Il male italiano
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Il male italiano

Liberarsi dalla corruzione per cambiare il Paese

  1. 256 pagine
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Il male italiano

Liberarsi dalla corruzione per cambiare il Paese

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Per troppo tempo gli italiani si sono rassegnati a una rete di malaffare che avvinghia e soffoca tutte le forze del Paese: la politica, l'imprenditoria, gli uffici pubblici. È un sistema paralizzato, che mina le fondamenta della vita civile. Un meccanismo che è diventato insostenibile e va combattuto introducendo nella società gli anticorpi capaci di restituire ai cittadini la fiducia in un futuro senza mazzette né intrallazzi, dove i meriti e le capacità riescano ad affermarsi. In questo libro – appositamente aggiornato per questa edizione dopo un anno di lotta sul campo al malaffare – il presidente dell'Autorità anticorruzione Raffaele Cantone e il giornalista Gianluca Di Feo si confrontano sui problemi chiave del nostro Paese, ripercorrono vicende simbolo come quelle del Mose di Venezia, dell'Expo di Milano e di Mafia Capitale, e indicano le azioni da intraprendere per estirpare la corruzione. Perché, finalmente, oggi abbiamo gli strumenti per dar vita a quella rivoluzione culturale indispensabile per far ripartire il Paese e cambiare davvero le cose. A patto di essere disposti a cambiare noi per primi.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2016
ISBN
9788858683682

1

Il nostro male

A volte ho più rispetto dei casalesi che dei colletti bianchi, quelli che maneggiano i soldi più sporchi ma si comportano come se avessero sempre le mani pulite.
Vuole dire che un faccendiere è più pericoloso di un criminale incallito?
Ovviamente la mia affermazione è una provocazione e un paradosso. E provo a spiegarla. Quando guardi negli occhi un camorrista, sai che è un tuo nemico: non nasconde la sua identità criminale. Invece non sai quante facce abbia l’intrallazzatore: non sai se è un politico, un rappresentante dello Stato, un imprenditore, un professionista oppure se quella che mostra è soltanto una maschera, dietro la quale si nasconde una persona pronta a fregarsene della legge e della collettività per il proprio tornaconto, che si tratti di accumulare soldi o potere. Il vero guaio è che, se tutti si rendono conto della pericolosità dei camorristi, spesso si chiude un occhio su questi traffichini. I loro peccati si considerano veniali, tutto sommato tollerabili: non delinquenti, ma, al massimo, mariuoli. Tanti li ritengono dei piccoli imbroglioni, che si fanno strada con furbizia, e non nascondono una forma di ammirazione: ammiccano, perché in fondo sono «tipi svegli», che hanno saputo approfittare della situazione. Certo, tutti si indignano per i grandi scandali, tutti a parole si scagliano contro i corrotti, ma quanti poi hanno remore nel chiedere una raccomandazione o nell’invocare una scorciatoia per realizzare in qualunque maniera i propri interessi? Ci sono addirittura persone già giudicate colpevoli che restano al loro posto, nei partiti, nelle aziende e persino nella pubblica amministrazione, e continuano a essere ossequiate e circondate di questuanti. È come se un insegnante condannato per pedofilia seguitasse a lavorare in una scuola, ricevendo anche l’apprezzamento dei genitori dei suoi alunni. Quando si comincerà a capire che il costo della corruzione, in ogni sua forma, lo paghiamo tutti? E che è proprio questo il male che sta distruggendo il diritto a un futuro migliore?
Nel marzo 2014 lei è diventato presidente della prima struttura creata in Italia per cercare di arginare la corruzione. A mio parere, per porre fine a un fenomeno è bene comprenderne le origini e la più intima natura. Corruzione vuol dire disfacimento, è una crepa che porta alla devastazione di un edificio, di un metallo, di un organismo.
Il termine viene dall’accostamento di cum e rompere, rompere per mezzo di qualcosa, e contiene la forza distruttiva dei suoi effetti: è un peccato capitale, un morbo letale per la vita dell’intera comunità. Anche se sono pochi a causare la ferita, l’infezione si estende e presto contagia tutto. In Italia fatichiamo a rendercene conto. I più sembrano abituati o persino rassegnati a sentir parlare di tangenti e raccomandazioni, di pubblici uffici lasciati decadere fino a trasformarsi in luoghi oscuri. Ciclicamente si grida allo scandalo, ci sono moti di indignazione collettiva, spesso in coincidenza con le crisi economiche che intaccano il benessere generale. Pochi però sentono la necessità di mettersi in discussione: sono tutti convinti che il problema sia cruciale, ma riguardi soprattutto gli altri. I politici, gli industriali, i ministri, i potenti insomma.
Lei invece ha da sempre un’idea fissa: se si vuole affrontare la corruzione, bisogna cambiare testa. E farci tutti carico del problema. La stessa cosa che, in fondo, ha sostenuto anche quando si occupava di camorra. È per questa ragione che continua a vivere nel paese in cui è nato?
La penso ancora così. Su questo aspetto non è cambiato, negli anni, il mio modo di vedere le cose. Così come non è cambiato il mio modo di vivere. E credo che ci sia un legame profondo tra le due cose. La mia famiglia continua ad abitare a Giugliano, il paese campano dove sono nato e dove sono felice di tornare. Lì conosco tutti e tutti mi conoscono, so di chi posso fidarmi. Può sembrare paradossale, perché in quella zona la camorra è ancora forte, ma mi sento più sicuro, soprattutto nell’affrontare questo nuovo incarico. Sono le radici che mi tengono attaccato alla realtà e mi aiutano a capire le cose.
Giugliano in questi decenni è cambiata molto. Il paese di campagna si è gonfiato di palazzoni anonimi fino a fondersi con la periferia di Napoli. I frutteti di mele profumate sono stati sepolti dal cemento, sono spuntate case per centomila nuovi abitanti, stravolgendo tutto pur di arricchire la camorra degli affari.
È vero, ma tutti questi stravolgimenti non sono riusciti a strappare la parte migliore e più tenace della radice che affonda in quella terra. Sono ancora tante le persone che non vogliono chiudere gli occhi. Le ho incontrate durante il mio lavoro di magistrato, nelle assemblee a cui partecipo nelle scuole, nelle conferenze sulla legalità o nei dibattiti. A Giugliano, in Campania e in tutta Italia c’è chi non vuole chinare il capo davanti al malaffare e continua a credere in un futuro migliore. È una questione di dignità.
Per quindici anni lei si è occupato di criminalità soprattutto organizzata, conducendo inchieste sull’impero dei casalesi. Quando ha cominciato a indagare, si è accorto che la chiave della loro forza non era solo nella violenza: come i mafiosi siciliani, e forse più di loro, avevano infiltrato le istituzioni e l’economia campana. Il clan aveva affondato gli artigli nel territorio, come una malerba soffoca il grano.
Il potere del clan si nutre del consenso di un quartiere o di una comunità, senza il quale non può sopravvivere. Non si potrebbero spiegare altrimenti latitanze decennali come quelle dei padrini casalesi nascosti nei loro paesini. La loro espansione dal Casertano verso il Nord si è servita di una colonna di politici, imprenditori e professionisti senza scrupoli: il motore di questa marcia trionfale non sono state le armi, ma i soldi, che aprono le porte di tutti gli uffici a Napoli come a Parma, a Roma come a Milano. Si sono fatti strada grazie a bustarelle e affari. Con gli stessi metodi hanno trasformato intere zone della Campania in una discarica fuori controllo, con danni che la popolazione pagherà per decenni. Mentre per i mafiosi ci sono stati arresti e condanne definitive, i processi ai colletti bianchi che li hanno spalleggiati si prolungano all’infinito e rischiano di finire nel nulla.
La corruzione è il male italiano più diffuso: tutte le rilevazioni internazionali ci bollano come un Paese incapace di affrontare la questione. Eppure tanti chirurghi sono intervenuti, con operazioni spesso fondamentali: Mani Pulite nel 1992 ha cambiato la storia d’Italia, ma non è riuscita a estirpare il sistema delle mazzette. Oggi la situazione è persino peggiore e la maggioranza dei cittadini è convinta che il morbo si sia allargato. La Corte dei Conti è arrivata a sostenere che ogni anno il sistema delle tangenti inghiotta sessanta miliardi di euro.
Perché dopo operazioni chirurgiche anche profonde e ben riuscite non c’è mai stata prevenzione. La corruzione è un cancro: uccide una società azzerando lentamente il merito e la concorrenza, nelle imprese, nella burocrazia, nei partiti, e finisce persino per incentivare la «fuga dei cervelli», delle energie migliori del nostro Paese. Ma dopo un intervento con il bisturi, cosa si fa per impedire che il male torni a svilupparsi? Si prosegue con le terapie, accompagnate da quello che i medici chiamano «un nuovo stile di vita», eliminando vizi e abitudini malsane. In Italia non si è mai neppure provato a fare prevenzione. Nella storia del nostro Paese, Tangentopoli è stata la più grande azione di moralizzazione per via repressiva, attraverso inchieste, arresti e processi che hanno coinvolto una larga parte della classe dirigente, ma dopo l’intervento dei magistrati non si è fatto assolutamente nulla. Non sono stati introdotti correttivi, non sono state affrontate le zone infette, anzi sono state messe in campo via via misure che andavano in senso contrario, e hanno finito con il rendere più difficile l’unico meccanismo di difesa esistente, la repressione penale. Si è fatto di tutto per ostacolare indagini e processi, con scelte normative che appaiono incomprensibili. Infatti, se guardiamo alle statistiche giudiziarie, la corruzione sembra scomparsa e le condanne sono pochissime. Nel 2013 le persone detenute per questo reato erano soltanto undici, una rarità rispetto ai quasi sessantacinquemila reclusi nelle carceri italiane.
Salvo poi scoprire che il problema esiste, eccome. Che le opere pubbliche più importanti e costose, dall’Expo di Milano al Mose di Venezia, sono cantieri di mazzette. Che a Roma c’erano politici e amministratori a libro paga della criminalità in Comune, Provincia e Regione. E finalmente, ventidue anni dopo Tangentopoli, è stato creato un organismo affidato a lei per cominciare a costruire la prevenzione e riuscire a intervenire prima delle bustarelle.
Sì, la botte va salvata finché è piena, perché quando si muove la giustizia penale significa che il danno è già stato fatto, le tangenti sono state pagate e le gare d’appalto stravolte. Ma neppure una prevenzione ben fatta, da cui siamo ancora lontanissimi, è sufficiente. Perché la lotta alla corruzione deve essere un sistema, con tre pilastri che funzionino in sinergia. Serve prevenire, anche mettendo in campo nuovi meccanismi, agendo sul piano amministrativo. Deve continuare la repressione penale affidata alla magistratura e alle forze dell’ordine, con strumenti d’indagine più incisivi e processi efficaci. Ma è indispensabile una grande presa di coscienza della pericolosità del male, del danno che crea a tutti i cittadini, una vera rivoluzione culturale. Da sola, ciascuna di queste azioni non ha speranza di risolvere il problema.
Un’impresa colossale. Fino al 2013 non era stato fatto nulla. L’attività della magistratura è stata ostacolata da riforme paradossali, come quella sulla prescrizione, che si è trasformata in un lasciapassare per i corrotti. Anche leggi concepite con le migliori intenzioni vengono svuotate da ricorsi e modifiche, fino a perdere efficacia e non si percepisce la volontà di voltare pagina. Lei crede che gli italiani, dopo aver convissuto per decenni con questo sistema di intrallazzi, siano pronti a cambiare?
Credo che le cose possano cambiare, la stessa nascita dell’Autorità che presiedo lo dimostra, anche se so che non sarà facile. Prendiamo un esempio che ha scandalizzato tutti: i vigili urbani di Roma che a Capodanno hanno disertato il servizio, presentando certificati medici e altre giustificazioni. La maggioranza dei sindacati li ha difesi in blocco, senza se e senza ma, fino a indire persino uno sciopero generale che ha bloccato Roma. Gli stessi sindacati che hanno contestato anche l’Autorità, per avere avallato la decisione di spostare, dopo un certo numero di anni, i comandanti dei vigili da una zona a un’altra. Se la rotazione degli incarichi è una strategia chiave per prevenire la corruzione, perché non dovrebbe essere applicata anche ai vigili urbani? Come si può permettere che restino per decenni a presidiare lo stesso territorio, dallo stesso ufficio, a contatto con gli stessi commercianti, alla guida degli stessi subordinati? Davanti a queste obiezioni, la reazione del sindacato è stata un no categorico, quasi a dare l’impressione che la legalità come valore venga in secondo piano rispetto alla tutela del lavoratore.
Mi ha ricordato quello che avvenne anche in Sicilia quando Giovanni Falcone cominciò a occuparsi delle imprese dei mafiosi e alcuni sindacati cominciarono a dire che il giudice stava colpendo i lavoratori. Oggi come allora, rischia di crearsi un’alleanza inquietante tra chi vuole mantenere lo status quo per salvaguardare i diritti dei lavoratori e chi lo fa per patrocinare posizioni individuali. Allora i sindacati capirono e si misero in prima fila nella lotta alle mafie; spero lo facciano anche oggi con la lotta alla corruzione, per evitare che possa passare il messaggio che il contrasto al malaffare sia meno importante di un trasferimento di soli cinque chilometri e che l’interesse pubblico non conti nulla.
Il concetto di interesse pubblico è sempre stato molto debole nella storia del nostro Paese. Mentre da sempre le corporazioni sono i poteri più forti d’Italia, quelli più radicati, tanto da sembrare il nostro vero dna. Dopo la vicenda di Roma, il principale sindacato della polizia locale ha indetto uno sciopero nazionale in ottomila Comuni per protestare contro «l’infamante colata di fango» gettata dal governo sui vigili capitolini…
Lo ripeto: non mi arrendo di fronte agli ostacoli, perché sono convinto che esistano persone oneste e serie in tutte le istituzioni pubbliche. Ma penso che questa vicenda romana, tutto sommato piccola, sia la chiave di lettura di una società che la lotta alla corruzione non la vuole fare. Corruzione non significa solo mazzette, è un complesso sistema di malaffare che potrebbe prescindere dalle bustarelle. Se introduci un’attività di prevenzione non è che la devi fare solo nei confronti di chi è realmente corrotto, ma nei confronti di tutti. Un’amministrazione che funziona è quella che è in grado di mettere in campo gli anticorpi. Gli anticorpi stanno in un corpo malato, ma anche in uno sano: servono proprio per impedire che il male aggredisca l’organismo in salute. Invece no. La resistenza corporativa replica: «Perché dobbiamo dare un medicinale a uno che sta bene? Dobbiamo lasciarlo come sta, non serve toccarlo». Questo è un punto centrale. La capacità di mettere in discussione una serie di incrostazioni di questo Paese è indispensabile per affrontare seriamente la lotta alla corruzione. E se non si supera una certa mentalità, allora sarà molto più difficile.

2

Dall’antimafia alla corruzione

La sua carriera è stata segnata dall’attività investigativa sulla criminalità organizzata. Dopo aver trascorso otto anni alla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, nel 2007 ha lasciato l’incarico ed è diventato magistrato nell’ufficio del Massimario della Cassazione. Un lavoro molto diverso, interamente sulle carte, dove si è occupato in particolare di diritto tributario, ma altrettanto strategico: in pratica doveva trasformare le sentenze sull’evasione fiscale in regole valide per tutti i tribunali. Il suo sogno però era quello di tornare a fare il pubblico ministero proprio sul fronte della lotta alla camorra: nel 2012 ha partecipato al concorso per diventare procuratore aggiunto della città che ama di più, Napoli.
È vero, volevo tornare a occuparmi di inchieste ed ero convinto di riuscirci. Sapevo di essere considerato troppo giovane per quella posizione in base agli standard della magistratura, ma restavo ottimista: alcuni requisiti richiesti sembravano premiare il mio curriculum. E infatti la commissione competente del Csm mi propose con tre voti a favore, mentre l’altro candidato ne ottenne solo uno. Era luglio e andai in vacanza convinto di avere molte chance. Erano appena iniziate le mie ferie quando, invece, mi contattò una collega della commissione e mi disse: «Guarda, in questi giorni sono venuti a segnalarmi una questione sulla tua legittimazione…». Era una questione molto tecnica, su come andasse valutato il lavoro svolto al Massimario: all’improvviso avevano ritenuto che si trattasse di un incarico da giudice e che di conseguenza non avessi maturato il numero di anni indispensabile per tornare a fare il pubblico ministero.
Rimasi sbalordito: «Avete fatto un’istruttoria durata quattordici mesi senza considerare questo aspetto? Non è che avessi raccontato di fare il salumiere, sapevate benissimo quale fosse la mia attuale posizione. Perché questo dubbio è emerso soltanto ora?». Lei rispose solo: «Dobbiamo capire». Parlai a quel punto anche con il presidente della commissione che aveva votato a mio favore e mi disse che avrebbe posto la questione all’esame dell’Ufficio studi del Csm. Dopo un paio di giorni qualcuno dell’ufficio mi informò: «Non sei legittimato, non puoi ancora tornare a fare il pm».
Io domandai: «Potrei avere il testo del parere? Vorrei leggerlo…».
E candidamente mi comunicarono: «Non c’è nessun parere scritto, per il momento l’hanno detto a voce».
«Insomma» puntualizzai, «si prende una simile decisione sulla mia vita e non ci si preoccupa nemmeno di metterla nero su bianco?»
«Chi lo ha detto è autorevole» fu la replica.
«Non ne dubito, ma questa è una scelta che riguarda il mio futuro, devo poterne conoscere le ragioni nel dettaglio, anche per valutare se fare ricorso.»
Così misero il parere per iscritto e lo esaminai. Dal punto di vista giuridico non era una cosa campata in aria, ma restava una domanda di fondo: perché non se n’erano accorti prima?
Il suo discorso ci porta dentro uno dei gangli del potere: in quel Palazzo dei Marescialli dove si decidono le carriere di giudici e procuratori. Sono procedure complesse, in cui vengono soppesati tanti fattori, con esiti che spesso i cittadini faticano a comprendere. Oggi la crisi del sistema giustizia è sotto gli occhi di tutti, testimoniata dalla lentezza delle sentenze e dall’effetto devastante della prescrizione, che cancella inchieste e condanne. Le responsabilità sono tante e ricadono soprattutto sui governi e sui parlamenti che in nome del garantismo hanno di fatto paralizzato la macchina dei processi. Ci si aspetterebbe però che la magistratura desse segnali di reazione, quantomeno assegnando il vertice degli uffici più delicati alle figure più capaci. Mentre il suo caso sembra paradossale: le è stata affidata la presidenza dell’Autorità anticorruzione, nel consenso generale di istituzioni e forze politiche, ma non è stato ritenuto idoneo a essere uno dei tanti viceprocuratori di Napoli.
Fu una delusione profonda, perché la magistratura è tutta la mia vita. Mi trovai davanti a una decisione difficile: era o non era opportuno presentare un ricorso contro quel parere? Farlo avrebbe in qualche modo significato mettere in discussione l’istituzione in cui ho sempre creduto. Mi confrontai con un amico, ex giudice diventato professore universitario. Secondo lui, vi erano elementi per contestare quella valutazione, anche se il quadro era complesso, perché non esistevano precedenti. Del resto quanti magistrati del Massimario ambiscono a diventare procuratore aggiunto a Napoli? Il mio era un incarico che in genere permette di accedere direttamente ai piani alti della Cassazione, a posti di maggiore prestigio. Prima di fare la mia mossa, parlai con diversi colleghi. Un esponente della commissione mi invitò ad avere pazienza, e poi mi disse una cosa che nella sua franchezza apprezzai ma che per me rappresentò il colpo peggiore: «Del resto i colleghi in procura a Napoli non è che ti vogliono… Ho ricevuto segnali secondo i quali non sarebbero molto felici di averti». Quella frase mi lasciò di sasso. Insomma, non si tratta di un concorso canoro, non è un reality show dove conta il consenso: la valutazione deve essere fatta sui titoli.
«Qualcuno ha da ridire sulla mia professionalità?» gli chiesi.
La replica fu illuminante: «Nessuno mette in discussione la tua bravura e la tua capacità, però non è che sono entusiasti; molti mi hanno detto che tu saresti più giovane di tanti sostituti procuratori. Poi sei troppo visibile: le tue interviste sui giornali, i tuoi libri…».
Mi venne di getto di dirgli: «Io in Cassazione ho sempre consegnato le pratiche in anticipo e ho ricevuto valutazioni estremamente positive pur essendo stato destinato a occuparmi di materie per me nuove; se invece di andare a giocare a tenni...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Copyright
  3. Introduzione
  4. 1. Il nostro male
  5. 2. Dall’antimafia alla corruzione
  6. 3. Ho visto cose
  7. 4. La politica delle mani pulite
  8. 5. Capitani poco coraggiosi
  9. 6. Il labirinto della burocrazia
  10. 7. La casa di vetro
  11. Ringraziamenti
  12. Indice