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Con tenace leggerezza
Portando la cetra armoniosa l’araldo arrivò e venne vicino a Demodoco. Quello poi andò nel mezzo; e intorno a lui si collocarono giovanissimi esperti di danza, che presero a battere coi piedi lo spiazzo divino. Ulisse ammirava il rapido guizzare dei piedi, stupito nell’animo. L’aedo suonando la cetra diede inizio a un bel canto. Cantava l’amplesso amoroso di Ares e di Afrodite dalla bella corona: come la prima volta nella casa di Efesto si unirono di nascosto. Molti doni le diede, e deturpò il letto e le coltri di Efesto sovrano. Ma subito andò da lui a portare la notizia il Sole che li vide avvinghiarsi in amplesso di amore. Appena udì, Efesto, il racconto che gli fece male al cuore, si avviò alla fucina, macchinando sciagura nel fondo dell’animo. Pose sul ceppo un’incudine grande, e battendo faceva catene infrangibili indissolubili, perché i due rimanessero lì stabilmente. Una volta forgiato l’inganno, adirato contro Ares, si mosse per andare nel talamo, dove era il letto a lui caro. Intorno ai sostegni del letto sistemò le catene, da per tutto, e molte anche da sopra, dal soffitto, erano state calate, come ragnatele sottili. Nessuno poteva vederle, nemmeno un dio immortale, perché erano fatte con dolo sopraffino. Tutto intero l’inganno intorno al suo letto dispose, e poi diede a vedere di andare a Lemno, città ben costruita, che gli è di gran lunga la più cara di tutte le terre. Ma non faceva la guardia del cieco, lui, Ares dalle redini d’oro. Appena vide che Efesto, il fabbro famoso, era andato via, si mosse e andò alla casa dell’insigne Efesto, bramoso dell’amore di Citerea dalla bella corona. Quella, da poco tornata dalla casa del padre, il forte Cronide, era seduta. Lui entrò dentro la casa, la prese per la mano, la chiamò per nome, le rivolse il discorso: “Qui, cara, vieni nel letto e distesi insieme godiamo. Efesto non è più fra di noi, ma già, io penso, è partito per Lemno, tra i Sintii dal rozzo linguaggio”. Così disse, e a lei parve una cosa desiderabile giacere con lui. Andarono a letto, dormirono insieme; ma intorno scattarono i lacci fatti ad arte di Efesto ingegnoso. In nessun modo potevano muovere né alzare le membra.1
Omero, Odissea
Demodoco e Omero: due poeti, ciechi entrambi
Demodoco e Omero: due aedi. Due nomi accomunati da un termine, con qualche distinguo. Il primo è un personaggio letterario, l’altro il poeta occidentale per eccellenza («Da Omero in poi tutto si è evoluto, tranne la poesia» lo diceva Leopardi, mica il primo venuto); li accomuna una professione ormai in disuso.
Demodoco è un personaggio dell’Odissea, uno dei due poemi con cui inizia – e finisce, per Leopardi e molti altri negli ultimi tremila anni – la letteratura occidentale, attribuiti per secoli a un aedo geniale di nome, appunto, Omero.
Poi, verso il III secolo a.C., nella biblioteca di Alessandria, qualcuno si mise a leggere per bene Iliade e Odissea, e a segnalare gli errori («Tutto si è perfezionato da Omero in poi, ma non la poesia» diceva Orazio, e di sviste ce ne sono veramente tante); in più le differenze fra i due poemi erano troppe, e si iniziò a pensare che non potevano essere opera dello stesso autore. Questo ha dato vita a uno dei più affascinanti dibattiti della storia della letteratura: la cosiddetta «questione omerica». Una serie infinita di interventi di alcune delle menti più acute e intraprendenti del pensiero moderno che hanno provato a rispondere alla domanda: «Chi li ha composti?». È possibile che siano opera di una sola persona? Non sarà preferibile ritenere che siano il frutto di due o più poeti? O ancora meglio, il risultato di un collage di diverse opere? E così via.
Per capire come siano nate queste domande e per cercare di farsi un’idea di cosa siano questi due corposi testi che da tremila anni sono citati e amati da tutti e che da un periodo lievemente più recente sono diventati dei veri e propri libri, dobbiamo precisare alcuni dati, grazie ai quali capiremo perché l’episodio di Demodoco nel canto VIII dell’Odissea è uno dei documenti più eccezionali della letteratura greca.
Una premessa, essenziale: avendo a che fare con congetture, la questione omerica non può essere risolta in modo univoco, soprattutto quando si pone delle domande che non poggiano su dati concreti, come per esempio: «Può una sola persona dar vita a un’opera del genere sulla base di quello che sappiamo del modo di fare poesia del tempo?». Rispondere sì o no vuol dire credere o no a una possibilità. Ma «quello che sappiamo del modo di fare poesia del tempo» è un concetto molto meno aleatorio: e questo grazie proprio a Demodoco.
La scena che il poeta dell’Odissea – per essere filologicamente corretti dovremmo dire così, ma ce ne freghiamo e da qui in poi sarà Omero, perché non ce la sentiamo di dissentire da Leopardi e da Foscolo, e poi siamo dei romanticoni e amiamo l’idea del vecchio cieco che vaga nel mondo a recitare versi sublimi – insomma, la scena che Omero immagina nel canto VIII dell’Odissea è cruciale. C’è Odisseo – o Ulisse, ma ci piace più Odisseo con l’accento sulla i, perché Ulisse è il nome latino, e l’Odissea è greca; poi basta con gli incisi, prometto –, allora dicevamo, c’è Odisseo che dopo l’ennesima peripezia è stato ospitato da un popolo fantastico, i Feaci – delle specie di Elfi dell’antichità, giusto per essere un po’ fantasy anche noi che va tanto di moda – porcaputt, un altro inciso.
Accolto dalla bellissima Nausicaa, la figlia del re, e da questa accompagnato a palazzo, Odisseo è ospite di Alcinoo e Arete, i regnanti dell’isola. Chi notasse una ridondanza sospetta di dittonghi omovocalici sappia che non è un caso: tra i Feaci troveremo Nausitoo, Pontonoo e altri ancora.
Come regola greca impone, l’ospite si accoglie a prescindere, perché «Appartengono a Zeus / stranieri e mendicanti, tutti»2 e per prima cosa vanno accolti, accuditi, rifocillati e messi a loro agio; poi, con calma, se del caso, quando è il momento giusto, gli si chiede il nome e l’origine.3 Vero che uno dei figli di Alcinoo, Eurialo, offende Odisseo dandogli più o meno dello scafista, ma dopo aver visto con quanta forza il re di Itaca è in grado di scagliare un disco, e si presume quindi anche un cazzotto, ritorna buonino buonino al suo posto. Gli animi si rilassano, e Alcinoo offre a Odisseo uno spettacolo di grande prestigio: un aedo, ovverosia un cantore di professione. Un cieco che, accompagnato dal suo strumento (una kithára, la cetra dei latini) canta le gesta del tempo eroico e le storie degli dei, perché «Su tutti / lo predilesse la Musa, e un bene e un male gli diede: /lo privò della vista, ma gli diede il dolce canto».4 Quando arriva, accompagnato come un ospite di grandissimo riguardo, tutti tacciono e ascoltano in religioso silenzio e lui, colto dall’ispirazione (la Musa), improvvisa nuovi racconti o rielabora mentalmente le storie della tradizione. Nell’arco di tutto il libro VIII e di una giornata in cui ci sarà anche spazio per gare sportive e danze, canterà tre storie: la contesa fra Odisseo e Achille, gli amori di Ares e Afrodite e, dietro esplicita richiesta di Odisseo, la storia del cavallo di legno.
Fermiamoci un attimo e cerchiamo di selezionare gli elementi di questa scena su cui oggi sono tutti più o meno d’accordo. L’aedo è un professionista: uno cioè che è invitato nelle corti perché dotato di una tecnica e di una capacità tali da metterlo in grado di intrattenere un uditorio sulla base di un repertorio che ha appreso dalla tradizione e che lui riesce a memorizzare e riproporre sulla base delle richieste dei suoi committenti. Proprio nella scena dell’Odissea, infatti, Demodoco cambia argomento a richiesta (nell’Odissea ci sono altri aedi che fanno lo stesso), e quando, alla fine, arriverà a raccontare una storia che coinvolge direttamente Odisseo (ancora anonimo, ricordiamolo, per i suoi ospiti), lo farà talmente bene da commuovere (per la seconda volta) il nostro eroe, che scoppierà a piangere e, così facendo, spingerà Alcinoo a porre la domanda fatale «Chi sei…».
Quindi l’aedo deve avere memoria, tanta, e deve sapere improvvisare, tantissimo. Però, bisogna considerare che:
1) ha capacità mnemoniche che noi oggi ci sogniamo, o meglio che ci sogniamo di mettere in pratica, perché i mezzi sono gli stessi, solo che non li usiamo perché tanto c’è Google;
2) memorizzare versi, poi, è relativamente più semplice: il ritmo della poesia consente un maggior numero di sostegni al ricordo di passaggi e modi di dire proprio perché si incastrano meglio sulle strutture metriche e ritmiche.
Un esempio solo: tutti si ricordano l’espressione «Achille piè veloce», una delle perle della bella ma infedele traduzione dell’Iliade di Vincenzo Monti («Questi è il Monti, poeta e cavaliero / gran traduttor de’ traduttor d’Omero», diceva uno che il greco lo sapeva assai meglio, Ugo Foscolo): in linguaggio tecnico questo si chiama «epiteto formulare», ed è una delle caratteristiche identificative dello stile epico. Un personaggio, nei poemi omerici, non compare praticamente mai senza un aggettivo che in qualche modo lo qualifichi: Elena dalle bianche braccia, Eracle dalle natiche di cuoio, Aiace dalla fava gigantesca ecc. Grazie a questo stratagemma, ogni volta che per esempio parlo di Achille trovo aiuto in un’espressione ricorrente che mi fa risparmiare almeno la fatica di inventarne sempre di nuove.
Poi gli epiteti sono tantissimi, e le formule sono di tanti tipi, come i versi sempre uguali o le scene che si ripetono secondo lo stesso schema, come la vestizione di un eroe nell’Iliade o lo sbarco di una nave nell’Odissea. Le soluzioni sono molteplici, sono lì a disposizione, e mi tolgono un pensiero. Ed è grazie alla Musa, che agli aedi «insegna le tracce dei canti»,5 che le storie sono comunque sempre diverse.
Memoria, improvvisazione, canto. Ma scusate, Iliade e Odissea non sono dei libri?
Ecco il grande problema. Certo che sono dei libri. Ora. Ma non lo sono sempre stati.
Per un periodo di tempo indefinibile (questo è uno dei punti su cui la questione omerica non trova pace), sono stati trasmessi solo per via orale, da aedo ad aedo.
Sembra impossibile che due giganti di rispettivamente circa 15.700 e 12.100 versi abbiano potuto circolare così! E difatti per alcuni è impossibile, per altri invece no.
Sono stati due studiosi americani, Milman Parry e Albert B. Lord, a dimostrare con tanto di registrazioni audio che in Serbia e Croazia negli anni Trenta esistevano dei cantori in grado di improvvisare canti di argomento eroico delle dimensioni dei poemi omerici, ripetendoli a distanza di quasi vent’anni, anche se con modifiche sostanziali.
È dunque possibile trasmettere un testo in questo modo? Sì, lo è, ma se ne altera profondamente la forma: l’Iliade e l’Odissea a un certo punto si sono codificati in una forma standard ed è in questa forma che sono arrivate a noi. A causa di una piccola rivoluzione che ha semplicemente cambiato il mondo: la scrittura greca alfabetica, naturalmente.
A un certo punto, insomma, sono diventati il modello di riferimento assoluto della cultura letteraria occidentale, ma prima sono stati dei testi trasmessi «a voce».
Le ipotesi sul momento della stesura della versione attuale e sui responsabili sono sempre più raffinate. Per esempio: è stato messo per iscritto un testo già formato o quello che leggiamo noi nasce da un collage di testi messi insieme proprio in fase di scrittura? E perché, al momento della stesura, non sono stati tolti gli errori (chiaro indice di oralità)?6 E ci fermiamo, sennò ricomincia la giostra della questione omerica e fra tremila anni siamo ancora qui.
Da un lato ci sono problemi cronologici, anche se ormai tutti sono d’accordo nel considerarle due opere dell’VIII secolo a.C.; dall’altro ci sono le diverse sensibilità degli studiosi: c’è chi è attratto dalla suggestione di un’opera collettiva, anonima e frutto di un’elaborazione costante di secoli, e chi invece è incapace di sottrarsi alla sensazione, impalpabile ma non per questo meno tenace, che dietro ci sia un’unica personalità capace di architettare le due opere in modo geniale. O due, praticamente contemporanei o quasi: di geni abbiamo un assoluto bisogno.
Se poi si considera che non può esserci dubbio che chi ha composto l’Odissea, lievemente più recente, conosceva anche l’Iliade, è chiaro che, a distanza di millenni, Omero è sempre lì, nascosto dietro un angolo, a dirci: «Ma siete proprio sicuri che non sono mai esistito?».
E se facciamo uno sforzo di fantasia in più, possiamo anche scovare dove si nasconde: immaginate un aedo, magari cieco, che imbraccia una cetra e intrattiene un pubblico raccontando le storie della guerra di Troia…
Non so voi, ma a me viene in mente qualcuno.
Comunque, torniamo alla parte essenziale della poesia: l’idea.
Si possono costruire catene fortissime, infrangibili anche per un dio, e tuttavia invisibili al dio stesso. Roba folle, diremmo tutti. Non è possibile.
Sicuri?
L’importanza di avere un’idea
Per poter brevettare un’idea, è essenziale riuscire a dimostrare di averla avuta prima di chiunque altro. E con chiunque, si intende davvero chiunque, scritto nel marmo con uno scalpello di titanio. Per capire quanto sia preso sul serio questo pronome nel mondo dei brevetti, credo sia istruttivo conoscere la storia di...