Prima parte
Ama la morte e odia il nemico!
TIRTEO DI SPARTA
Capitolo uno
NOVE ANNI DOPO – 431 A.C.
CITTÀ-STATO DI PLATEA, SULLE PIANE DELLA BEOZIA
MESE DELLE AGRIONIE (MARZO)
I toraci scolpiti dei lottatori erano serrati l’uno contro l’altro, come travi inchiavardate insieme da un maestro carpentiere. Si chinarono in avanti, ansimando all’unisono, spalla a spalla e guancia contro guancia. I due si tenevano ancorati conficcando le dita nella carne dell’avversario mentre, a piedi scalzi, cercavano di fare presa sulla sabbia fitta dell’arena nel cortile della fattoria.
Malgrado l’aria fredda della sera, combattevano nudi e legati come i cani, salvo per l’astuccio di cuoio sul pene incirconciso, abbassato e legato allo scroto, per impedire all’avversario di afferrarlo e privarli della virilità. Avevano il corpo ricoperto d’olio d’oliva e polvere, per evitare che le mani scivolassero. Indossavano guanti da pugilato troppo sottili per attutire la brutalità dei colpi. Erano i due migliori pancraziasti della Beozia. Forse addirittura di tutta la Grecia.
«Sei come un maiale che grufola sulla pietra in cerca d’acqua» ringhiò Menesarco. «E non ti darò soddisfazione» aggiunse, enfatizzando l’ovvietà con un grugnito soffocato che gli sfuggì dalle labbra insieme a uno sbuffo di fiato condensato.
Erano passati quasi dieci anni da quando aveva sconfitto e ucciso Damos il Tebano, ma il Toro di Platea non era invecchiato molto. Aveva la barba brizzolata, i capelli più radi, ed era quasi sordo da un orecchio, ma aveva ancora il fisico muscoloso di un guerriero con la metà dei suoi anni. Gli unici segni visibili rimasti da quel tremendo duello di campionato erano la spessa cinghia di cuoio che gli sosteneva il ginocchio lesionato, e il velo di tristezza sui suoi occhi scuri.
Nikias girò il collo fino ad appoggiare la bocca direttamente sull’orecchio a cavolfiore di Menesarco, e rispose in tono di scherno: «Un maiale che grufola sulla pietra? Conosci te stesso, vecchio». Poi riprese a spingere, per costringerlo ad arretrare.
Diversamente dal nonno, Nikias era molto cambiato in quel decennio. Ora lo superava di una spanna, e sebbene il Toro pesasse cinquanta libbre più di lui, i suoi muscoli erano duri quanto quelli di un vogatore delle galee ateniesi. I capelli lunghi, il segno che ancora non aveva raggiunto la maggiore età, erano di un biondo dorato. A dispetto del naso un po’ storto – se l’era rotto tre volte negli incontri da quand’era bambino – la bellezza del suo volto faceva sdilinquire donne di tutte le età.
“Il Toro e il Torello” pensò Menesarco, spingendolo a sua volta. Era così che vedeva se stesso e il nipote. Al momento, però, stava perdendo terreno. Le gambe cominciavano a tremargli per lo sforzo, come se avesse corso una dozzina di volte intorno alle mura di Platea.
«Separatevi» sibilò Said, nel suo marcato accento orientale. L’esile schiavo persiano danzò intorno ai due lottatori, pungolandoli nei polpacci con la punta di un bastone da allenamento finché lasciarono la presa. Il suo intervento fu provvidenziale per Menesarco, cui stavano per cedere le ginocchia. Lanciò uno sguardo al vecchio e fedele servitore, e il persiano snello gli sorrise.
«Combattete!» abbaiò poi, colpendoli entrambi dietro le gambe con una staffilata.
I due si soppesarono, turbinando i pugni in una serie di finte in aria. Menesarco aveva il labbro inferiore pesto e sanguinante. Nikias aveva già incassato due colpi secchi al volto, e un occhio era talmente gonfio da non aprirsi quasi più.
Menesarco aveva appreso dal proprio nonno che Pitagora di Samo era stato il primo ad applicare al pancrazio regole scientifiche, con serie di colpi e finte collaudate. Lui, però, era convinto che la guerra psicologica contasse quanto la tecnica. Gli piaceva schernire i suoi avversari finché, cedendo alla rabbia, perdevano il controllo.
«Non puoi battermi, Nik» disse ora al nipote. «Ti stringerò nell’abbraccio di Morfeo, e a quel punto dovrai dire addio al sole, come al solito.»
In tanti anni di allenamento, Nikias non era mai riuscito a liberarsi da quella presa. Tanto più si dibatteva, tanto più in fretta perdeva i sensi. Non che per questo avesse smesso di provarci. Per Menesarco, tanta tenacia era motivo di rispetto e di irritazione, come una sfida alla sua autorità. Sapeva che, dati il fisico e il talento, presto o tardi il lottatore più giovane lo avrebbe superato in abilità. Era un pensiero rassicurante e inquietante al tempo stesso.
Tra tre giorni Nikias si sarebbe tagliato i capelli per bruciarli sull’altare di Giove insieme a tutti gli altri ragazzi di Platea che in quella stagione compivano diciotto anni. La cerimonia tanto attesa – il ragazzo non parlava d’altro – lo avrebbe reso ufficialmente un uomo, con il dovere di servire come guerriero fino ai sessantacinque anni, e il diritto di votare nell’Assemblea fino alla morte.
«Forse quando avrai bruciato i capelli e militato in una falange avrai le palle sufficienti a sconfiggermi» lo schernì Menesarco.
Ma Nikias non reagì alla provocazione. Arricciò appena le labbra, il sorriso di un cane da caccia che si avvicina a un cinghiale ferito. «Hai sbagliato mestiere, vecchio. Hai più battute in repertorio del drammaturgo Euripide.»
Menesarco provò una strana paura, raramente avvertita nell’arena. O forse era un brivido di euforia? “Che oggi sia il giorno in cui è destinato a sconfiggermi?” pensò.
Nikias gli sferrò un gancio alla testa. Se lo avesse centrato, l’avrebbe mandato al tappeto, ma Menesarco si scansò di lato, e il troppo impeto sbilanciò il ragazzo in avanti. Il vecchio colse al volo la sua occasione. Gli girò alle spalle, gli bloccò il collo con l’avambraccio e si abbassò, per impedirgli di colpirlo in faccia buttando indietro la testa.
«Puoi dire addio al sole, Nikias» gridò Said, conficcando il bastone nella sabbia e mettendosi a braccia conserte. Per oggi, il suo compito era concluso.
Per un momento, Nikias restò immobile.
«Forza, ragazzo!» ringhiò Menesarco, a denti stretti. Erano già passati due secondi. «Fa’ qualcosa. Così è troppo facile…»
Nikias si chinò in avanti, piantò i piedi nell’arena e cominciò ad avanzare verso un capanno a qualche passo di distanza, con le vene gonfie sulle tempie, la faccia sempre più rossa. Menesarco saltellava sulla gamba buona, stringendolo con tutte le forze per bloccargli il flusso del sangue al cervello e cercando di trascinarlo a terra. Ma le gambe del giovane erano troppo vigorose. Riuscì a raggiungere il capanno, afferrò uno dei pali che reggevano il tetto e, torcendo il busto con lo sforzo poderoso di un cavallo imbizzarrito, schiacciò Menesarco violentemente contro il muro. Colto alla sprovvista, Said fece appena in tempo a levarsi di mezzo. L’impatto strappò una smorfia di dolore al nonno. Poi Nikias riprese a muoversi, strofinandogli la schiena lungo il muro, e lacerandogli la pelle sullo stucco ruvido.
Urlando, Menesarco allentò la presa. Nikias si divincolò, gli assestò un diretto in piena faccia e balzò via, alzando le braccia in un gesto di esultanza e strillando a pieni polmoni: «Non te l’aspettavi, eh? La preparavo da un mese! Ora sai come si sente il maiale quando si strofina sulla pietra».
Menesarco si raddrizzò la mascella, facendo scrocchiare l’articolazione. Si sentiva un idiota. Nikias aveva usato la propria forza e la potenza delle gambe contro la sua debolezza di vecchio, e tramutato il muro del capanno in un’arma. Scoccò un’occhiata a Said, il cui volto solitamente placido tradiva un’espressione attonita. Il persiano alzò le sopracciglia, come a dire: Sveglio, il ragazzo.
«Il sole mi sembra più brillante del solito» disse Nikias, schermandosi gli occhi con una mano e strizzandoli verso il cielo. Cominciò a saltellare come un buffone tracio. «Oggi niente sonnellini nella polvere.»
Said rivolse a Menesarco un sussurro aspro: «Schienalo, padrone».
«Ti credi un duro, Nikias?» Zoppicando, il vecchio era tornato sull’arena. «Sterco imberbe che non sei altro.» Sollevò i guantoni, muovendoli su e giù con aria minacciosa. «Pitagora di Samo fu il primo a combattere in modo scientifico, ma…»
«Piantala di darmi lezioni!» lo interruppe Nikias, con un tono autorevole che al vecchio mozzò le parole in gola. Il nipote sembrava persino più alto. Avanzava verso di lui, sicuro come se reggesse uno scudo invisibile. La forza di quello scudo lo costrinse ad arretrare.
«Fatti sotto, vecchio.» La soddisfazione di essere sfuggito alla celebre presa del lottatore più esperto lo aveva gonfiato d’orgoglio. «Basta chiacchiere su Pitagora e maiali. Combattiamo.» Lasciò partire una gragnuola di pugni, poi fece un passo indietro.
Con profondo scoramento, Menesarco si rese conto di temere il proprio nipote. Non aveva più voglia di lottare. Non voleva finire sconfitto.
«Che ci fa qui la figlia di Elladio?» chiese con rabbia Menesarco, indicando gli appartamenti delle donne sul lato opposto dell’arena.
«Dove?» chiese Nikias, voltandosi di riflesso a cercare la figlia del vicino. Ma alle sue spalle non c’era nessuno. Quando tornò a girarsi, si trovò accecato da una manciata di polvere scagliata da Menesarco. Un istante dopo, il Toro lo centrava con un pugno perfettamente calcolato sulla mandibola. Nikias sentì cedere le ginocchia, e stramazzò a terra come morto.
Said si precipitò e gli girò il volto di lato, per permettergli di respirare ed evitare che, da svenuto, finisse per soffocare.
«I vecchi trucchi funzionano ancora» disse, scuotendo la testa per la temerarietà del ragazzo.
«Si è lasciato prendere dall’entusiasmo» rispose, sommesso, Menesarco. «Avrebbe dovuto sfruttare il vantaggio per finirmi.»
Massaggiandosi le nocche indolenzite, restò a guardare il corpo prostrato con un sorriso sghembo. D’un tratto, si accorse del canto proveniente dagli appartamenti delle donne dove sua moglie, la nuora vedova e la nipote erano intente a tessere i panni da vendere in città. I telai di legno risuonavano come strumenti a percussione, scandendo il ritmo della canzone.
Il suono gli riportò alla mente il suo primo ricordo di bambino. Si rivide sdraiato sul pavimento, accanto alla madre seduta a quel medesimo telaio, a guardare l’olio della lana appena filata che si raccoglieva alla base del tessuto e sgocciolava sul pavimento in terra battuta come una rugiada scura. Si sentì invadere da un sentimento sconcertante. Aveva il cuore pieno di una gioia incontenibile, mista a profonda tristezza.
Non poteva più nascondersi al mondo. I corni di guerra erano nell’aria. Gli ateniesi e gli spartani erano sull’orlo di un conflitto aperto. E Platea sarebbe stata presa in mezzo, come un nocciolo di oliva premuto tra due macine enormi. Nikias si sarebbe fatto onore in battaglia, diventando un eroe, o sarebbe morto nell’ignominia come suo padre?
«Tuo nipote ti ha quasi battuto» osservò Said.
«È come dire che sono quasi morto.» Menesarco alzò lo sguardo verso le pendici della collina sovrastante la fattoria, e sugli ulivi piantati là oltre trecento anni prima dal suo antenato, il fondatore della tribù Nemea.
Nascosto dietro l’albero più grosso c’era uno straniero, rimasto là quasi tutto il giorno a spiare la fattoria. Ma Menesarco vedeva soltanto tronchi nodosi e rami contorti, che ai suoi occhi miopi apparivano come sagome di vecchi stanchi.
Capitolo due
Lo straniero indossava cappuccio e mantello di lana color terra abilmente intrecciata a rametti e foglie. Aveva la faccia e la barba riccia ricoperte di uno strato d’argilla mista ad acqua. Immobile, come piantato al suolo, si mimetizzava alla perfezione con l’ambiente. Da sotto il cappuccio, i suoi occhi fissavano Menesarco con un’intensità felina. Chissà cosa pensava il famoso atleta olimpico mentre scrutava le colline con quello sguardo desolato.
Per un momento, lo straniero temette che l’avesse visto, e un brivido di paura gli percorse il collo e le guance. Ma poi Menesarco si passò una mano sul volto, e con aria rassegnata si girò verso il fienile dove due schiavi robusti stavano aggiustando un aratro.
«Portate il giovane padrone dalle donne» ordinò loro.
Nikias era ancora privo di sensi e, trascinand...