Ali di piombo
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Ali di piombo

  1. 288 pagine
  2. Italian
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Ali di piombo

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Il 1977, trent'anni dopo.Lotte di piazza e vittime innocenti. Le radio libere, la piaga dell'eroina, il terrorismo.La cronaca, i documenti, le testimonianze.Il 1977 fu l'anno più duro della nostra generazione.— Walter VeltroniQuesto libro è la cronaca appassionata di un caso italiano: il 1977. Un nuovo Sessantotto, culminato nelle morti tragiche di tre militanti: Francesco Lorusso, Giorgiana Masi, Walter Rossi. Ma è anche l'anno che segna la drammatica ascesa delle Brigate rosse, che a Torino uccidono il presidente dell'Ordine degli avvocati Fulvio Croce e il vicedirettore della 'Stampa' Carlo Casalegno. Concetto Vecchio, trent'anni dopo, è tornato a Bologna, Roma, Torino, rivisitando i luoghi di allora, e ha ripercorso gli ultimi mesi di vita di Casalegno e dei suoi assassini. Attraverso quasi quaranta testimonianze, tra cui quelle di Gad Lerner, Ezio Mauro, Diego Novelli, Giancarlo Caselli, Giampaolo Pansa, Gianfranco Bettin, Diego Benecchi, Bifo Berardi, Silvio Viale, Renato Nicolini, racconta l'attacco dei giovani del movimento al Pci, la nascita di Radio Alice, il trionfo della controcultura. Spiccano figure indimenticabili come quella di Carlo Rivolta, giovane promessa di 'Repubblica' stroncato dalla droga, e di Antonio Cocozzello, un piccolo democristiano che si ritrova incredibilmente nel mirino del terrorismo.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858666098
Argomento
Storia

Concetto Vecchio

ALI DI PIOMBO











BUR Futuropassato
Proprietà letteraria riservata
© 2007 RCS Libri S.p.A., Milano
eISBN 978-88-58-66609-8

Prima edizione digitale 2013 da edizione BUR FuturoPassato: gennaio 2007



Copertina:
Progetto grafico Mucca Design
Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
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Dedica

A Francesca e Alessandro

Prologo

A Torino i terroristi delle Brigate rosse vivono in alloggi cupi, corridoi scurissimi, tapparelle abbassate da cui non filtra mai il sole, stanze spartane che nessuno pulisce, come unico svago una tv in bianco e nero che troneggia sul frigorifero. Nessun contatto con i vicini, solo buongiorno e buonasera, e bisogna uscire di casa vestiti bene, meglio se con giacca e cravatta, travet anonimi che non danno nell’occhio. Campano a insalata e mortadella, bistecchine di carne bianca, vino da tavola, perché si devono fare bastare le cinquemila lire giornaliere di salario, come quelle che Patrizio Peci percepisce dal suo capocolonna Raffaele Fiore, un ex scaricatore al mercato ortofrutticolo di Bari, mani e piedi enormi, naso gigantesco per cui è detto Nasone. Veste malissimo, Nasone, ed è perciò rimproverato dal compagno brigatista Franco Bonisoli. È avido di vino, ha carattere irruento, tiene banco nelle discussioni anche se non ha nulla da dire.
Il desolante appartamento assegnato a Peci è in via Palli, zona Borgo Vittoria, periferia nord. L’impatto con l’esistenza da clandestino non ha nulla di romantico. Il coinquilino Vincenzo Acella, nel portare le lenzuola in lavanderia, s’è visto guardare schifato tanto erano sudice. La prima cena da rivoluzionario di professione è parca: carne e radicchio rosso. Fiore divora il suo pasto come un lupo, poi si sfila le scarpe senza neanche togliere i lacci, scaraventa via le calze, si mette comodo per guardare la tv, agguanta il coltello per il pane e comincia a far saltare tutto lo sporco che ha tra le dita dei piedi mentre Peci, intento a finire la bistecca, lo segue inorridito con lo sguardo. È dunque questa la vita che lo attende?
Patrizio Peci, 24 anni, un uomo di statura non grande, l’aspetto anonimo, un paio di baffi folti a mascherarne la giovane età, approda a Torino nel marzo 1977. Sotto Natale gli è capitato un guaio grosso ed è perciò ricercato su ordine della magistratura. A San Benedetto del Tronto, la sua città, ha nascosto nella casa delle vacanze di un tizio di Torino un mitra Sten e tre pistole. Ha le chiavi perché suo padre è il custode dell’appartamento. Convinto che il turista non vi trascorresse le festività, ha piazzato le armi sotto l’armadio della camera da letto. Ma il villeggiante piemontese, a sorpresa, ha deciso di festeggiare l’ultimo dell’anno proprio lì, e ha avuto la bella pensata di nascondere i soldi nello stesso punto. Scoperto l’arsenale, ha avvertito subito i carabinieri. Gran trambusto. Peci ripara a Tolentino, a casa di amici, dove trascorre in amara solitudine la notte di San Silvestro. Nel fragore dei botti medita di costituirsi. I carabinieri lo stanno cercando dappertutto e in compenso hanno arrestato suo fratello, Roberto, 22 anni, che non c’entra nulla. Patrizio Peci è costretto a una precipitosa fuga. Prima a Milano, dove nei pressi dell’ospedale Niguarda dimora per venti giorni nell’abitazione di Mario Bondesan, un ex partigiano vicino all’organizzazione che ha già ospitato Mario Moretti, Alberto Franceschini, Giorgio Semeria. La moglie di Bondesan lo tratta come un figlio rivoluzionario modello. Poi finisce a casa di Angelo Perotti, operaio della Sit-Siemens, che per molti giorni gli impedisce di mettere fuori il naso perché teme che i carabinieri lo scoprano. Alla fine le Brigate rosse, alle quali appartiene prima da simpatizzante poi da irregolare sin dal 1974, lo promuovono finalmente regolare, ovvero assunto a tempo pieno e perciò clandestino. Lo destinano, dopo due mesi trascorsi infrattato in un appartamento a studiare documenti marxiani («noiosissimi, io fremevo, volevo combattere» racconterà a Giordano Bruno Guerri in quel formidabile documento che è Io, l’infame), a Torino: la città della Fiat. Primo stipendio 200mila lire. È stato un compagno d’armi, Rocco Micaletto, a prelevarlo a Milano imponendogli, prima di partire, di tagliarsi la barba, «perché così sembri uno di Lotta continua». Torino gli appare come «una brutta città, di brutta gente», ma soprattutto rispetto a quel che le Brigate rosse avevano già fatto a Milano o Genova, un posto dove «al massimo avevamo rotto i coglioni alla Fiat». La prende come una retrocessione.

Perché nel 1977 si diventa brigatisti regolari? I Peci sono all’apparenza una famiglia normale, unita. Un’educazione priva di traumi, genitori refrattari alla politica e all’ideologia: spengono il televisore quando parte la sigla del Tg1. Patrizio Peci è nato ad Ascoli Piceno, cresciuto a Ripatransone, sulla collina marchigiana, un borgo di 4mila anime: vi rimane fino al 1962, quando ha nove anni. Suo padre fa il capomastro a San Benedetto del Tronto, che raggiunge ogni mattina in Vespa, poi la decisione di trasferirsi nella cittadina rivierasca. La madre fa l’aiuto cuoca nelle pensioni sul lungomare. Quattro i figli: Patrizio, il maggiore, Ida, di un anno più giovane, quindi Roberto, e nel 1960 l’ultima, Eleonora. Nessuna preoccupazione economica. Tutti grandi lavoratori. A vent’anni Patrizio comincia a portare a casa il quotidiano «Lotta continua»: la madre, religiosissima, glielo straccia. Patrizio è introverso, chiuso, non facile alle amicizie, a scuola va maluccio: è bocciato in seconda elementare, poi è respinto anche alle superiori, all’Istituto tecnico industriale di Fermo, lo stesso del futuro capo delle Brigate rosse Mario Moretti. Accumula anche duecento ore di assenza l’anno, che impiega per perfezionarsi nell’arte del calciobalilla. D’estate fa il cameriere all’Hotel Le Palme guadagnando 180mila lire. L’approdo politico è in Lotta continua, che a San Benedetto occupa le case per destinarle agli ultimi. Ma gli pare velleitarismo, sicché da lì a poco fonda il Pail (Proletari armati in lotta), cominciando a bruciare le macchine dei fascisti, tra cui quella del vicepreside della scuola, presunto ex repubblichino. Un giorno pestano a sangue un professore iscritto al Movimento sociale. Comincia a farsi un nome. La sua preparazione ideologica lascia alquanto a desiderare. Scarse le letture. Il Manifesto di Marx gli è piaciuto «abbastanza». Il suo eroe però è Stalin. Un compagno di scuola, una mattina, lo avvicina: «Senti, ho la possibilità di metterti in contatto con le Brigate rosse. T’interessa?». Gl’interessa sì. È contattato da due operai della Sit-Siemens, giunti a San Benedetto da Milano: d’aspetto serioso, il fare concreto. «Noi siamo le Brigate rosse. Abbiamo visto che voi agite in certi termini. Se volete un dibattito sulla lotta armata clandestina noi siamo interessati. » Peci s’arruola. È il 1974. A Torino non lo conosce nessuno. Che abbia fatto il salto ai vertici delle Brigate rosse è ignoto anche agli inquirenti. L’Ansa lo citerà per la prima volta solo dopo il sequestro Moro. Tra un’azione e l’altra conduce un’esistenza di avvilente isolamento, mangiando in bettole infime e compiendo periodici pedinamenti. La mattina compra due giornali, «La Stampa» e «la Repubblica», e di preferenza va alle pagine sportive. «La vita era veramente monotona, ci era proibito quasi tutto quello che fa la gente normale. Io, per esempio, con tutta la mia passione per il calcio e per di più essendo tifoso della Juventus e abitando per un certo periodo vicino allo stadio, non ho mai, dico mai, potuto andare alla partita, e sì che mi sarebbe piaciuto. Una volta ho dovuto quasi picchiare un bagarino, tanto insisteva per darmi un biglietto. “Ma perché insiste tanto?” mi chiedevo. Poi ho capito che insisteva perché vedeva la tentazione nei miei occhi, poveretto. Poveretto anch’io, ridotto a ronzare intorno allo stadio, pieno di desiderio, senza poterci entrare a vedere Bettega e Cabrini, che erano i miei idoli. Non potevo entrare perché c’era il pericolo di perquisizioni; oppure poteva scoppiare una rissa e tu finire dentro, o potevi rimanere ferito e da lì in galera, perché una pistola e un documento falso ce l’avevi sempre. Neanche la Juve valeva tanto. Allora si rimaneva in casa a tifare alla televisione. Mi arrabbiavo solo quando qualche compagno nel bel mezzo della partita si metteva a fare i soliti discorsi sui guadagni dei calciatori. Sempre ficcare la politica dappertutto, anche mentre guardi la partita.»

Nel 1977 le Brigate rosse esistono da sette anni. Le ha fondate a Milano l’ex studente della facoltà di Sociologia di Trento Renato Curcio, nel novembre del 1970. Il primo nucleo nasce alla Pirelli con il nome di Brigata rossa. Decisiva è stata la bomba piazzata alla Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano (sedici morti e ottantotto feriti), il 12 dicembre 1969, interpretata dai movimenti studenteschi ed extraparlamentari come «una strage di Stato», volta a spezzare per via autoritaria i grandi moti sessantottini e operai. Il dibattito su un possibile golpe in Italia si è fatto nei mesi successivi sempre più intenso. Le Brigate rosse si propongono inizialmente come reazione militare a questo pericolo: occorre rispondere con le loro stesse armi.
Non è una congrega di intellettuali, nemmeno tra i capi più noti: Curcio, forse il più colto di tutti, non si è mai laureato, fermandosi a 23 esami; Mario Moretti ha fatto l’istituto tecnico, Valerio Morucci l’alberghiero, Alberto Franceschini ha appena messo il naso alla facoltà di Ingegneria. Fino al 1972 irradiano la loro presenza nelle fabbriche milanesi, Pirelli e Siemens, e in alcuni quartieri della desolata periferia milanese, Lorenteggio e Quarto Oggiaro, disseminando volantini o brevi documenti con autointerviste. Il 3 marzo 1972 la prima azione, a Milano: il sequestro dell’ingegner Idalgo Macchiarini, dirigente della Sit-Siemens, prelevato di fronte allo stabilimento. È fotografato con una rivoltella puntata sulla guancia e un cartello con la scritta «niente resterà impunito». Sottoposto a interrogatorio sui processi di ristrutturazione nella fabbrica, è poi rilasciato. Il 2 maggio lo Stato si muove con una rilevante operazione di polizia, ma quasi tutti i militanti riescono a sottrarsi, rifugiandosi nella clandestinità. Un anno dopo, dal 10 al 18 dicembre 1973, c’è il battesimo delle Br a Torino: il sequestro del capo del personale della Fiat, Ettore Amerio.
Il 18 aprile 1974, a Genova, è rapito il giudice Mario Sossi. È la prima azione nazionale, di finalità politiche generali. Eco enorme. Viene diffuso un opuscolo: «Contro il neo-gollismo portare l’attacco al cuore dello Stato». Il 17 giugno 1974, a Padova, nel corso di un’incursione nella sede missina di via Zabarella, vengono uccisi due militanti di destra, Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola. Sono i primi morti a opera delle Brigate rosse. Alla fine degli anni di piombo saranno 128, per mano di tutte le organizzazioni terroristiche di sinistra. L’8 settembre 1974, al passaggio a livello di Pinerolo, Curcio è arrestato insieme ad Alberto Franceschini, traditi dalla trappola di un infiltrato, frate Silvano Girotto, detto frate Mitra. Dentro ci resta poco. Viene liberato il 18 febbraio 1975 dopo l’assalto, senza sparare un colpo, al carcere di Casale Monferrato. Del commando che conduce l’operazione fa parte anche sua moglie, la cattolica Margherita Mara Cagol, conosciuta sui banchi della facoltà di Sociologia a Trento.
Il 15 maggio 1975, la prima gambizzazione: Massimo De Carolis, consigliere comunale dc a Milano. Il 4 giugno 1975 cominciano i sequestri per autofinanziamento: ne fa le spese l’industriale Vallarino Gancia. All’indomani, nel corso di un conflitto a fuoco, viene ferito mortalmente l’appuntato dei carabinieri Giovanni d’Alfonso. È uccisa Mara Cagol. Ha 30 anni. Curcio farà depositare sulla sua tomba a Trento un mazzo di fiori anonimo. La colonna di Torino assumerà il suo nome. Curcio è di nuovo arrestato il 18 febbraio 1976, sorpreso in un appartamento di via Maderno a Milano. Non uscirà più dal carcere fino al 1993, quando otterrà la semilibertà. L’8 giugno 1976 le Br uccidono il procuratore generale di Genova, Francesco Coco, e i due uomini della sua scorta, Antioco Dejana e Giovanni Saponara. È rivendicata come «un’azione di disarticolazione politica e militare delle strutture dello Stato». Il 15 dicembre 1976 a Milano, intercettato dalla polizia durante una visita alla famiglia, Walter Alasia, detto Luca, un militante clandestino delle Br, figlio di operai, cresciuto nella cintura urbana, ingaggia un conflitto a fuoco con la polizia. Uccide due sottufficiali, Sergio Bazzega e Vittorio Padovani, e muore a sua volta. La colonna milanese prenderà il suo nome. Ma tra molti intellettuali e giornalisti il pericolo brigatista non viene percepito, reputando i terroristi dei delinquenti al soldo della destra reazionaria. Anche Giorgio Bocca, forse il giornalista più moderno della sua generazione, prende un colossale abbaglio (poi riconosciuto): «A me queste Brigate rosse fanno un curioso effetto, di favola per bambini scemi o insonnoliti; e quando i magistrati e gli ufficiali dei carabinieri e i prefetti ricominciano a narrarla, mi viene un’ondata di tenerezza perché la favola è vecchia, sgangherata, puerile, ma viene raccontata con tanta buona volontà che proprio non si sa come contraddirla». Non ci arriva per anni nemmeno il Pci, che continua a ripetere: «Non sono di sinistra». «Sono fascisti.» «Li paga la Cia.» Valga per tutti quello che disse Enrico Berlinguer il 18 marzo 1972 commentando il ritrovamento del cadavere di Giangiacomo Feltrinelli: «Dobbiamo essere vigilanti contro le centrali di provocazione italiane e straniere. Siamo pronti a batterci su tutti i terreni, mobilitando le grandi masse popolari, che hanno saputo respingere altre minacce, altri complotti». Un ritornello replicato per anni.

Ogni mattina alle dieci, indossato l’impermeabile, accesa la terza o quarta sigaretta e presa la borsa straripante di carte e libri, Carlo Casalegno, 61 anni, vicedirettore del quotidiano «La Stampa», lascia l’abitazione di corso Re Umberto 54 a Torino, s’infila sulla 125 azzurra e raggiunge la redazione di corso Marenco. Lo chiamano il professore, per la vasta cultura e per gli anni d’insegnamento trascorsi tra il 1942 e il 1946 al liceo scientifico Palli di Casale Monferrato, dov’è stato docente di italiano, latino e storia. Una figura signorile, di idee moderate, amico personale di Ugo La Malfa. In redazione si dice che voti per il Pri. Tiene sin dal 1969 una rubrica, Il Nostro Stato, assegnatagli dall’allora direttore Alberto Ronchey, che esce ogni mercoledì con la foto accanto al titolo. Vi è ritratto un uomo con i capelli all’umberta, lo sguardo mite, lievemente sorridente, gli occhi miopi nascosti dietro gli occhiali dalla montatura dorata. È uno spazio di analisi politica, di prosa nitida e scabra, dove a partire dalla strage di piazza Fontana prevale la preoccupazione per l’incerto avvenire della democrazia repubblicana, messa in crisi dall’offensiva terroristica e dai continui allarmi golpisti. Anni tormentati, di recessioni e bombe. L’insorgenza potente dell’eversione, di destra e di sinistra, occupa buona parte delle riflessioni di Casalegno. È praticamente l’unico in Italia a farlo, settimanalmente, da una tribuna così autorevole.
Nel giugno 1976, all’indomani dell’assassinio del procuratore Coco, scrive: «Possono solo uccidere, ma politicamente sono già sconfitti». «La Stampa» vende 355mila copie: il secondo quotidiano italiano dopo il «Corriere della Sera» di Piero Ottone (560mila copie). Casalegno è figlio della Torino azionista, che ha avuto il suo epicentro al liceo D’Azeglio, dove negli anni del fascismo hanno studiato Norberto Bobbio, Massimo Mila, Giancarlo Pajetta, Giulio Einaudi. Nel giugno del 1935 si è diplomato con la media del nove. Il padre, Giuseppe, piccolo proprietario terriero, alla morte ha lasciato tutti i possedimenti in beneficenza ai poveri; la madre, Vittoria Bolmida, è figlia di un avvocato. Nel 1939 la laurea in letteratura francese, con il professor Ferdinando Neri, con il quale si erano laureati anche Franco Antonicelli, Cesare Pavese e Leone Ginzburg. Discute una tesi con lode sullo scrittore Georges Duhamel. All’università ha conosciuto Anna Maria Salvatorelli, studentessa dello stesso corso (si laurerà con una tesi su Anatole France), figlia dello storico delle religioni Luigi. Si sposano nel luglio del 1940. Lui ha 26 anni, lei 21. Il 29 novembre 1944 nasce Andrea, il loro unico figlio. Istintiva l’avversione al fascismo. Come tanti intellettuali democratici nell’ottobre del 1942 s’è iscritto al Partito d’azione, dove militano Alessandro Galante Garrone, con cui intreccerà un’amicizia per la vita, Giorgio Agosti, Mario Andreis, Ada Gobetti, Aldo Bertini. A Torino il partito nacque attraverso la fusione del vecchio nucleo di Giustizia e Libertà (GL) e un gruppo di giovani: Casalegno, Vincenzo Ciaffi, Carlo Mussa Ivaldi, Oscar Navarro, Silvia Pons, Raf Vallone. Nominato leader del movimento giovanile di GL, aderisce senza tentennamenti alla lotta partigiana, abbandonando perciò l’insegnamento. «Non so se e quando rivedrò mio figlio» spiega il padre in una cartolina postale di risposta al preside che reclamava la restituzione di alcuni libri. Assume la carica di ispettore del comando regionale delle formazioni di GL. Tessera numero 40 del Comitato liberazione nazionale del Piemonte. Finita la guerra partecipa alla fondazione di «GL», il quotidiano del Partito d’azione, diretto dallo storico Franco Venturi. Nel 1947 Giulio De Benedetti, il mitico ciuffettino, lo chiama alla «Stampa», affidandogli la responsabilità della sezione esteri e conferendogli in aggiunta l’incarico di responsabile delle pagine culturali. Alleva giovani cronisti alle prime armi come Giampaolo Pansa («un maestro paziente, ma molto operativo: quando nel 1963 lo chiamai da Longarone si congratulò: “Bravo, stai facendo le cose che gli altri non fanno”»). E gode nel contempo del rispetto delle grandi firme. Nel 1950 Giovanni Giovannini, inviato di esteri, non riuscì a trasmettere la sua corrispondenza dai Balcani e la sera tardi chiamò disperato Casalegno riuscendo a comunicargli solo brandelli di notizie. «Era in gioco il mio prestigio, ma all’indomani il pezzo apparve miracolosamente in prima pagina, firmato dal nostro inviato. L’aveva ricreato lui. Non me lo fece mai pesare.»

Lo sanno i terroristi, che ne raccolgono beffardi gli articoli, che Carlo Casalegno ha fatto il partigiano?

Nel 1977 il figlio di Casalegno, Andrea, ha 33 anni. Si è laureato in legge nel dicembre del 1968 con il professor Marcello Gallo, poi ha fatto l’assistente di Norberto Bobbio. Il filosofo è amico del padre, anche suo figlio Luigi è molto amico di Andrea. Milita in Lotta continua, dopo un breve passaggio nel Psiup. È rimasto orfano di madre a quattro anni: Anna Maria Salvatorelli è morta nell’ottobre 1948, a soli ventinove anni. Nel 1967 ha partecipato all’occupazione di palazzo Campana. «La rivolta studentesca è stata rivolta contro i padri: valeva anche per me. Ne ero consapevole già allora.» Il 28 giugno 1970 il matrimonio con Elisabetta Andreoli, un grande amore. Due i figli, Nicola, nato nel 1971, Roberto nel 1974. Il rapporto con il padre è civile, ma tipico del pudore che caratterizza i sentimenti sabaudi: stima reciproca e profonda unita però a una scarsissima abitudine al dialogo. Andrea trascorre le vacanze con i nonni Salvatorelli. «Se ripenso alla mia infanzia mi accorgo che mio padre non ha mai giocato con me.» È cresciuto vedendolo poco, prima nella casa di corso Galileo Ferraris, fino al 1955, poi in corso Vittorio Emanuele, quindi il trasloco in corso Re Umberto: sempre in affitto. «Sia a pranzo che a cena mio padre tornava sempre dopo di me.» Carlo Casalegno s’è sposato una seconda volta nel 1949 con Anita Penati, da cui s’è separato pochi anni dopo. L’unione sarà annullata dalla Sacra Rota. Il 13 gennaio 1963 ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Ali di piombo