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Umanesimo spirituale
Il modello indiano
«La verità è mia madre, il sapere mio padre,
il diritto mio fratello, la pietà mia sorella,
la spassionatezza mia moglie, il perdono mio figlio:
questi sono i miei sei parenti.»
SENTENZA INDIANA
«La nuvola beve l’acqua salata del mare e piove acqua dolce.»
SENTENZA INDIANA
«Tutte le religioni sono uguali, soprattutto il buddhismo.»
GILBERT K. CHESTERTON
I sogni del mondo
Mark Twain riferisce che un secolo di colonialismo bastò agli inglesi per convincersi che gli indiani sono «mistici, spiritualisti e arcaici, pigri e servili, ricchi di cultura e poveri di tutto il resto».
Quando, alla mezzanotte tra il 14 e il 15 agosto 1947, sotto il segno beneaugurante del leone, fu proclamata la fine della colonizzazione britannica e l’indipendenza della nazione, Jawaharlal Nehru, considerato il padre della patria, disse che «i sogni dell’India sono i sogni del mondo». In altri termini, l’India avrebbe esteso il suo modello all’intero pianeta. A distanza di anni, qual è lo stato dell’arte?
L’India, destinata a diventare il Paese più popoloso della terra entro il 2025, attualmente è seconda solo alla Cina. Al censimento del 1901 contava 238 milioni di abitanti e solo il 10 per cento viveva nelle città; dopo un secolo ha raggiunto il miliardo e 214 milioni di abitanti, di cui il 30 per cento vive nelle 5000 aree urbane, tre delle quali (Mumbai, Kolkata e Dihlī) hanno più di 15 milioni di abitanti ciascuna.
La rapida inurbazione di ingenti masse contadine, spinta anche dal sovraffollamento demografico, le ha costrette a un cambiamento radicale e repentino della concezione del tempo e dello spazio, le ha private della loro antica identità, ha dissolto i loro legami familiari, le ha disorientate gettandole nell’anomia, condannandole all’emarginazione e lasciandole in balìa della criminalità.
Tra tutti i modelli che andiamo analizzando in questo libro non ce n’è uno che non sia contraddittorio nei contenuti e negli esiti. Ma quello indiano li supera tutti. Esaminiamone alcuni parametri strutturali e poi soffermiamoci sulla sua cultura.
Slum e informatica
Nel Settecento, quando la ricchezza delle nazioni derivava soprattutto dall’agricoltura, l’India vantava il 16 per cento di tutta la ricchezza mondiale. Ancora oggi l’agricoltura assorbe il 50 per cento dei lavoratori indiani ma, a causa del suo livello arcaico, contribuisce per meno del 20 per cento alla formazione del Pil nazionale. Il 26 per cento proviene dall’industria e il 55 per cento dai servizi.
Ai vertici della piramide sociale troviamo 200 milioni di borghesi, ma solo un’ottantina sono global indians: professionisti benestanti o ricchi, inseriti nei circuiti internazionali del benessere e della cultura globalizzata. A questi privilegiati residenti possono essere aggiunti i 20 milioni di Nri, non resident indians, che vivono in Oriente, negli Usa, in Canada e Gran Bretagna e che, nel loro complesso, vantano un patrimonio di 300 miliardi di dollari. Basti pensare che la sola comunità indiana in America – tre milioni di oriundi, con una massiccia presenza nella Silicon Valley – conta ben 20.000 milionari.
Alla base della piramide vi è il 60 per cento degli indiani, costretto a vivere con meno di due dollari al giorno. Anche se oggi i consumi e i servizi sono in rapido aumento, tuttavia resta forte e diffusa la carenza di infrastrutture, scuole, servizi sociali e sanitari: basti pensare che il 60 per cento delle abitazioni è senza servizi igienici e il 50 per cento è privo di acqua corrente. Cinquanta milioni vivono negli slum malsani e non si tratta solo di sottoproletari ma anche di operai, impiegati, piccoli commercianti e artigiani.
Questo, per ora, è l’esito di un’economia socialista durata fino alla caduta del muro di Berlino e di una svolta liberista che, avviata negli anni Novanta, ha portato rapidamente l’India al quinto posto nella graduatoria delle economie mondiali ma non è riuscita a ridurne le scandalose differenze socio-economiche. Prima dell’ultima crisi, partita dall’America nel 2008, il Pil indiano è cresciuto fino all’8 per cento annuo e oggi ha ripreso a crescere raggiungendo il 9 per cento. Tuttavia il reddito pro capite resta al di sotto dei 1400 dollari (contro i 4500 della Cina e gli 11.000 del Brasile).
L’urbanizzazione, con tutto il suo indotto di edilizia e di servizi, è uno dei motori economici del Paese, insieme all’informatica, alle biotecnologie, all’industria farmaceutica e aerospaziale.
Metà di tutto l’outsourcing mondiale è controllato dall’India; Bengaluru è una delle capitali mondiali dell’high-tech; Hyderabad si autodefinisce scherzosamente ma orgogliosamente come «Cyberabad». Insieme, queste due aree urbane rappresentano la Silicon Valley indiana con più di mille imprese impegnate nel software. Bollywood a Mumbai, Kollywood a Kodambakkam, Tollywood nell’Hyderabad e nel Tollygunge, Mollywood nel Kerala sfornano migliaia di pellicole con un tasso di crescita del 17 per cento all’anno, un incremento delle esportazioni che ha raggiunto il 60 per cento e un numero di biglietti venduti che sfiora i 4 miliardi.
Contraddizioni di una potenza nucleare
L’India è suddivisa in ventotto Stati e sette territori federali ma parecchie aree scalpitano per diventare Stati, alimentando l’instabilità dell’insieme. Il Paese è una «democrazia castale» in cui il principio di uguaglianza europeo è contraddetto dal principio di inuguaglianza hindu ed è una «repubblica dinastica» in cui, di fatto, un’unica famiglia Nehru-Gandhi ha governato la repubblica dalla sua fondazione a oggi.
L’India, dunque, soffre politicamente di contraddizioni profonde e caotiche che provocano una perenne instabilità degli equilibri sociali fino a mettere in pericolo la tenuta complessiva del Paese. Il risultato è che gli stessi intellettuali indiani discutono vivacemente se esista un’identità indiana, se esista l’India e in che cosa essa consista.
Nessuno dei confini indiani è tranquillo e nessuno dei confinanti è soddisfatto delle attuali frontiere: meno che mai il Pakistan che rivendica il Kashmir a colpi di attentati. Non si dimentichi che Cina, Pakistan e India sono tutti e tre Paesi dotati di armi nucleari.
All’interno, la forza centrifuga nei confronti di Dihlī è dirompente in numerosi Stati e soprattutto nelle sette regioni del nordest, dove molti abitanti addirittura negano di essere indiani e le forze separatiste non si placano. Tra esse spicca il movimento rivoluzionario maoista, detto «Naxalita», attivo in venti Stati su ventotto e in 223 distretti su 626. Il primo ministro Singh lo ha definito come «la più grande sfida alla sicurezza interna».
In seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l’India si arroga un diritto di veto su almeno sette Paesi tra cui Pakistan e Cina. Ne deriva un continuo stato di ebollizione punteggiato da scaramucce, incidenti diplomatici e prove di forza armate. Altri motivi di frizione derivano dal fatto che l’India tende a esercitare la sua egemonia su tutto il bacino dell’Oceano Indiano, dall’Africa nordorientale fino all’Australia, per 9000 chilometri da ovest a est.
Quanto ai rapporti con il resto del pianeta, l’India dispiega una politica da grande potenza sia sul continente sia nel dialogo con gli Stati Uniti. Inoltre coltiva un’intesa particolare con il Sudafrica e il Brasile nell’intento di costruire una rete tra vari Paesi del Sud del mondo.
Duemila etnie, millesettecento dialetti
Cricket e terrorismo. Le etnie presenti in India sono circa 2000. Nella classifica Onu dello sviluppo umano, questo Paese occupa il 134° posto, accanto al Bhutan e alla Repubblica del Congo. Tre indiani su dieci hanno meno di 15 anni; quattro su dieci sono analfabeti. Solo una famiglia su due può permettersi la televisione a colori e solo sei abitanti su mille sono abbonati a internet. Le lingue ufficiali dell’Unione sono due – l’hindi e l’inglese – ma la costituzione riconosce ufficialmente diciotto lingue regionali. I dialetti normalmente parlati sono 1700.
Come ha scritto la direttrice di «Stringer Asia» Francesca Marino, «l’India è una nazione di un miliardo e duecento milioni di persone che sulla carta in comune non hanno quasi nulla. Non la lingua, non la religione, non l’etnia. Neanche il cibo, il calendario, le condizioni socio-economiche o qualunque altro tipo di schema o di semplificazione siamo abituati ad applicare… Il senso di orgoglio nazionale, di appartenenza, viene fuori praticamente solo in due occasioni: i match della nazionale di cricket e gli attacchi terroristici di origine pakistana».
Tuttavia, questa identità fluida e frammentata, forse proprio grazie alla sua fluidità e frammentarietà, in sessant’anni ha costruito la più grande socialdemocrazia del mondo. A differenza della monolitica Cina, comunista e ultraliberista al tempo stesso, priva di sindacati e di protezioni per i lavoratori, malpagati e licenziabili in qualsiasi momento, l’India incoraggia la sindacalizzazione, garantisce i diritti dei lavoratori con una legislazione moderna, difende i piccoli commercianti dall’invasione dei supermercati.
Induismo: armonia dell’universo
Dharma. Eppure, nel melting pot di razze e di culture indiane un collante deve pur esserci, oltre al cricket, al terrorismo pakistano e alla recente costituzione, che alcuni riconoscono e altri sono costretti a riconoscere. Ed è quasi ovvio identificare questo collante nella religione o, meglio, nel peculiare senso religioso indiano che deriva da un impasto di induismo, buddhismo e altro ancora, formando un atteggiamento nei confronti della vita e della morte, del tempo e dello spazio, sedimentato attraverso una catena millenaria di elaborazioni dottrinarie, usi e costumi, arte e conflitti.
Il concetto di tempo, per esempio, non è lineare come in Occidente ma è un perenne divenire ciclico senza inizio e senza fine, sovrastato, per gli induisti, dal sanatana dharma, la legge eterna del mondo, la verità spirituale fatta di moralità, diritti, doveri e leggi, che invece resta immobile e assegna a ogni essere vivente la sua collocazione, la sua funzione sociale, religiosa e morale.
Il dharma è proprio il modello di vita, il quadro di riferimento cui ogni indiano deve rifarsi, essendo insegnato dal Veda, rafforzato dalla tradizione, seguito ed esemplificato dalle persone virtuose. A livello universale il dharma richiede autocontrollo, affidabilità, veridicità, non violenza, rispetto per la vita di tutti gli esseri viventi; a livello individuale, il dharma richiede specifici comportamenti adeguati alle specifiche circostanze, all’età, alla professione, alla casta, ecc.
L’induismo è la più antica religione del mondo, praticata da circa un miliardo di fedeli, di cui 828 milioni in India dove superano l’80 per cento della popolazione. Più che di una religione, si tratta di un estuario di molteplici affluenti metafisico-teologici, che non ha né Creatore del mondo né fondatore della fede, né dogmi né gerarchie, né papi né definizioni di alcun tipo, e che si è diffuso attraverso le vie più disparate: poeti di strada e teatranti, canti e danze, disquisizioni dotte di saggi e chiacchiere private, ma oggi anche cinema e televisione, internet e social network. L’induismo è la religione della tolleranza: si può essere induisti anche se atei o appartenenti a un’altra religione.
In effetti, si tratta di un modello di vita, proprio nell’accezione che sto dando a questo termine in questo libro: un’antropologia, un sistema di usi, costumi, tradizioni e valori che si trasmette da secoli, si trasforma e si accresce: «Non tanto una religione – secondo lo studioso italiano Stefano Piano – quanto un’intera cultura, una visione del mondo e della vita, un modo di essere e di comportarsi, una serie di abitudini quotidiane che si tramandano da millenni, con scrupolosa tenacia, in seno a una civiltà estremamente fedele al proprio passato e nella quale predomina una concezione religiosa dell’uomo e dell’universo».
Giorgio Renato Franci, professore di Filosofie dell’India e dell’Asia orientale all’Università di Bologna, arriva a definire tutto questo come: «Un grande bricoleur che non butta via niente, ma conserva e quando è possibile ricicla secondo le nuove necessità… Tante e molto eterogenee sono le forze concorrenti e comunque presenti sul campo: gruppi di seguaci di qualche maestro, pellegrini, ritualisti per i quali la corretta esecuzione del sacrificio è tutto, e mistici appassionati; nonviolenti e seguaci di una sacralità violenta fino, in casi estremi, al sacrificio umano; saggi distaccati (ma non sempre distaccati dall’affermazione della superiorità del loro distacco), asceti casti e per converso orgiasti, ecc.».
L’origine dell’induismo è da collegare ai Veda, una raccolta di testi tramandati per secoli prima di essere trascritti tra il 2000 e il 1100 a.C. Nella civiltà e nella letteratura religiosa vedica, di tipo politeista, non si parla della sofferenza del mondo ma del godimento (bhukti) della vita terrena. Gli dèi vedici sono immortali, non dormono, non fanno ombra, hanno corpi esili e polimorfi che possono assumere indifferentemente sembianze umane o animalesche. Ad essi si offrono in sacrificio i cibi quotidiani bruciandoli sul fuoco, elemento centrale della liturgia vedica, danzando, svolgendo gare fisiche e competizioni verbali.
Tra l’XI e il IX secolo a.C. nasce la figura del sacerdote – il brahmano – che razionalizza il rito sacrificale e lo utilizza per spiegare gli eventi, prima attribuiti all’intervento divino. In un certo senso questa riforma sancisce il primato dell’uomo sugli dèi, così come avverrà molto più tardi in Europa con l’Illuminismo. Però, a differenza degli illuministi, che tendono a svuotare la funzione dei sacerdoti, con la religione vedica i brahmani impongono il primato dei rituali e finiscono per monopolizzare tutto ciò che rientra nella sfera filosofica, pedagogica, scientifica e sociale, attribuendo un ruolo essenziale al pensiero e al gesto.
A partire dall’IX secolo a.C. compaiono le Upàniṣad, testi secondo cui, dietro ogni manifestazione, di qualunque natura essa sia, vi è un principio assoluto chiamato brahman per cui non vi è differenza né tra gli dèi, né tra gli uomini, gli dèi e il Tutto, che è appunto il Brāhma. Man mano il rito sacrificale viene sostituito dall’adorazione dell’idolo, che arriva al bhakti, rapporto amoroso con esso e persino passione ardente, per cui viene svegliato con canti, lavato, unto, vestito, nutrito, adorato, vezzeggiato, portato in processione, amato e venerato.