Tra l'asino e il cane
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Tra l'asino e il cane

Conversazione sull'Italia che non c'è

  1. 160 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Tra l'asino e il cane

Conversazione sull'Italia che non c'è

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Bloccati come l'asino di Buridano, che si lascia morire di fame, incapace di scegliere quale mucchio di paglia mangiare. È questo il ritratto dell'Italia secondo uno dei maggiori protagonisti dell'industria nazionale che, con tono partecipe - a volte disilluso ma sempre brillante - racconta al direttore del Foglio che cosa non va nel nostro Paese. Le storture del fisco e quelle del lavoro che non c'è; il legame profondo tra burocrazia e corruzione; la sindrome del nanismo, del "piccolo è bello", che impedisce alle imprese italiane di competere sul piano internazionale. E poi il Sud e gli interventi sbagliati e mancati per farne un vero motore dell'Italia, e i molti errori degli ultimi decenni, non solo dei politici ma anche di chi – gli imprenditori in primis – avrebbe dovuto spingere l'ammodernamento del Paese e invece si è chiuso a difendere i propri privilegi. Un quadro duro ma realistico dell'Italia di oggi. Un intervento qualificato che non fa sconti a nessuno - né agli imprenditori, né alle cooperative, né alla politica - e propone alcune misure essenziali per portare l'Italia fuori dal fango e dalla palude.

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Informazioni

Editore
ETAS
Anno
2015
ISBN
9788858678381
Argomento
Business

CAPITOLO 1

Il leader (e i cani)

“L’uomo non è la somma di quello che ha ma la totalità di quello che non ha ancora: di quello che potrebbe avere.”
Jean-Paul Sartre
La questione è semplice: bisogna stare attenti a non fare la fine dei cani, o peggio fare la fine degli asini. È tutta una questione di sfumature, ma con le sfumature a volte si decide il destino del Paese. E il discorso vale sia per i politici, sia per gli imprenditori, sia per i capitani di industria, sia per i capitani di governo, sia per i capi di partito, sia per i capi delle grandi società.
Asini? Cani?
Conosce la storia dell’asino di Buridano? È una bella favola: c’è un asino affamato che si trova tra due mucchi di fieno perfettamente uguali e perfettamente distanti. È lì che ci pensa e ci ripensa e non sa dove deve andare. Vado a destra o vado a sinistra? Alla fine decide di non decidere e resta a guardare le due balle di fieno. Il tempo passa, la fame aumenta, il corpo si indebolisce fino a quando, paralizzato, l’asino sceglie di non scegliere. Resta fermo; e dunque muore.
Ok. Ma che c’entrano la politica o l’impresa con l’asino di Buridano? E il cane, che c’entra?
È semplice. Da che mondo è mondo, e qualsiasi sia il campo, un leader che non si muove, o peggio che finge di muoversi restando sempre fermo dove si trova, è un leader destinato a fare una brutta fine. Non decidere, a volte, è persino più grave e deleterio di prendere una decisione sbagliata. E di solito, chi non decide finisce male. Allo stesso tempo, un leader, un capo che fa una brutta fine ha spesso anche un altro vizio, e pure qui c’entra la decisione.
Un leader che non si muove, o finge di muoversi restando fermo, è destinato a fare una brutta fine
Di cosa parliamo? C’è forse qualche riferimento a fatti e persone realmente esistenti?
Dico solo questo: assieme al non sapere decidere, per un leader è letale scegliere in modo sconsiderato le persone che lo circondano. E non c’è niente di peggio per un capo, a proposito di decisioni, che non saper distinguere, per esempio, tra la parola leale e la parola fedele.
Il cane – e lo dico da amante dei miei due cani – si sa, è un animale fedele: segue chiunque gli dia da mangiare, scodinzola di fronte a chi lo nutre, abbaia festoso al padrone che gli passa una ciotola di croccantini. Ma non appena arriva un umano che lo nutre di più, e che gli passa tre croccantini invece che due o gli promette un cibo più gustoso di quello mangiato fino ad allora, diventa fedele a qualcun altro. Capite cosa intendo?
Essere leali, e non fedeli, significa invece costruire un rapporto diverso, paritario, con il proprio capo – o se volete il proprio padrone. Dove la stima è reciproca, e dove l’amico o il collaboratore sa, in nome della fiducia e della competenza, che quando una cosa non funziona bisogna alzare la voce, senza aver paura che il capo faccia altrettanto. E dove, insomma, il capo sa che il cane è il miglior amico dell’uomo ma, di riflesso, è anche il peggior nemico del leader. Un vero leader, per intenderci, non deve e non può circondarsi di cani fedeli: deve attorniarsi di collaboratori leali. I primi, come si sa, si adattano, si limitano a eseguire quanto richiesto dal loro referente; i secondi, i leali, contribuiscono invece a individuare la soluzione migliore, facendoci riflettere sulla validità di un’idea, di una procedura, e provando di giorno in giorno non a confermare le attese di chi comanda, ma a migliorare tutta la catena di comando.
Un vero leader non deve e non può circondarsi di cani fedeli: deve attorniarsi di collaboratori leali
Non starà parlando di politica…
Sto solo dicendo che le leadership di oggi si dividono in due grandi filoni: chi cerca i cani e chi non li cerca.
Chi va alla ricerca di collaboratori fedeli, solitamente, lo fa con lo stesso principio con cui Twitter, Facebook o Spotify suggeriscono a un utente le persone da seguire: propongono sempre chi ha caratteristiche simili alle tue, idee simili alle tue, passioni simili alle tue, competenze simili alle tue.
È il principio dell’omologazione: io, capo, scelgo collaboratori che sono miei replicanti per autoconvincermi che la strada che ho imboccato è quella giusta. Chi è d’accordo con me è dalla parte del bene. Chi non lo è, è dalla parte del male.
Il capo che si mette in discussione e che non aspira soltanto a replicanti è invece un capo autorevole, non autoritario, che vuole attorno a sé persone che siano in grado di fargli capire dove sta sbagliando. Magari persino più brave di lui.
Proviamo a essere ancora più chiari.
La differenza sostanziale tra un leader autorevole e uno con pulsioni autoritarie, secondo me, è quindi quella tra chi mette al centro delle persone, attraverso le quali migliorare i propri pensieri, e chi invece crede che siano gli altri a dover necessariamente contribuire al suo pensiero. È una differenza sottile ma sostanziale: c’è chi mette al centro della sua azione, anche di governo, persone alle quali richiede competenze, e dunque che servono a fare meglio, e chi si circonda di persone alle quali domandare solo di contribuire a rafforzare le proprie convinzioni. Troppa fedeltà, si sa, non stimola la squadra sulla cosa giusta da fare, ma la induce ad agire nel modo migliore per non far arrabbiare il capo.
Troppa fedeltà non stimola la squadra sulla cosa giusta da fare, ma la induce a fare ciò che non fa arrabbiare il capo
Non è certamente il caso di chi governa oggi l’Italia, ma c’è un principio in generale che va ricordato: c’è un mondo in cui la fedeltà conta prima di ogni altra cosa, ed è un mondo molto particolare, l’universo della malavita e del crimine organizzato. Dove chi sta sotto il capo non deve farsi domande, deve eseguire gli ordini, deve fare su e giù con la testa, e dove l’organizzazione è divisa tra chi comanda e chi ubbidisce, e il resto non esiste.
La fedeltà al posto della lealtà è una formula che può piacere e affascinare, ma alla lunga vi assicuro che non funziona. Così come non funziona l’idea che il buon capo, per essere tale, debba essere un buon amico, uno che, battendo il cinque, sarebbe disposto a farsi la doccia anche con i suoi ragazzi. Il buon allenatore, invece, ha il suo spogliatoio e non fa la doccia con la squadra.
Il buon allenatore ha uno spogliatoio suo e non fa la doccia con la squadra
Lei sta ancora parlando di politica.
Parlo di modelli, semplicemente questo, se poi qualcuno si riconosce in quei modelli deve farsi delle domande…
Proviamo ad aggiungere altri tasselli a quello che potremmo chiamare il mosaico della leadership moderna.
Ho elaborato una teoria che credo possa essere utile condividere qui. Il leader che vuole governare in modo autorevole, e non autoritario, deve seguire il modello dei sette nani. Il primo nano, all’interno di un tunnel di pietra, è il leader che deve avere la torcia in fronte e deve mostrare il percorso. Ma un leader provvisto di una buona torcia, se è da solo, non può andare da nessuna parte e, per poter raggiungere un qualsiasi obiettivo, deve essere attorniato da altri nani dotati non di specchi che riflettono la sua torcia, ma di molti picconi. La lampada per andare avanti è utile e serve a indicare la direzione. Ma se non hai il piccone e se non sai usarlo non andrai da nessuna parte. Chiaro?
Il leader che vuole governare in modo autorevole, e non autoritario, deve seguire il modello dei sette nani
Chiaro.
Da questo punto di vista, le leadership moderne, oltre al coraggio e, ovviamente, alla competenza, hanno bisogno di una caratteristica precisa: la capacità di scegliere le persone. Per fare un esempio relativo alla leadership politica attuale direi che Matteo Renzi, per intenderci, ha coraggio, ma ha anche due potenziali difetti.
Quali?
Una competenza limitata dall’inesperienza, che potrebbe essere facilmente superata dotandosi di una buona squadra, e una tendenza a volte pericolosa a circondarsi di persone fedeli.
Cani?
Mi auguro di no.
Se hai coraggio ma non competenza sei come chi, in un tunnel di pietra, si muove con una torcia ma senza avere picconi
Si spieghi meglio.
Da un certo punto di vista è normale che un leader che punta sul coraggio e che prova a buttare il cuore oltre l’ostacolo sia portato a circondarsi di persone che lo aiutino a realizzare i suoi obiettivi, e dunque di persone fedeli.
All’inizio di un percorso – e questo vale per tutto: politica, imprenditoria, vita quotidiana – è una scelta che può avere senso e può illuderti di aver imboccato una direzione giusta, ma a lungo andare succede una cosa precisa: avere persone scodinzolanti e troppo simili a te non ti permette di alzare l’asticella. È una questione, ancora, di competenza. La competenza è una caratteristica che si migliora con il tempo e con l’esperienza. Avere competenza significa saper guardare fuori del proprio ambito per trovare altre potenzialità di business, nuovi modelli di relazione, approcci innovativi non convenzionali. Se hai coraggio ma non competenza sei come chi, in un tunnel di pietra, si muove con una torcia ma senza avere picconi.
Obiezione: il modello di leadership – politica ma non solo – che oggi va per la maggiore è giudicato da molti un modello vincente, che ha una storia radicata nella nostra era, ed è figlio di un’età moderna in cui gli elettori e i consumatori cercano, a tutti i livelli, qualcuno capace di esprimere in modo compiuto l’epoca della disintermediazione. E nell’epoca della disintermediazione, dove il capo conta più di ogni altra cosa, e dove le decisioni devono essere prese non da chi media ma di chi comanda, da un certo punto di vista è normale che il leader si scelga persone amiche e fedeli più che leali. No?
Qui apriamo un altro capitolo. Negli ultimi vent’anni, a tutti i livelli, abbiamo assistito a un fenomeno che si è irradiato in modo avvolgente: la crisi del modello di rappresentanza, che oggi è un modello che non rappresenta nessuno.
Accade anche nelle associazioni, nei movimenti, nei partiti, nella politica. E il problema è sempre lo stesso: l’articolazione è eccessiva, barocca, obsoleta, spesso costosa. Ci sono troppi tavoli sui quali si parla delle stesse cose, e chi vuole riuscire a sintetizzare in modo efficace e contare deve semplificare il sistema, e su questo non c’è alcun dubbio. Perché il sistema, per come è concepito oggi, a tutti i livelli, tende a preservare più le poltrone occupate dalle persone che gli interessi che quelle persone dovrebbero rappresentare. Tende a difendere più la propria parte che l’insieme che raccoglie le singole parti.
Il modello di rappresentanza oggi non rappresenta nessuno
Nelle aziende, questo si è tradotto in una visione egoistica e miope della gestione delle risorse.
In politica, si è tradotto in una visione scellerata che ha portato i leader dei partiti a rappresentare solo il proprio apparato, il proprio mondo, e non la nazione. E a sinistra, in particolare, questo modello di leadership miope ha portato a un cortocircuito che credo che oggi sia sotto gli occhi di tutti.
Ovvero?
Il punto è semplice: abbiamo pensato, tutti, nessuno escluso, che prima di poter presentare un progetto concreto fosse opportuno contrapporsi a una persona, fosse doveroso, innanzitutto, abbattere un muro e poi pensare a cosa costruire dopo che quel muro era stato abbattuto. Le cose, invece, sono andate diversamente, e non proprio benissimo, diciamo. Perché si è pensato che la personalizzazione della politica avesse un senso solo a livello di contrapposizione e non di proposta. È il partito che deve combattere il nemico, ma nel frattempo non si è capito che per combattere il nemico serviva un nuovo tipo di leadership.
Oggi è evidente che le dinamiche sono cambiate e che un buon leader non può essere tale se non prende il suo partito, o la sua azienda, lo trasforma a sua immagine e somiglianza e fa di tutto – sennò a cosa serve un leader? – per regalare un plusvalore al suo mondo di appartenenza. È la famosa teoria del tocco magico, Berlusconi è stato il primo a capirlo. E da questo punto di vista la politica è diventata simile all’impresa: se non porti un valore aggiunto alla tua azienda allora non si capisce quanto bisogno essa abbia di te. Anche se ormai la parola è un po’ inflazionata, è l’evoluzione del concetto di brand. Ed è un concetto chiave per capire come debba funzionare oggi una buona leadership, sia in politica sia fuori dalla politica.
La politica è diventata simile all’impresa: se non porti un valore aggiunto alla tua azienda allora non si capisce che bisogno abbia di te
Il brand?
Il rapporto tra il partito e l’elettore è simile a quello tra cliente e brand. Un tempo, in politica così come nell’impresa, il brand era un’icona sacra: i fedeli lo contemplavano, lo accettavano e lo veneravano come se fosse un idolo. Era una questione di fedeltà: era l’offerta che formava la domanda, non la domanda che formava l’offerta. Era come il parroco in una chiesa: potevi mettere in discussione un fatto ma non l’istituzione.
Oggi sono cambiati i tempi. I cittadini, e i clienti, hanno più strumenti per confrontare un brand con un altro, una proposta con un’altra, un’offerta con un’altra. Le persone sono più consapevoli di quello che accade, hanno più informazioni di un tempo, sono anche più disincantate, non le puoi raggirare, e in un certo modo è la domanda che forma l’offerta, più di quanto potesse essere prima: tanto in politica quanto nell’impresa.
Il rapporto che c’è tra il partito e l’elettore è simile a quello che esiste tra cliente e brand
E il prodotto non deve essere soltanto innovativo, creare un’emozione, e...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Sommario
  4. Introduzione di Claudio Cerasa
  5. Capitolo 1 Il leader (e i cani)
  6. Capitolo 2 La dirigenza senza classe: cercasi disperatamente borghesia
  7. Capitolo 3 Il lavoro che non si vede (e il lavoro che c’è da fare)
  8. Capitolo 4 Sud con la vita!
  9. Capitolo 5 I nani
  10. Capitolo 6 L’Italia dei consumi, l’Italia consumata