suo «sì», si dedicò con tutto il cuore e l’impegno della vita alla nuova missione a cui era stato chiamato, rinunciando alle sue ricchezze familiari, iniziando un suo cammino ascetico e immergendosi ...