I nemici della Repubblica
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I nemici della Repubblica

Storia degli anni di piombo

  1. 904 pagine
  2. Italian
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I nemici della Repubblica

Storia degli anni di piombo

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Tra la fine degli anni Sessanta e gli Ottanta, l'Italia fu scossa da una serie di attacchi di diversa matrice ideologica: attentati, trame golpiste, lotta armata condotta da gruppi clandestini. Come fu vissuta la ferocia degli "anni di piombo"? In che modo è stata fatta giustizia? Vladimiro Satta, storico che da anni si concentra su questi temi e ha maturato una profonda conoscenza della documentazione in materia, ricostruisce in questo libro un periodo oscuro del nostro Paese. Carte alla mano, Satta smentisce molti luoghi comuni di destra e sinistra, puntando l'attenzione non soltanto sui nemici della Repubblica, ma anche sui poteri pubblici e su come sono riusciti a difendere Stato e cittadini.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2016
ISBN
9788858683477
Argomento
Storia

1

Le condizioni di partenza

1. Protesta sociale e violenza negli anni Sessanta: lineamenti

Il periodo che va dall’inizio degli anni Sessanta alle prime settimane del 1968 era stato un’epoca abbastanza pacifica nel nostro Paese, a eccezione dell’Alto Adige che aveva le sue peculiarità etniche e geografiche. Nel resto del territorio italiano non si verificarono né attentati esplosivi cruenti né omicidi politici premeditati. Si registrarono aggressioni – più da parte di militanti di destra contro quelli di sinistra che il contrario – ma non molto frequenti e quasi sempre senza conseguenze particolarmente gravi. Gli scontri tra manifestanti e forze di polizia, che negli anni Quaranta e Cinquanta erano stati duri e avevano provocato parecchi decessi e ferimenti, si erano diradati e attenuati. Non ci furono morti in piazza dal 1962 (anno in cui il 28 maggio la polizia aprì il fuoco contro operai che usavano armi improprie a Ceccano, in provincia di Frosinone, uccidendo uno di loro e ferendone cinque; e il 27 ottobre a Milano investì uno studente con un automezzo nel corso di un carosello fatto per disperdere i manifestanti) al 1968.1 Il miglioramento si deve alla combinazione di due fattori. Il primo, politicamente collegabile all’avvento del centro-sinistra, fu l’ammorbidimento della condotta delle forze dell’ordine nei confronti dei manifestanti rispetto ai tempi in cui era ministro dell’Interno Mario Scelba; il secondo, una maggiore compostezza da parte dei manifestanti stessi.
L’Italia si distingueva per l’alto livello di libertà civili e politiche garantite ai singoli cittadini e alle associazioni. Sussisteva innanzi tutto – e non venne mai meno – la più larga facoltà di esercitare i diritti politici in maniera democratica. Il sistema elettorale proporzionale con soglia di sbarramento molto bassa offriva una rappresentanza in Parlamento anche a chi riscuoteva consensi esigui. Il livello di governo nazionale era integrato dai livelli comunali e provinciali, cui dal 1970 si affiancherà il livello regionale, secondo le previsioni costituzionali. Le libertà di manifestazione del pensiero erano ampiamente garantite, anche quando venivano messi radicalmente in discussione i fondamenti economico-sociali del Paese, la sfera politica e le istituzioni. L’editoria e la stampa, per lo più in mano ai privati, davano vita a un sistema pluralista nel quale anche i più estremisti avevano modo di farsi sentire. E non soltanto attraverso fogli e riviste semisconosciuti. Uno dei maggiori gruppi editoriali nazionali, infatti, era quello di Giangiacomo Feltrinelli, a buona ragione detto l’«editore-guerrigliero». Invece, negli anni Sessanta il settore radiotelevisivo pubblico era ancora monopolistico. La strettoia sarà tuttavia rimossa verso metà del decennio successivo, con la fine del monopolio Rai e la nascita dapprima delle cosiddette radio libere – spesso politicamente impegnate e tendenti a dare voce soprattutto alle giovani generazioni – e poi delle televisioni private, mentre una legge di riforma dell’emittenza pubblica trasferì il controllo della televisione di Stato dal governo al Parlamento, allargando così il ventaglio delle forze politiche che vi concorrevano. Gli spazi delle libertà costituzionali non si richiusero neppure quando taluni passarono «dalle armi della critica alla critica delle armi». Nei primi anni Settanta, si terranno alla luce del sole congressi di forze politiche nei quali l’argomento all’ordine del giorno sarà la rivoluzione, e sui giornali compariranno appelli firmati ad armare le masse e a «combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato».2
In realtà, negli anni Sessanta la situazione politica e sociale generale non si prestava né a una rivoluzione, né a una sterzata reazionaria. Dopo le tumultuose manifestazioni di piazza che nell’estate 1960 avevano reso insostenibile la posizione dell’esecutivo monocolore democristiano presieduto da Fernando Tambroni e appoggiato in Parlamento dalla destra,3 funestate dalle morti di alcuni dimostranti per mano delle forze di polizia ma politicamente vittoriose, la crisi degli equilibri sui quali si erano retti i governi della Repubblica negli anni Cinquanta non aveva altra soluzione che il passaggio da una coalizione di centro a una di centro-sinistra, vale a dire aperta ai socialisti. La gestazione del centro-sinistra fu lunga e il primo governo imperniato sulla nuova maggioranza si costituì non prima del 1963,4 ma tutti erano consapevoli che ormai il cambiamento era solo questione di tempo. Ne erano consapevoli anche gli oppositori. Il Pci non mobilitò contro il centro-sinistra né le masse – cui invece aveva fatto ricorso per fermare il governo Tambroni – né il proprio apparato paramilitare clandestino, che anzi era in progressivo disarmo, di pari passo con il declino di Pietro Secchia, il principale punto di riferimento politico di tale struttura. La sinistra rivoluzionaria extraparlamentare, che era poca cosa, non vedeva all’orizzonte segni dell’auspicato crollo del capitalismo e, per il momento, era costretta a trattenersi in attesa di tempi migliori. Le organizzazioni terroristiche di sinistra che funestarono gli anni Settanta non si erano ancora formate, e i loro futuri capi erano quasi tutti giovanissimi, qualcuno addirittura minorenne. Lo stesso dicasi della maggioranza dei gruppi che nei primi anni Settanta includeranno la violenza nel loro repertorio e si attrezzeranno per praticarla in forme sempre più incisive, pur non essendosi mai trasformati in bande armate in senso stretto. A destra, il partito monarchico era contrario alla Repubblica per principio ma non intendeva minimamente contrastarla in maniera bellicosa, e quello missino si adattava a un ruolo di opposizione fine a se stessa e non concepiva vie d’uscita dalla propria sterile condizione che andassero al di là della reiterazione di offerte di collaborazione rivolte alla Dc e rifiutate da quest’ultima. A destra del Msi, i neofascisti extraparlamentari di Ordine nuovo, esistente già dagli anni Cinquanta, intorno al 1962-1963 si erano messi a elaborare strategie eversive che, però, richiedevano una lunga preparazione. Il gruppo Ar raccoltosi nel 1963 a Padova intorno al giovane Franco Freda, entrato in contatto con Ordine nuovo nel 1966 e giudicato responsabile della strage di Piazza Fontana nonché di altri attentati del 1969, all’epoca svolgeva attività prettamente culturale ed editoriale. Era più dedita alla violenza spicciola Avanguardia nazionale, costituitasi nel 1960, la quale sebbene a metà del decennio si fosse sciolta formalmente, di fatto aveva continuato a esistere. Il Fronte nazionale del golpista Junio Valerio Borghese nascerà nel 1968.
Nell’estate 1964, quando vi fu una crisi di governo legata a una sorta di braccio di ferro tra Dc e socialisti circa l’indirizzo programmatico del centro-sinistra, le forti preoccupazioni per l’ordine pubblico nutrite dal presidente della Repubblica Antonio Segni furono un’esagerazione, che assurse a fatto di rilievo – con la predisposizione del Piano Solo da parte del generale Giovanni de Lorenzo – unicamente perché l’allora comandante generale dei carabinieri si fece carico delle apprensioni del Quirinale.
Il conflitto sociale, naturalmente, si fece sentire anche nella prima parte degli anni Sessanta. Esso però non fu paragonabile a quello cominciato nel biennio 1968-1969 e proseguito lungo gli anni Settanta, perché fu molto meno diffuso e più discontinuo. L’anno più intenso fu il 1962, caratterizzato dalle trattative per il rinnovo dei contratti dei lavoratori di molti comparti. In quell’anno, le ore di sciopero salirono a livelli che non sarebbero più stati avvicinati fino al 1969 (quando invece furono ampiamente superati) e non mancarono momenti drammatici. Tra questi, i disordini avvenuti in luglio a Torino in piazza Statuto e dintorni, che videro protagonisti gli operai più giovani e si conclusero con un bilancio di centinaia di feriti – ripartiti tra manifestanti e forze dell’ordine – oltre un migliaio di fermi, decine di arresti e di denunce a piede libero, trentasei condanne in tribunale.5 Tuttavia, le manifestazioni di piazza Statuto non produssero uno sciame conflittuale né modificarono la vita in fabbrica, come invece avverrà dopo l’autunno del 1969. A caldo, l’episodio di piazza Statuto fu sconfessato pure da sindacalisti e da intellettuali operaisti quali Vittorio Foa e Raniero Panzieri. La Cgil e la Cisl ne imputarono la responsabilità a gruppi di teppisti, Foa lo considerò una provocazione orchestrata ai danni dei lavoratori,6 e Panzieri lo definì un fenomeno di anarchismo sottoproletario tendente a deviare le lotte operaie dai loro veri obiettivi.7 Altri, però, come Alberto Asor Rosa, si entusiasmarono per la «spallata possente» data dalla classe operaia al «mito grandioso del neocapitalismo italiano»8 e, come notato dalla storiografia, da parte dei sindacati l’iniziale giudizio negativo «andò via via stemperandosi» e «finì col prevalere l’apprezzamento positivo».9
Per quanto riguarda gli aspetti generazionali della conflittualità sociale, che da un certo momento in poi diverranno molto importanti, prima dell’inverno 1967-1968 essi si avvertivano in tono minore. Fino ad allora, c’erano state mobilitazioni giovanili anche massicce le quali, però, non erano state autonome, bensì si erano integrate nel quadro di iniziative avviate o condotte da altre fasce anagrafiche della popolazione.
Nel 1960, a Genova, i «ragazzi con le magliette a strisce» contribuirono grandemente alla protesta di piazza,10 ma la direzione non era nelle loro mani e le motivazioni – l’opposizione a Tambroni e l’antifascismo – erano farina del sacco dei più attempati. A piazza Statuto, nel 1962, di nuovo i giovani erano stati massa d’urto e non promotori di una lotta che era nettamente più operaia che generazionale.
L’egemonia sui giovani esercitata in questo periodo da coloro che qualche anno più avanti saranno con spregio chiamati «matusa» (diminutivo del personaggio biblico Matusalemme) si affermò pienamente ancora nel 1966, in occasione di una vicenda luttuosa di cui fu vittima un giovane, lo studente universitario di sinistra Paolo Rossi.
Le circostanze della morte di Rossi e le reazioni che essa suscitò meritano un breve approfondimento.

2. Un tragico episodio: la morte dello studente Paolo Rossi

Nell’aprile 1966, all’Università «La Sapienza» di Roma, si tenevano le elezioni degli organismi rappresentativi studenteschi. Le operazioni di voto erano distribuite nell’arco di una decina di giorni e, tradizionalmente, le procedure adottate (anche nella fase dei conteggi) davano adito a qualche dubbio sulla loro piena regolarità. In quell’anno, a contendersi la maggioranza dei suffragi c’erano principalmente le organizzazioni Ugi (sinistra), Intesa (cattolici), Primula goliardica (destra che si richiamava alla formazione Nuova repubblica di Randolfo Pacciardi) e Fuan-Caravella (destra neofascista). Queste premesse aiutano a capire il susseguirsi di provocazioni e piccoli incidenti – che peraltro avvenivano talvolta anche in periodi non elettorali – spesso per iniziativa dei neofascisti. La mattina del 27 il diciannovenne Paolo Rossi, studente di Architettura, socialista, fu aggredito dai fascisti mentre distribuiva volantini davanti alla facoltà di Lettere (nella quale predominava la sinistra). Poco dopo Rossi ebbe un malore, precipitò da un muro sul fianco dell’alta scalinata d’ingresso della facoltà e perse la vita. Il decesso, pur non essendo stato prodotto direttamente dalle percosse, era riconducibile a queste ultime in quanto esse furono la causa del malore.11 In sostanza, dal punto di vista politico, si era trattato di un pestaggio fascista le cui conseguenze erano andate oltre la volontà degli assalitori, che era lesiva ma non omicida. Gli aggressori di Rossi, purtroppo, non furono mai individuati con precisione sufficiente a identificarli.
Quando si sparse la notizia della morte del giovane, l’emozione fu grande e in serata portò a un’occupazione spontanea della facoltà di Lettere da parte non soltanto di studenti, ma anche di docenti. Il rettore chiamò la polizia per fare sgomberare l’edificio. Gli occupanti opposero resistenza passiva, lasciandosi trascinare fuori di peso. L’occupazione presto riprese e, durante la settimana successiva, si estese anche ad altre facoltà. La mattina del 28 giunsero all’Università di Roma i politici – soprattutto parlamentari di sinistra – e gli ex partigiani. Arrivò anche la Rai, le cui immagini documentano lo svolgimento tranquillo e ordinato delle assemblee e delle occupazioni. Il caso ebbe grande risonanza nazionale. Gli adulti, in pratica, presero in mano la situazione, senza che ciò incontrasse dissensi da parte dei giovani, tranne ovviamente i fascisti, ma non per una questione generazionale bensì di parte politica. Il socialista Tristano Codignola, il quale era anche sottosegretario nel governo in carica, promise pubblicamente la presentazione di una denuncia contro il rettore e contro funzionari dell’ateneo e della pubblica sicurezza, accusati di non avere fatto il loro dovere di fronte alle prepotenze fasciste del 27 aprile e dei giorni precedenti. All’iniziativa di Codignola si associarono altri parlamentari della sinistra. I funerali di Rossi, celebrati nella città universitaria, furono solenni e vi partecipò una grande folla. In quei giorni gli studenti di estrema destra fecero qualche tentativo di disturbare gli antifascisti, ma furono tenuti a bada dalla polizia. La mobilitazione, la quale coinvolse non soltanto giovani già politicizzati ma anche consistenti frange di quelli che fino a quel momento non lo erano, terminò il 3 maggio, all’indomani delle dimissioni del rettore. La cessazione fu decisa dalle rappresentanze universitarie, che sostanzialmente erano emanazioni dei partiti. Qualcuno si dispiacque di tornare a casa e lo fece portandosi appresso una propensione a ripetere l’esperienza, possibilmente in forme più radicali, ma per il momento la faccenda si chiuse lì.12
La morte dello studente Rossi, fortunatamente, non innescò spirali di ritorsioni violente tra sinistra e destra, cosa che invece avverrà frequentemente durante gli anni Settanta. Inoltre, le mobilitazioni antifasciste seguite alla morte dello studente romano rappresentarono per alcuni suoi coetanei una prima, significativa esperienza di partecipazione politica e, guardando alle occupazioni, possono sembrare anticipazioni del Sessantotto, ma a ben vedere l’unità realizzatasi tra tutte le classi di età sotto la guida di organizzazioni quali i partiti e le associazioni partigiane segna una distanza epocale tra l’episodio del 1966 e la contestazione di un paio di anni più tarda. Le stesse occupazioni di facoltà, che durarono poco ed ebbero modalità ben poco trasgressive, sono nettamente separate sia cronologicamente che idealmente dal ciclo che inizierà nell’anno accademico 1967-1968.
In definitiva, la tragica vicenda della primavera 1966 contiene ingredienti che si ritroveranno abbondantemente nel «lungo Sessantotto» – a cominciare da quello che maggiormente ci interessa, la violenza – però la loro miscela non sortì i medesimi effetti che si ebbero anni dopo. L’aria non era ancora satura.

3. I giovani prima del Sessantotto

Nel periodo che precedette le agitazioni di fine anni Sessanta, tracce del divario generazionale manifestatosi clamorosamente a partire dal 1968 erano apparse su terreni non propriamente politici.
In alcuni casi, i più vistosi, il distacco tra i giovani e gli adulti si esprimeva attraverso l’adozione da parte dei primi di tendenze anticonformiste o deliberatamente alternative nell’abbigliamento e nell’aspetto, nei gusti musicali, negli stili di vita, che prefiguravano un diverso e difficile rapporto con la società dei consumi e con l’autorità costituita, sebbene non ancora un rifiuto di esse. Si trattava di fenomeni che interessavano fasce relativamente ristrette della popolazione giovanile, essenzialmente urbane.13 In Italia come altrove, le problematiche giovanili erano di cara...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Introduzione
  5. 1. Le condizioni di partenza
  6. 2. La conflittualità sociale del 1968-1969 e la violenza politica
  7. 3. Piazza Fontana
  8. 4. La crisi dell’ordine pubblico nei primi anni Settanta
  9. 5. La lotta armata: dalla nascita delle Br al sequestro Sossi
  10. 6. Conati golpisti e nuove bombe
  11. 7. Lo scioglimento di Ordine nuovo e le stragi del 1974
  12. 8. Nuove misure per la sicurezza e l’ordine pubblico dal 1974 alla riforma dei servizi segreti
  13. 9. Evoluzione del terrorismo di sinistra, collettivi autonomi scontri di piazza, nuovo terrorismo di destra
  14. 10. Il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro
  15. 11. La sconfitta della lotta armata
  16. 12. La strage alla stazione di Bologna
  17. Conclusioni
  18. Note
  19. Ringraziamenti