Le guerre
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Le guerre

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La storia romana, è stato autorevolmente sostenuto, si può dividere in prima e dopo Cesare. La sua figura ha segnato il destino delle civiltà romana ed europea. Stratega lucidissimo, cui solo Alessandro il Grande e Napoleone possono essere paragonati, conquistò in soli sette anni la Gallia, trasformandola per sempre in terra latina. Dopo una cruenta guerra civile diede inizio a un'autocrazia che durò quattro secoli, tanto che il suo nome, da cui derivano le parole Kaiser e zar, divenne sinonimo di potere. Ma oltre che uomo di guerra Cesare fu anche, secondo l'opinione di Cicerone, oratore impareggiabile e raffinato prosatore. Le sue opere storiche ne sono testimonianza: i sette libri della Guerra gallica raccontano di come la spedizione punitiva contro lo sconfinamento degli Elvezi si trasformò in una calcolata guerra di conquista, e i tre della Guerra civile narrano lo scontro con Pompeo e il senato fino alla tragica morte di Pompeo in Egitto. La Guerra di Alessandria, la Guerra d'Africa e la Guerra di Spagna, redatte da ufficiali dello stato maggiore cesariano sulla base di suoi appunti, continuano il resoconto della lunga guerra contro i resti della fazione pompeiana fino al trionfo finale.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858665367

LA GUERRA GALLICA

Traduzione di Fausto Brindesi.
Note di Ettore Barelli.
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LIBRO PRIMO

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1. La Gallia, nel suo insieme, è divisa in tre parti:1 una abitata dai Belgi, un’altra dagli Aquitani, la terza dai popoli chiamati localmente Celti e da noi Galli. Essi differiscono tra loro per linguaggio, istituzioni e leggi. Il fiume Garonna separa i Galli dagli Aquitani; la Senna e la Marna li dividono dai Belgi. Di questi popoli i più forti sono i Belgi, che sono i più lontani dalla cultura e dalla civiltà della nostra Provincia; molto di rado essi vengono visitati dai mercanti, i quali, perciò, non vi introducono le merci atte ad infiacchire i costumi; confinano con i Germani d’oltre Reno e con essi sono continuamente in guerra. Per questa stessa ragione anche gli Elvezi2 superano per valore gli altri Galli: anch’essi combattono quasi ogni giorno contro i Germani, sia per tenerli lontani dalle proprie terre, sia perché essi stessi invadono le loro. La parte che abbiamo detto appartenere ai Galli comincia al fiume Rodano, ha per confine il fiume Garonna, l’Oceano, il territorio dei Belgi, tocca il Reno dalla parte dei Sequani3 e degli Elvezi ed è orientata verso nord. Il paese dei Belgi dai più lontani territori della Gallia si estende fino al corso inferiore del Reno ed è rivolto verso nord-est. L’Aquitania si estende dalla Garonna ai Pirenei e a quella parte dell’Oceano che è volta verso la Spagna; guarda verso nord-ovest.

2. Orgetorige era molto superiore, per nobiltà e ricchezza, a tutti gli altri principi dell’Elvezia. Durante il consolato di M. Messala e M. Pisone,4 indotto dalla speranza di diventare re, convinse i nobili a una lega e persuase il popolo a uscire in massa dal proprio territorio: sarebbe stato molto facile per loro, che superavano per valore tutti gli altri, impadronirsi della Gallia. Li persuase tanto più facilmente, perché gli Elvezi sono chiusi tutti intorno dalla posizione naturale del paese: da una parte dal fiume Reno, larghissimo e molto profondo, che separa il paese degli Elvezi dai Germani; dall’altra parte dal Giura, catena di monti altissimi, che li divide dai Sequani; dal terzo lato dal lago Lemano e dal fiume Rodano, che segnano il confine con la nostra Provincia. Per questa conformazione del paese essi non potevano muoversi che in un tratto limitato ed era difficile per loro portare guerra ai popoli confinanti, il che, per gente avida di combattere, era motivo di grande malcontento. Essi pensavano, inoltre, che il territorio di cui disponevano, lungo duecentoquaranta miglia e largo centottanta, fosse troppo angusto in rapporto al numero della popolazione, alla loro gloria militare e alla loro forza.

3. Spinti, dunque, da queste ragioni e influenzati dall’autorità di Orgetorige, decisero di preparare tutto ciò che era necessario per la partenza: acquistare quanti più giumenti e carri fosse possibile, seminare la massima quantità di grano, per avere scorte sufficienti per il viaggio, rafforzare i vincoli di pacifica amicizia con le genti più vicine. Ritennero che per questi preparativi bastassero due anni; il terzo, con una deliberazione pubblica fissarono per la partenza. Orgetorige, scelto per predisporre ogni cosa, si assunse il compito di recarsi come ambasciatore presso i popoli vicini. Durante questo viaggio convinse Castico, figlio di Catamantalede, sèquano, il cui padre era stato per molti anni re dei Sequani e aveva avuto dal senato romano il titolo di amico, ad assumere la carica tenuta prima dal padre; nello stesso modo spinse Dumnorige, eduo, fratello di Diviziaco, 5 che godeva allora della più grande autorità tra i suoi ed era molto benvoluto dal popolo, a tentare la stessa cosa, e gli diede in moglie sua figlia. Dimostrò loro che sarebbe stato molto facile realizzare quei progetti, perché anch’egli stava per ottenere la signoria assoluta sul suo popolo: non vi era dubbio che gli Elvezi fossero i più potenti di tutta la Gallia ed egli con il suo esercito e i suoi mezzi avrebbe loro assicurato il potere. Persuasi da questo discorso, si scambiarono giuramento di fedeltà, nella speranza di potersi impadronire di tutta la Gallia una volta a capo dei tre popoli più potenti e più forti.

4. Qualche delatore riferì questo piano agli Elvezi: essi, secondo il loro costume, imprigionato Orgetorige, lo sottoposero a processo: se fosse stato riconosciuto colpevole, sarebbe stato condannato al rogo. Nel giorno fissato per il dibattimento, Orgetorige fece intervenire tutti i suoi familiari e servi, circa diecimila, nonché tutti i clienti6 e i debitori, che aveva numerosissimi: grazie alla loro presenza si sottrasse al processo. Mentre il popolo, indignato, si accingeva a far osservare le sue leggi con le armi, e i magistrati si disponevano a far affluire molti uomini dalle campagne, Orgetorige morì: né mancò il sospetto, fra gli Elvezi, che si fosse ucciso da se stesso.
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5. Malgrado la morte di Orgetorige, gli Elvezi insistettero nel loro progetto di emigrazione. Quando ritennero di essere pronti, dettero fuoco a tutte le loro città, una dozzina, ai villaggi, quasi quattrocento, a tutte le altre costruzioni isolate; bruciarono tutto il grano, tranne quello che dovevano portare con sé, per essere così, tolta la speranza di poter tornare in patria, più decisi ad affrontare ogni rischio e ordinarono a ciascuno di portarsi grano macinato per tre mesi. Persuasero, poi, i Rauraci, i Tulingi, i Latovici, loro confinanti, a prendere la stessa decisione, bruciare le città e i villaggi e unirsi a loro; accolsero, infine, come compagni e alleati per l’impresa i Boi, che prima stavano oltre il Reno e poi, passati in territorio Norico, avevano assediato Noreia.7

6. Vi erano in tutto due strade per poter uscire dal loro paese, una attraverso le terre dei Sequani, fra il monte Giura e il Rodano, tanto stretta e difficile che a stento vi poteva passare un carro per volta; dominata com’era da un monte altissimo, pochissimi uomini avrebbero potuto impedirne il passaggio. L’altra attraverso la nostra Provincia, molto più agevole e aperta, perché fra le terre degli Elvezi e quelle degli Allobrogi, da poco domati, scorre il Rodano che in molti punti può essere attraversato a guado. La città degli Allobrogi, posta più a nord e più vicino al territorio degli Elvezi, è Ginevra: un ponte la unisce al paese degli Elvezi. Questi speravano di poter attirare dalla loro parte gli Allobrogi, che non sembravano ancora completamente pacificati coi Romani;8 in caso contrario, li avrebbero costretti con la forza a permettere loro il passaggio. Finiti i preparativi stabilirono di radunarsi tutti alla riva del Rodano il ventotto marzo dell’anno del consolato di L. Pisone e A. Gabinio.9

7. Appena Cesare seppe che gli Elvezi avevano intenzione di passare attraverso la nostra Provincia, si affrettò a partire da Roma e, marciando a tappe forzate verso la Gallia Transalpina, arrivò a Ginevra. Dispose che da tutta la Provincia gli si presentasse il contingente massimo di soldati che egli poteva richiedere (in tutta la Gallia vi era una sola legione) e fece distruggere il ponte vicino alla città. Gli Elvezi, informati del suo arrivo, gli mandarono come ambasciatori i più nobili della loro gente (a capo della legazione erano Nammeio e Veruclezio), incaricati di dirgli che, non avendo nessuna altra via, avevano intenzione di attraversare la Provincia, senza apportare alcun danno: lo pregavano, quindi, di autorizzare il loro passaggio. Cesare, che ricordava come dagli Elvezi il console L. Cassio era stato ucciso e il suo esercito sconfitto e costretto a passare sotto il giogo,10 non riteneva di dover concedere nulla e pensava che quegli uomini dall’animo ostile, se avessero avuto il permesso di attraversare la Provincia, non si sarebbero astenuti dal recar danni d’ogni genere. Tuttavia, per guadagnare tempo, in attesa dell’arrivo dei soldati di cui aveva ordinato il concentramento, rispose agli ambasciatori che si riservava qualche giorno per decidere e che ritornassero quindi, per avere una risposta precisa, il tredici aprile.

8. Intanto, servendosi della legione che aveva con sé e dei soldati venuti dalla Provincia, fece costruire, dal lago Lemano, le cui acque si versano nel Rodano, fino al monte Giura, che divide i Sequani dagli Elvezi, per una lunghezza di diciannove miglia, un muro alto sedici piedi, preceduto da un fossato. Finita la linea di difesa, dispose i presidi e fece costruire dei bastioni per potersi opporre agli Elvezi, qualora essi avessero tentato di passare contro la sua volontà. Quando giunse il giorno fissato agli ambasciatori e questi gli si presentarono, disse loro che seguendo il costume e le leggi del popolo romano egli non poteva permettere a nessuno il passaggio attraverso la Provincia e aggiunse che se avessero tentato il passaggio di viva forza, lo avrebbero trovato pronto a respingerli. Gli Elvezi, perduta questa speranza, cercarono di passare il fiume per mezzo di barconi uniti insieme e di zattere, costruite in gran numero, e tentando il guado dove il Rodano era meno profondo: rinnovarono i loro attacchi di giorno e più spesso di notte; ma di fronte all’ostacolo della linea di difesa e della reazione dei nostri, desistettero dai loro tentativi.

9. Rimaneva così solo la strada attraverso le terre dei Sequani, ma data la sua strettezza, non potevano certo percorrerla contro la loro volontà. Non riuscendo a persuaderli, mandarono ambasciatori a Dumnorige, eduo, per poter ottenere dai Sequani il permesso per sua intercessione. Dumnorige era molto potente fra i Sequani per il favore di cui godeva e le largizioni di cui era prodigo ed era amico degli Elvezi per aver sposato una donna di quel popolo, la figlia di Orgetorige; spinto, poi, dall’ambizione di dominio, era favorevole alle novità e voleva legare a sé con benefici quanti più popoli poteva. Si assunse perciò l’incarico e ottenne dai Sequani, per gli Elvezi, l’autorizzazione ad attraversare il loro territorio, previo scambio di ostaggi: dei Sequani, a garanzia del passaggio, e degli Elvezi, perché non arrecassero danni né offendessero nessuno.

10. A Cesare venne riferito che gli Elvezi avevano intenzione di passare, attraverso le terre dei Sequani e degli Edui, nella regione dei Santoni,11 confinanti coi Tolosati, popolo compreso nella Provincia. Capiva che, se ciò fosse avvenuto, sarebbe stato molto pericoloso per la Provincia avere per vicini, in regioni piane e fertilissime, genti bellicose e nemiche dei Romani. Per questa ragione diede al legato T. Labieno12 il comando della linea fortificata che aveva costruito e con veloci marce tornò in Italia, vi arruolò due legioni, fece uscire dai quartieri d’inverno le tre che erano nei pressi di Aquileia, e con queste cinque legioni ritornò in Gallia, passando per la strada più breve, attraverso le Alpi. Qui i Ceutroni, i Graioceli e i Caturigi,13 occupate le posizioni più elevate, cercarono di impedire all’esercito il passaggio. Ma Cesare li respinse in parecchi combattimenti e in sei giorni da Ocelo,14 il punto estremo della Gallia citeriore, raggiunse le terre dei Voconzi, nella Provincia transalpina; da dove condusse l’esercito tra gli Allobrogi, poi dagli Allobrogi ai Segusiavi, che sono il primo popolo fuori della Provincia, oltre il Rodano.

11. Gli Elvezi avevano già fatto passare alle loro truppe le strette gole montane e, attraverso le terre dei Sequani, avevano raggiunto il paese degli Edui e ne devastavano i campi. Questi, non essendo in grado di difendere né le loro vite né le loro proprietà, mandarono ambasciatori a Cesare, invocando aiuto: essi avevano sempre avuto molti meriti verso il popolo romano15 e non si poteva permettere che, quasi sotto gli occhi del nostro esercito, i loro campi fossero devastati, i figli tratti in schiavitù, le città espugnate. Contemporaneamente gli Ambarri, popolo amico e affine agli Edui, informarono Cesare che le loro terre erano state devastate ed era per loro difficile difendere dagli attacchi dei nemici le proprie città. Nello stesso modo gli Allobrogi, che avevano i villaggi e i campi oltre il Rodano, fuggirono e si rifugiarono da Cesare, dicendo che nulla era rimasto loro se non la terra. A queste notizie Cesare capì di non dover attendere che gli Elvezi giungessero nelle terre dei Santoni, dopo aver distrutte tutte le ricchezze degli alleati di Roma.

12. Vi è un fiume, la Saona, che, scorrendo lungo le terre degli Edui e dei Sequani, si versa nel Rodano con un corso così lento che non si può stabilire a prima vista il senso della corrente. Gli Elvezi lo stavano attraversando, servendosi di zattere e di piccoli battelli legati insieme. Appena Cesare fu informato dai suoi esploratori che tre quarti degli Elvezi avevano passato il fiume e la quarta parte soltanto restava al di qua, partì, durante la notte, dall’accampamento e raggiunti gli Elvezi che non avevano ancora attraversato il fiume li assalì all’improvviso, sorprendendoli mentre erano carichi dei bagagli: molti ne uccise, gli altri si diedero alla fuga, nascondendosi nei boschi vicini. Appartenevano, questi, alla tribù dei Tigurini (la nazione degli Elvezi è, infatti, divisa in quattro tribù), che al tempo dei nostri padri, usciti dal loro territorio, avevano ucciso il console L. Cassio e costretto il suo esercito a passare sotto il giogo. Così, non so se per caso o per volontà degli dei immortali, quella parte del popolo elvetico che aveva inflitto una dura sconfitta al popolo romano, fu la prima a pagarne la pena. E in questa azione Cesare non vendicò solo le offese pubbliche, ma anche quelle private, perché il legato L. Pisone, avo di suo suocero L. Pisone, era caduto, per mano dei Tigurini, nella stessa battaglia in cui era morto Cassio.16
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13. Dopo questo combattimento, per inseguire il resto dell’esercito elvetico, Cesare fece costruire un ponte sulla Saona e vi fece passare le sue truppe. Gli Elvezi furono molto stupiti alla notizia del suo arrivo, constatando che il passaggio del fiume, che era costato loro venti giorni di aspra fatica, era stato, invece, effettuato dai Romani in un giorno solo. Subito gli mandarono un’ambasceria capeggiata da Divicone, che era stato il comandante degli Elvezi nella guerra contro Cassio. Costui fece a Cesare queste proposte: se il popolo romano voleva fare la pace con loro, essi sarebbero andati nel luogo che Cesare avesse loro assegnato e da lì non si sarebbero più mossi; ma se Cesare insisteva nel continuare la guerra si ricordasse del disastro toccato una volta ai Romani e non dimenticasse la tradizione di valore degli Elvezi. Egli aveva assalito all’improvviso una sola tribù, quando quelli che avevano passato il fiume non potevano portare aiuto ai compagni: per quest’azione non doveva, quindi, presumere troppo del suo valore militare, né disprezzare il suo nemico. Gli Elvezi avevano appreso dai loro padri e dai loro antenati a fare affidamento, nelle battaglie, più sul valore personale che sugli inganni e sugli agguati. Perciò non offrisse l’occasione alla località in cui si erano fermati di dare il nome a una nuova sconfitta del popolo romano e alla distruzione del suo esercito.

14. A queste parole Cesare così rispose: ben poco egli aveva da esitare perché tutto quello che gli Elvezi gli avevano ricordato era ben fisso nella sua mente e con tanto più dolore quanto meno per colpa dei Romani il fatto era accaduto: ai Romani, infatti, non sarebbe stato allora difficile prendere le necessarie precauzioni se avessero avuto coscienza di aver mai offeso gli Elvezi; essi erano stati colti di sorpresa, perché non sapevano di aver commesso qualcosa per cui temere, né pensavano di dover temere senza ragione. Se poi egli avesse voluto dimenticare le antiche offese, avrebbe forse potuto dimenticare le offese recenti, il loro tentativo di forzare, contro la volontà dei Romani, il passaggio per la Provincia, i danni arrecati agli Edui, agli Ambarri, agli Allobrogi? Che essi potessero gloriarsi con tanta insolenza della loro vittoria e meravigliarsi di essere sfuggiti per tanto tempo al castigo, dipendeva da una sola ragione; che gli dei immortali, a coloro che vogliono punire per qualche delitto, talvolta concedono maggiore prosperità e più lunga impunità, perché più gravemente si debbano dolere della mutata fortuna. Pur tuttavia se, a garanzia delle proprie promesse, avessero dato degli ostaggi, e risarcito gli Edui, gli Allobrogi e i loro alleati dei danni ad essi recati, egli era disposto a concludere la pace. Divicone rispose che gli Elvezi avevano imparato dai loro antenati a prendere e non a consegnare ostaggi: di ciò il popolo romano poteva essere testimone. Ciò detto partì.

15. Il giorno dopo gli Elvezi tolsero il campo da quel luogo; imitati in ciò da Cesare che si fece precedere dalla sua cavalleria, costituita da quattromila uomini, raccolti in tutta la Provincia e tra gli Edui ed i loro alleati, col compito di vedere quale fosse la direzione di marcia del nemico. La cavalleria ne inseguì con troppa foga la retroguardia e venne a combattimento, in posizione sfavorevole, con la cavalleria degli Elvezi: alcuni dei nostri caddero. Ma gli Elvezi, imbaldanziti per questo successo, poiché con cinquecento cavalieri avevano respinto un numero così grande di avversari, cominciarono a fermarsi di tanto in tanto con più audacia e a provocare i nostri con azioni di retroguardia. Cesare tratteneva i suoi dal combattere e per il momento si accontentava di impedire ai nemici rapine, devastazioni e la possibilità di rifornirsi di foraggio. Marciarono così per circa quindici giorni, sempre in modo che tra la retroguardia dei nemici e la nostra avanguardia non vi fossero più di cinque o sei miglia di distanza.

16. Ogni giorno intanto richiedeva agli Edui il frumento che con promesse ufficiali essi si erano impegnati di consegnare. Per il freddo, infatti – la Gallia, come abbiamo detto, è un paese settentrionale –, non solo le messi nei campi non erano ancora mature, ma non vi era neppure una quantità sufficiente di foraggio; di quel grano poi, che aveva fatto trasportare con le imbarcazioni sulla Saona, non poteva servirsi perché gli Elvezi si erano, nella loro marcia, allontanati dal fiume ed egli li aveva seguiti non volendo perderli di vista. Gli Edui rimandavano di giorno in giorno, dicendo che già il grano veniva raccolto, che i trasporti erano partiti, che i carichi stavano per arrivare. Ma quando Cesare capì che lo si voleva ingannare e che era vicino il giorno in cui bisognava provvedere alla distribuzione mensile del frumento ai suoi uomini, convocò i capi degli Edui, che nel suo campo erano molti, tra i quali Diviziaco e Lisco – quest’ultimo il più alto magistrato, quello che gli Edui chiamano vergobreto e, eletto annualmente, ha sui cittadini diritto di vita e di morte – ; li accusò aspramente, perché in un momento in cui non poteva né comprare né prelevare dai campi il grano mentre le necessità stringevano e i nemici erano così vicini, essi non lo aiutavano; né consideravano che egli aveva intrapreso la guerra soprattutto spinto dalle loro preghiere: anche più vivamente, ancora, si lamentò di essere stato tradito.

17. Allora finalmente Lisco, spinto dal discorso di Cesare, espose ciò che prima aveva tenuto nascosto; vi erano certuni – egli disse – che godevano di grande autorità presso la plebe e, sebbene privati cittadini, erano ascoltati più degli stessi magistrati: costoro distoglievano gli Edui dal consegnare il grano dovuto, dicendo, con discorsi maligni e sediziosi, che era meglio, dal momento che non potevano essere il popolo predominante nella Gallia, sottostare ad altri Galli piu...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. I COMMENTARI CESARIANI, UN’INTRODUZIONE
  5. GAIO GIULIO CESARE
  6. CRONOLOGIA
  7. BIBLIOGRAFIA
  8. NOTA AL TESTO
  9. LA GUERRA GALLICA
  10. LA GUERRA CIVILE
  11. LA GUERRA DI ALESSANDRIA
  12. LA GUERRA D’AFRICA
  13. LA GUERRA DI SPAGNA