La notte dell'innocenza
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La notte dell'innocenza

Heysel 1985, memorie di una tragedia

  1. 190 pagine
  2. Italian
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La notte dell'innocenza

Heysel 1985, memorie di una tragedia

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29 maggio 1985. Mario è un bambino di otto anni, felice perché il pomeriggio ha calzato per la prima volta nella sua vita un paio di scarpe da calcio con i tacchetti di ferro ed emozionato perché la sera la sua Juventus contenderà al Liverpool la Coppa dei Campioni nella finale in programma al vecchio stadio Heysel di Bruxelles. Le strade si svuotano, tutto il paese si ferma per assistere alla partita e anche Mario rientra precipitosamente a casa ancora sporco di terra. Accende il televisore sulle ultime note della sigla dell'Eurovisione e non può sapere che all'Heysel si è appena consumata una delle più gravi tragedie della storia del calcio. Non è il solo. Quando la diretta comincia in pochi ne hanno la percezione – a cominciare dal telecronista Bruno Pizzul –, in pochissimi conoscono la verità. Il bilancio finale sarà di trentanove morti e oltre seicento feriti, ma, sia pure in ritardo di un'ora e mezza e in una cornice spettrale, la partita verrà giocata ugualmente. Lo spettacolo non si ferma o meglio, come commentò Michel Platini diversi mesi più tardi, «quando cade l'acrobata, entrano i clown». La notte dell'innocenza è una ricostruzione chirurgica della diretta che incollò al televisore milioni di italiani sgomenti, impauriti, disgustati; è la rievocazione della partita vista con gli occhi increduli di un bambino, è una riflessione sull'eredità dell'Heysel: cosa ci ha lasciato quella notte di trent'anni fa? Cos'ha lasciato agli appassionati di calcio, alla nostra cultura sportiva, al Paese tutto e al suo immaginario? Siamo cresciuti da allora o siamo rimasti lì, con il calcestruzzo insanguinato che si sgretola sotto i piedi, in uno stadio sempre più desolatamente vuoto?

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
ISBN
9788858678428
Argomento
Storia

La partita

No. Non vidi la partita. E per tanti anni è stato un gigantesco tabù. Una cicatrice rimossa, da non mostrare. Per anni l’Heysel fu soltanto la foto di rito dei calciatori, in piedi e accosciati, in un libro di calcio con i fogli patinati e spessi, era un volume celebrativo dei venticinque anni delle figurine Panini, di notizie e foto golose per un appassionato, ma su quella pagina mi paralizzavo, finivo di scorrere e chiudevo.
I giorni successivi immaginai il tipo di incontro. Era quasi finita la scuola e passavamo molto tempo all’aperto nel cortile della scuola elementare Guglielmo Marconi. Erano le giornate più belle, le lezioni si facevano a contatto con l’aria frizzante di giugno e il sapore del grano che arrivava in bocca dalle campagne non lontane. Quando la maestra ci lasciava liberi, mi sedevo dietro un albero che erompeva dalle mattonelle al centro del cortile e mi nascondevo dietro il tronco. Attorno, i miei compagni giocavano con uno straccio annodato. Quanta gioia, ma anche quanto agonismo nella partita improvvisata, la polvere si alzava, il brecciolino scoppiettava sotto le scarpe. Non giocai in quei giorni, rimanevo a contemplare i miei amici sostituendoli con i calciatori che non avevo avuto modo di vedere in azione qualche sera prima. Era uno strano processo di identificazione, attribuivo delle movenze “professionistiche” a quelle dei miei compagni di classe che tutto erano fuorché professionisti, la fantasia distorceva la realtà, riappianavo il vulnus, i loro goffi dribbling erano gli arabeschi di Platini sul campo di gioco.
Ho rivisto la partita trent’anni dopo, con uno spirito che metteva assieme curiosità, emozione, voyeurismo, commozione. Fu farsa o partita vera? E se fu farsa, come venne mascherato tutto ciò?
La Juve si era allenata su un campo morbido e ordinato come moquette a Ginevra, i fili d’erba sembravano finti, rigogliosi come se fossero stati curati uno a uno dalla perizia di un gran botanico.
Domenico Laudadio nel sito La sala della memoria racconta l’aneddoto del piccolo principe di Savoia, Emanuele Filiberto, grande tifoso della Juventus, che sogna di incontrare i suoi beniamini. Nei giorni di ritiro della squadra nell’ovattata atmosfera svizzera, compare questo bambino, oggi in Italia molto popolare per le sue apparizioni televisive più che per il colore del sangue che ha nelle vene. Il bambino ha insistito tanto per conoscere i suoi idoli. In realtà non c’è questo grande spirito monarchico nei giocatori della Juventus, ma è ben noto: la squadra torinese è stata fondata ai tempi dei Savoia ed è sempre esistito un legame con la famiglia reale.
L’incontro tra giocatori e principe è molto curioso, perché i ruoli si invertono: lui regala agli juventini una cartolina con la sua foto autografata, lasciandoli di stucco.
«Ma non era lui il nostro fan?» si sarebbero chiesti una volta tornati in albergo.
I fili d’erba dell’Heysel non sembrano dipinti, ma sono in buone condizioni, nonostante una parte si sia macchiata di polvere e sangue. La situazione climatica è gradevole, dopo una giornata di caldo, inizia a fare freddo, un passaggio improvviso, mitigato soltanto dall’adrenalina.
André Daina, svizzero di origini italiane, viso secco e capello brizzolato, è stato un calciatore modesto del campionato elvetico, ma sta per realizzare il suo sogno da arbitro: calcare il campo dove si gioca una finale internazionale. Nulla al mondo può impedire che il suo sogno si realizzi, eppure lui, per qualche minuto, ha il potere “legale” di fermare la finale. Se Daina volesse potrebbe rinviare le ostilità, ma quando arriva la richiesta delle autorità non si oppone. La proposta (che ha i contorni dell’obbligo) è quella di fischiare come se la partita fosse davvero una finale perché la polizia deve riorganizzarsi. Se poi la Coppa sarà assegnata, quella è una decisione che verrà più avanti.
A distanza di anni, in molte delle interviste che rilascerà, continuerà ad affermare di aver fatto l’unica scelta possibile, pena un peggioramento della catastrofe.
Le squadre percorrono il campo presidiato da una quantità di poliziotti e militari che trent’anni dopo fanno pensare alle esecuzioni capitali in Afghanistan ai tempi dei talebani, quando gli uomini venivano uccisi negli stadi. I calciatori sembrano foglie smarrite trascinate stancamente dalla brezza che ha iniziato ad alzarsi. Si mettono in posa per le foto di rito. Pochi sorrisi, molte rughe che mostrano tensione.
Grobbelaar saluta sorridente, alza la mano e ruota il palmo, nel gesto che ricorda il saluto della regina Elisabetta, ma sarà l’ultimo sorriso della serata. L’oggetto che mi colpisce di più è la giacca della tuta che portano i calciatori del Liverpool. È sobria, elegante, i giocatori la indossano per tenersi caldi visto che non hanno fatto il vero riscaldamento.
La foto ufficiale dell’undici juventino è agghiacciante. Nessuno sorride, i volti sono tesi, Platini ha le labbra serrate, l’espressione di chi è sotto pressione, Brio il viso scioccato, Scirea guarda lontano cercando qualcuno oltre il muro dei fotografi, Rossi ha un ghigno, Tardelli distoglie lo sguardo, Cabrini è terreo.
Il fischio d’inizio ha le parvenze del tonfo che ti sveglia da una notte terribile e agitata. È come aver nuotato nell’aria e improvvisamente aver perso l’equilibrio, sudati e squilibrati. Quel tonfo fa ancora parte del sogno. La partita è cominciata, ma nulla è cambiato.
Il Liverpool fa un torello, che significa palla in orizzontale, senza mai affondare, gli juventini non pressano, sono schierati con quattro difensori, due centrocampisti puri, un’ala come Briaschi, in attacco Boniek e Rossi. Platini è un elastico, giostra dietro le punte, ma spesso arriva in difesa a prendersi il pallone e impostare. I ritmi di un calcio diverso da quello odierno, dove il numero 10 può essere davvero un uomo ovunque, sono anche le stimmate di un calcio umanissimo in cui non conta la prestanza atletica e l’organizzazione tattica è al minimo.
Quando la Juventus difende dietro la linea della palla, si muove con una specie di 1-3-3-3, mentre il Liverpool è più corto, i suoi difensori sono su un’unica riga immaginaria, applicano una zona mista, invece la Juve gioca con le vecchie marcature a uomo. Il maestro di questo tipo di gioco, in una chiave meno difensiva, ma ugualmente ispirata dal motto “prima non prenderle”, è proprio l’allenatore juventino: Giovanni Trapattoni, grande giocatore del Milan ai tempi di Nereo Rocco, padre del calcio all’italiana (che molti in termini spregiativi definiscono catenaccio).
La Juve ha un guizzo, Platini perde palla, i primi contrasti sono morbidi, c’è paura, l’assenza di riscaldamento crea problemi e Mark Lawrenson si è già lussato la spalla dopo meno di due minuti. Zoppica, ha un ghigno che lascia intravedere in mondovisione quanto male faccia la sua lussazione, cede il campo di gioco a Gillespie.
Lawrenson verrà operato la notte stessa. Quando riaprirà gli occhi in ospedale, la mattina del 30 maggio, si troverà circondato da soldati col mitra. Una precauzione perché i parenti dei feriti e delle vittime italiane in quell’ospedale non erano molto ben disposti verso gli inglesi, e se avessero saputo che negli stessi corridoi c’era un inglese avrebbero potuto scatenare degli incidenti. Kenny Dalglish in una delle sue autobiografie racconterà il rapporto tra giocatori inglesi e italiani nelle ore successive al match e il suo dolore quando dal pullman fuori dello stadio vedrà gli italiani commossi e arrabbiati, che tentano di colpirli.
I ritmi si elevano, le squadre sono molto alte, i lanci delle difese agli attaccanti finiscono in fuorigioco.
Si sente «Juve Juve», è un grido selvaggio, che riempie tutto, copre i tifosi del Liverpool, e si capisce che lo stadio è ancora in maggioranza juventino nonostante l’evacuazione del settore Z. Intanto c’è un’altra piccola carica nella sud, ma sembra ormai che le autorità belghe abbiano preso il controllo del campo, non ancora quello degli spalti.
Il giocatore più forte del Liverpool è Rush, un centravanti alto e nervoso, secco e nodoso come un tronco, due anni dopo diventerà un centravanti della Juve, un grande flop nella storia del calciomercato. Il tronco gallese viene preso in consegna da Brio, che nel primo contrasto dopo pochi minuti gli strappa un lembo della maglietta per fargli capire che cosa l’aspetta. Brio è un gigante, un ragazzo emigrato da Lecce e arrivato per caso alla Juventus qualche anno prima. Doveva giocare a Martina, lo conobbi in una trasmissione televisiva dove parlammo di calcio e libri nel dicembre del 2013, si commuoveva ancora nel ricordare la telefonata di Giampiero Boniperti che lo acquistò dal Calimera (prima categoria). Quella che sta per disputare con il Liverpool sarà una delle sue migliori partite, ed è anche questa una delle grandi tristezze di Brio: che la vetta della sua carriera sia stata raggiunta in occasione di una strage e che lui passerà alla storia per un gesto extracalcistico, che racconterò più avanti.
Dopo i primi dieci minuti di studio, una sgroppata di Walsh sulla fascia e Tardelli entra in tackle durissimo: è il primo vero fallo della partita, e questo intervento serve a interrompere le rispettive paure reverenziali.
Tardelli subisce pochi minuti dopo un fallo rude, non cattivo, ma rude. La partita è vera, non sembra esserci nessun tacito accordo tra le squadre. Il presidente del Liverpool, Peter Robinson, che non è riuscito a entrare in tribuna dopo un alterco con il ministro Gianni De Michelis, aveva detto sin da subito che, se si giocava, i Reds avrebbero giocato per vincere.
Il pubblico tifa, si sentono di più gli italiani. Dopo una mischia nell’area juventina, tra spintoni e contrasti bruschi, la palla vagante che percorre a dieci centimetri dal suolo l’angolo del vertice d’area viene intercettata da Platini. È ovunque, “le Roi” Michel, ma invece di stopparla, alzare gli occhi e osservare la disposizione dei propri compagni di squadra che si preparano al contropiede, fa una cosa che non gli appartiene. Alza un campanile verso il fallo laterale. Nell’impeto, scivola correndo fuori dal campo, un poliziotto lo ferma prima che possa finire sulla pista d’atletica. No. Non è una partita normale, lì non ci può essere un poliziotto, a volte ci sono i raccattapalle. Il poliziotto fa un gesto istintivo e porge la mano, Platini lo ricambia, è una stretta che svuota la tensione, è come se si prendessero per mano due persone che hanno paura.
La Juve è Platini, e il gioco è sempre lo stesso, un po’ elementare. Assomiglia a quello che si fa nei campetti di tutto il mondo a livello amatoriale, passare la palla al più forte, poi ci pensa lui. E il più forte dei ventidue è Platini, che arriva sulla linea dei difensori e fa partire l’azione. Ma durante uno di questi avvii, il Liverpool ruba palla e tira per la prima volta verso la porta con il capelluto e baffuto Wark. Il pallone finisce fuori.
La partita diventa dura. Un contrasto violento tra Briaschi e Whelan sulla linea del fallo laterale davanti alle panchine accende gli animi, lo juventino cerca di dare uno schiaffo all’avversario che gli ha appena rifilato una spallata. Ma lo schiaffo si ferma a metà, come se Briaschi si sia reso conto di ciò che può accadere, e tramuta lo schiaffo in un buffetto simile a un gesto distensivo, una pacca cui Whelan non si sottrae; proprio Whelan, il giovanissimo calciatore irlandese che voleva giocare a tutti i costi nonostante le perplessità dei compagni di squadra.
La partita la fa la Juve, anzi la fa Platini, ma è il Liverpool che tira in porta e Tacconi che risponde sempre. Il portiere della Juventus si oppone due volte nel giro di un minuto agli attacchi degli inglesi.
Pizzul realizza una telecronaca asettica e, come tiene a precisare, «priva di palpiti», specifica che il match non ha un esito per la Coppa, serve a permettere la riorganizzazione della polizia belga, mentre l’incontro è davvero equilibrato, ma senza grandissime emozioni. Gli spalti tifano, gli incidenti si sono quietati, anche le piccole scosse che attraversavano la curva degli juventini si sono assestate.
Al 31’ finalmente la Juventus compie un vero tiro nello specchio del Liverpool. Palla persa a centrocampo dagli inglesi, parte il contropiede dei bianconeri, ma è troppo macchinoso, tutti i giocatori del Liverpool rientrano dietro la linea della palla. Cabrini a venti metri non può far altro che tirare, è un bellissimo tiro, ma il portiere sudafricano dei Reds risponde con grandissima sicurezza.
Sul capovolgimento di fronte è il Liverpool che ha l’occasione di passare, ma Tacconi ancora una volta para: l’incursione del barbuto Wark, solissimo davanti a lui, s’infrange tra le braccia del ragazzo di Perugia.
Il Liverpool sale, la Juventus è molto prevedibile, e i marcantoni inglesi attaccano con azioni di stampo quasi rugbistico per vie centrali, con le spalle alla porta, facendo salire gli esterni, in particolare Whelan, che dopo uno di questi giochi di sponde spara un bolide a colpo sicuro dal limite dell’area. Ancora una grandissima risposta dell’uomo vestito di blu, tra i pali della Juventus. Stefano Tacconi è fino a quel momento il migliore giocatore in campo.
Al 39’ la prima azione calcisticamente rilevante, una serpentina di Boniek. L’attaccante polacco ha le qualità di un centometrista unite alla dote del dribbling. Corre come se in fondo vedesse la meta, una meta che non è il gol, ma qualcosa di più, la libertà, la vita, il disegno ulteriore di un mondo che dà risposte a tutte le domande che in quell’istante una risposta non hanno. Dribbla uno, due, tre, quattro giocatori, e corre con movenze rapaci, ma Wark lo stende scatenando lo stadio e facendo estrarre il cartellino giallo all’arbitro Daina.
Il Liverpool a tratti gioca con il 3-5-1-1, il modulo che, mentre scrivo, pratica la Juventus di Antonio Conte prima e di Massimiliano Allegri dopo. L’attaccante centrale Ian Rush sgomita con i difensori juventini e apre spazi agli inserimenti dei centrocampisti rossi.
Il primo tempo finisce con un tiro centrale di Boniek e con la notizia resa ufficiale da una nota del presidente della Figc Sordillo: si gioca su espressa richiesta delle autorità belghe e in particolare del ministro degli Interni. Il presidente della Juventus, Boniperti, conferma che la squadra italiana non avrebbe voluto giocare.
Intanto, fuori dallo stadio, con l’ausilio di cinque tende è stato costruito ciò che appare come un vero ospedale di guerra. Centinaia i soccorsi, e tra loro, oltre ai feriti, altri morti che rimpinguano il tragico bilancio.
Nell’intervallo tra primo e secondo tempo nel mondo rimbalzano i primi commenti su quanto è accaduto, le agenzie battono diverse frasi che, da semplice cronaca, diventeranno storia.
La dichiarazione più scioccante è quella del più importante giocatore britannico, Bobby Charlton, sopravvissuto miracolosamente al disastro aereo in cui fu coinvolta la sua squadra (nel 1958 il Manchester United fu spazzato via quasi del tutto da un decollo abortito nell’aeroporto di Monaco) e campione del mondo, che dichiarò: «Mi vergogno di essere britannico». Il mondo ha saputo che la causa degli scontri sono i tifosi del Liverpool, e lui ha visto troppo, vissuto troppo, per restare in silenzio.
I belgi avevano le loro responsabilità nel tipo di organizzazione approssimativa, ma mentre il mondo assiste al surreale balletto delle autorità che culminerà con la dichiarazione dell’ufficio stampa dell’Uefa Rudolph Rothenbuhler «Si gioca, avete capito bene, si gioca», gli inglesi si tramutano nel grande capro espiatorio: il primo ministro Margaret Thatcher deciderà autonomamente di sospendere le squadre inglesi dalle competizioni internazionali e l’Uefa prenderà analoga decisione, estendendo la squalifica a cinque anni.
Le squadre tornano in campo. Il Liverpool opera un’ulteriore sostituzione, Johnston al posto di Walsh, ma sono annotazioni statistiche che lasciano indifferenti. Le immagini che precedono l’inizio del secondo tempo sono quelle del telegiornale che mostra parte degli scontri, e se il primo tempo sembrava aver ricacciato nell’ombra la patina di orrore e irrealtà per gli spettatori che seguono da casa, ora questa torna in video prepotente con le immagini dell’esercito schierato imponente attorno al rettangolo verde.
La ripresa ha lo stesso Leitmotiv del primo tempo, il Liverpool prende un lieve predominio del campo, attacca per vie centrali, la Juventus si difende con ordine. La partita è vera, non sembra un’amichevole, né sembra combinata, i giocatori si impegnano, si picchiano, si rispettano.
Mentre il Liverpool sbatte per l’ennesima volta contro il muro bianconero eretto davanti all’area di rigore presidiata da Stefano Tacconi, Platini, in una posizione che si confà più a un mediano che a un regista d’attacco, ruba il pallone, controlla e piroetta. È a circa mezzo metro dall’area juventina e a oltre cinquanta da quella inglese. Alza la testa, fa due passi, nessuno gli va in pressing. Troppo lontano per essere pericoloso, pensano ingenuamente gli avversari, ma lui sa che proprio quando il nemico ti sottovaluta devi colpire. Prende la mira, guarda il posizionamento della linea dei centrocampisti inglesi, dove sono i difensori, ma soprattutto cerca una testa bionda, le gambe asciutte e nervose di chi corre non verso...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Scarpe coi tacchetti
  4. Calcestruzzo
  5. L’orologio
  6. L’altoparlante
  7. Il binocolo
  8. L’elicottero
  9. Fili d’erba
  10. La partita
  11. Il dopopartita
  12. L’alba del 30 maggio
  13. I pantaloni verdi
  14. Il filo rosso
  15. #J39, l’uso distorto della memoria
  16. Il pallone blu
  17. Nota dell’autore
  18. Note
  19. Bibliografia
  20. Indice