Capitolo primo
Nel quale trova conferma l’idea che da certi mestieri non si va mai in pensione
Aveva cercato di riempire l’attesa con i soliti lavori che scandivano le sue giornate di sfaccendato di lusso: spaccare legna per il camino, preparare la zuppa ai cani e cucinare il bollito per il pranzo. Avrebbe anche voluto ascoltare un cd di Miles Davis appena acquistato su internet e finire la lettura di un romanzo di Simenon, L’aîné des Ferchaux, ma era agitato e gli mancava la concentrazione necessaria. Musica e letteratura reclamano una certa quiete dell’animo e lui non riusciva a pensare ad altro se non al testamento di suo padre.
A trentasei anni suonati, Alessandro Kostas si sentiva intrappolato in un’esistenza che gli era stata regalata come un gioiello troppo prezioso per essere indossato in pubblico; così se ne stava rintanato nel casale che il vecchio aveva acquistato oltre vent’anni prima, subito dopo l’incidente d’auto in cui era morta la moglie.
Ma ora che aveva letto il testamento e aspettava l’uomo di Roma, tutto cominciava a diventare chiaro. Anche la sibillina frase di suo padre che gli era rimasta impressa nella memoria.
«Da mestieri come il mio non si va mai definitivamente in pensione» gli aveva detto una sera di ottobre, mentre alimentava il fuoco del camino con le carte di un grosso dossier che aveva appena ridotto a file digitale. Correva l’anno 1992, la prima estate trascorsa al casale si stava consumando e nell’aria si avvertiva il fiato umido dell’autunno. «Prima o poi qualcuno verrà a cercarti e farò il possibile perché, quando accadrà, non ti trovino impreparato.»
Il rombo di un motore che si avvicinava lo fece trasalire. L’abbaiare furioso dei cani gli confermò che l’uomo stava arrivando. Lanciò un’occhiata alla finestra della grande cucina e vide una Mercedes che percorreva lo sterrato tra il recinto dei vitelli e il campo che digradava fino al piccolo lago, sollevando dietro di sé una nuvola di polvere.
Infilò le scale scendendo nella fresca semioscurità dell’atrio, aprì il portone e fu investito da una violenta vampa di sole. I cipressi disseminati intorno alla casa, sferzati dal bagliore, parevano dissolversi in quel bagno di luce. Richiamò i cani, due lupoidi bastardi – Wolf il maschio e la femmina Kira – che lo raggiunsero mugolando sulla soglia del casale.
La Mercedes risalì lungo la collina e si arrestò bruscamente nello spiazzo davanti al portone facendo crepitare la ghiaia sotto gli pneumatici. La carrozzeria, d’un grigio lucido metallizzato, era coperta da un velo di terra color ocra. Ne scese un uomo che doveva avere all’incirca l’età di suo padre, anche se sembrava in gran forma e curava il proprio aspetto assai più del vecchio Kostas. Indossava una giacca di velluto marrone su una camicia di jeans e un paio calzoni di tela color kaki. Era calvo e i sottili baffi bianchi gli ricordarono l’attore David Niven.
Il maggiore Ludovisi gli venne incontro con passo deciso, quasi marziale, senza mostrare né gli anni che portava né alcuna paura dei cani che gli ringhiavano contro.
«Buoni» disse Kostas mentre stringeva la mano del visitatore. «State buoni e andate a farvi un giro.» I due animali si allontanarono in direzione del lago.
«Sono contento di conoscerla» disse il maggiore sfoderando un sorriso smagliante e un marcato accento romanesco. Si aspettava un eloquio dal timbro metallico, di quelli con cui si impartiscono ordini e si decidono destini, invece la voce era pastosa, profonda, e il tono evocava una musicalità morbida e suadente. «Lei assomiglia tutto a sua madre...»
Kostas lo invitò a salire senza rispondere.
Ludovisi non superava il metro e sessantacinque di altezza e, di fronte ai due metri di Kostas, faceva la figura di un nano. Un nano senza complessi, che procedeva fiero con la schiena dritta, quasi portasse ancora l’uniforme, e lo scrutava con due occhi glauchi, intensi, che riverberavano la luce di quella tersa mattina di maggio.
Si accomodarono nella grande cucina, sulle due poltrone sistemate davanti al camino acceso, dove il brodo e la carne bollivano con un borbottio sommesso e continuo.
«Che profumino» disse Ludovisi. «Bollito di chianina, immagino.»
Kostas annuì e aggiunse: «È quasi ora di pranzo. Spero vorrà tenermi compagnia».
«Sarà un piacere» rispose il maggiore e venne subito al dunque. «Così il notaio Arcetri le ha suggerito di contattarmi. È un motivo di orgoglio sapere che il Greco, fra tanti commilitoni, abbia pensato proprio a me.»
Kostas registrò quella parola del gergo militare che, riferita a suo padre, gli suonava quasi una bestemmia, ma non fece commenti. Invece disse: «Leggere il testamento è stato un duro colpo per me».
Ludovisi lo guardò con aria interrogativa.
«Mi ha sempre detto che aveva lasciato il Servizio perché il mondo stava cambiando e sentiva di avere esaurito la sua missione.»
«Non è stato il solo. Con la caduta del Muro di Berlino e la fine del comunismo, in molti ci siamo sentiti inutili. Stava crollando tutto e non c’era più posto per quelli come noi che avevano servito lo Stato durante la Guerra fredda. Anch’io mi sono ritirato e mi sono... riciclato» stirò una risata fiacca, di circostanza. «Transitando dallo spionaggio internazionale all’import-export al servizio dell’umanità, ho guadagnato di più rischiando molto meno.»
Kostas lo guardava con un’espressione assente e lontana.
«Al telefono non mi ha spiegato cosa c’è scritto nel testamento» disse Ludovisi.
«Ho sempre creduto che mia madre avesse perso la vita in un incidente d’auto» attaccò. I suoi occhi si fecero lustri, ma non se ne accorse. Erano mesi che non ne parlava con nessuno, dopo che era morto suo padre. «Stava ritornando a Genova da Torino, dove aveva consegnato la traduzione di un romanzo americano. Era una traduttrice piuttosto nota...»
«Lo so, la conoscevo bene» confermò il maggiore con un sospiro di dispiacere.
«Pioveva e intorno alle dieci di sera è precipitata da un viadotto della A26, poco dopo la galleria del Turchino. Tutto faceva pensare a un colpo di sonno. Il magistrato, dopo i rilievi di polizia, avallò la versione e chiuse il caso. Mio padre mi spiegò che si era trattato di una disgrazia. Solo ieri, nello studio del notaio Arcetri, ho scoperto che è stata tutta una montatura.»
Il maggiore aggrottò le sopracciglia, stupito.
«Mia madre è stata uccisa» proseguì, e una lacrima scivolò sullo zigomo tracciando un solco lucido sulla pelle scura del volto. La sentì scendere e la asciugò con le dita, ma non riuscì a provare altro. Il tempo aveva chiuso il suo cuore come si chiude una bara. «Nel testamento è spiegata ogni cosa: un autotreno l’ha speronata e l’ha scaraventata giù dal viadotto. Ci hanno pensato gli uomini dei Servizi a insabbiare tutto. Non a caso i primi ad arrivare sul posto furono i carabinieri del tenente Marescotti, un ufficiale che lavorava per il Servizio segreto militare.»
«Anch’io lavoravo per il Sismi» si affrettò a chiarire Ludovisi, «ma non ho mai sospettato niente.»
«Pensavo che lei lo sapesse.»
«Il Greco non me ne ha mai parlato.» Tacque qualche secondo e aggiunse: «Marescotti è morto».
«Lo so, durante una missione all’estero.»
«In Somalia, nel ’93. Saltato su una mina.»
I due si guardavano come se si aspettassero che fosse l’altro a parlare per primo. Fu Ludovisi a decidersi: «E perché l’avrebbero fatto?».
«Per convincere mio padre a ritirarsi dal Servizio.»
«Aveva ricevuto minacce, pressioni dall’alto?»
«Nessuna pressione e nessuna minaccia, ma fu avvertito che la mamma era stata assassinata dalla telefonata di uno sconosciuto. Lo chiamò quella notte stessa e gli disse che facevano sul serio: o mollava tutto o se la sarebbero presa anche con me.»
«E a lei non ha mai detto niente?»
Kostas scosse il capo.
Ludovisi taceva e pareva confuso. Fissava il fuoco che crepitava sotto la pignatta come se ne fosse rimasto ipnotizzato. A un tratto domandò: «Quando è stato stilato il testamento?».
«Tre anni fa, appena gli fu diagnosticato il cancro ai polmoni. Il notaio mi ha riferito che la consegna era di aprirlo dodici mesi dopo la sua morte.»
L’altro continuava a tacere, sempre più assorto in chissà quali pensieri. Kostas lo osservava in silenzio, chiedendosi se il proprio mutismo non apparisse un segno di inadeguatezza. In realtà un groppo in gola gli impediva di parlare, ma lui non se ne rendeva conto. Si domandò perché il suo vecchio avesse tirato in ballo proprio il maggiore Ludovisi. Gli aveva raccontato di lui e della loro antica amicizia, ma aveva anche precisato che era stato un acerrimo oppositore del nucleo Gamma e che aveva fornito coperture a militari golpisti e ad altri personaggi discutibili foraggiati dagli americani.
Di colpo si alzò in piedi e si piegò sul fuoco. Afferrò uno strofinaccio e il forchettone, sollevò il coperchio della pignatta e tastò la carne.
«È pronta» disse. «Possiamo accomodarci.»
Apparecchiò il tavolaccio di ciliegio, stappò un Nobile di Montepulciano e invitò il maggiore a cominciare sorbendo una tazza di brodo. Servì due tazze fumanti, quindi si sedettero uno di fronte all’altro. Versò il vino all’ospite e posò la bottiglia sul tavolo.
«Lei non beve con me?» domandò il maggiore.
«A pranzo non tocco alcol.»
Ricordò le sbronze con i ragazzi del Poggio, i soli amici che aveva, e gli sfuggì un sorriso.
«E a cena?» insisté l’altro con aria maliziosa. Doveva avere capito che razza di vita conducesse in quell’eremo.
«Propizia il sonno» rispose quasi compiaciuto nel confermare l’idea di una dipendenza alcolica che non corrispondeva alla realtà. Beveva sì, ma solo in compagnia, e non gli capitava spesso di stare in compagnia.
Sistemò il vassoio ricolmo di pezzi di carne e un piccolo cesto di vimini con i barattoli delle salse al centro del tavolo. Ciascuno si servì a piacere.
Ludovisi mangiava con appetito, ma continuava a mostrare la fronte aggrottata e pareva turbato. A un tratto, quasi gli avesse letto nel pensiero, disse: «Mi domando perché suo padre l’abbia indirizzata proprio a me».
«Eravate amici, no?»
«In questo mestiere non si è mai veramente amici. È la regola: non ci si deve fidare di nessuno. E senza fiducia non può esserci autentica amicizia. E poi le avrà detto che avevamo idee diverse.»
«Mi ha accennato qualcosa» rispose annuendo. «Tanto che mi sono stupito quando il notaio ha fatto il suo nome.»
Ludovisi si versò mezzo bicchiere di vino e lo mandò giù con gusto, facendo schioccare la lingua. Trasse un respiro profondo e si apprestò a raccontare: «Ci siamo conosciuti negli anni Cinquanta all’Accademia di Modena. Eravamo giovani ma abbastanza svegli da intuire di che pasta fossimo fatti. Il Greco era un ribelle, un sognatore a cui il mondo non piaceva. Le regole gli stavano strette, anche se da subito mi colpì la sua autodisciplina. Era capace di starsene un mese in cella di isolamento, mangiando pane raffermo e bevendo acqua, senza lamentarsi né protestare. La carriera militare è fatta per conservare il mondo così com’è, e sono i tuoi superiori a stabilire come deve essere. Dopo un anno lo buttarono fuori, ma quel tempo fu sufficiente a conoscerci e stimarci reciprocamente, ammettendo senza ipocrisia la nostra diversità. Entrai nei ranghi dell’esercito e quando fui nominato tenente mi arruolarono nel Sifar del generale De Lorenzo. Tutto mi sarei aspettato, ma non di ritrovarmi con Kostas a un seminario della Nato sul dopo-Kruscev e scoprire che lavorava nel nucleo Gamma d...