A testa in giù
Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore, sarei un rame risonante o uno squillante cembalo. Se avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare i monti, ma non avessi amore, non sarei nulla. Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo a essere arso, e non avessi amore, non mi gioverebbe a niente. […]
Ora dunque queste tre cose durano: fede, speranza, amore; ma la più grande di esse è l’amore.
1 Corinzi 13,1-3. 13
«La storia della sorpresa è perché se avessi saputo dove andiamo avrei detto di no, vero?»
«Nient’affatto. Il posto ti piacerà molto.»
«Ecco, stai chiaramente raccontando palle.»
«Ma no, giuro.»
«Se è un’altra delle tue fregature, me la paghi.»
«Ma quando mai ti ho dato una fregatura?»
«Vediamo: la megaoffertona ad Amsterdam rivelatasi un postribolo.»
«Se ci siamo divertiti un sacco…»
«Ti sei divertito anche nel B&B a Tulum a gettare fuori dalla finestra i granchi giganti che fuoriuscivano dal water?»
«Ma se Tulum l’hai scelto tu!»
«Ma non il B&B.»
«Comunque, a posteriori, mi sono divertito anche lì.»
«A posteriori, anche i funerali hanno un loro charme.»
A pochi chilometri dalla meta sono costretto a fermarmi e a ricorrere a una benda per non rovinare la sorpresa. Il promontorio si vede da lontano, e in un solo sguardo capirebbe tutto.
La cosa non piace affatto a Roccia. Quattro chili e mezzo di cattivo umore e ispido pelo bianco contrastato da due macchie nere sugli occhi che la fanno sembrare un membro della Banda Bassotti, Roccia è la sua inseparabile bastardina.
Mi guarda brutto. Io la ignoro, sono certo che presto mi ringrazierà anche lei.
Parcheggiamo la macchina alla base della scalinata, tra i cespugli di oleandro.
Prendiamo i bagagli leggeri, ho insistito che avremmo trovato tutto lì.
Neanche a un terzo della scalinata iniziano le lamentele.
«È talmente massacrante il tragitto, che una volta arrivati qualunque posto andrà bene.»
«Non sono certo io… lo sportivo tra noi due, e io… ce la faccio… benissimo» mento spudoratamente.
Siamo quasi in cima, ormai sudati fradici.
«Senti, faccio il doppio della fatica a salire senza vedere niente, fammi almeno togliere la benda.»
«Mancano quattro, tre, due… siamo arrivati, puoi guardare.»
Snodo la benda e mi godo la sua sorpresa.
È senza parole, fissa la cartolina davanti ai nostri occhi riprendendo fiato, e mi appoggia una mano sulla spalla.
«È meraviglioso.»
Sembra photoshoppato, ma è proprio lì, il suo sogno d’infanzia: un antico faro bianco, alle sue spalle le colline toscane, di fronte il mare, a strapiombo.
Me ne aveva parlato subito dopo aver fatto l’amore per la prima volta.
«Era dismesso da anni e recentemente l’hanno reso abitabile. Dài che ti faccio vedere.»
Anche Roccia è entusiasta, corre a spirale per il prato, poi scompare nell’erba, per ricomparire saltellando, le miniorecchie sollevate, e la bocca tirata in un sorriso.
Da qui si domina tutta la costa, che si dispiega sinuosa ai nostri piedi.
«Ti amo.»
«Anch’io, bestiaccia.»
La mattina ci svegliamo per le leccate di Roccia.
Io balzo in piedi e vado ad allestire il brunch giapponese che mi chiede sempre e non gli faccio mai.
Il bucolico idillio continua per il resto della giornata.
La sera, mentre si fa la doccia, preparo l’aperitivo in giardino.
Voglio sfoderare l’anello prima di cena, non riesco più ad aspettare, e poi tutto è già perfetto: tra poco inizia il tramonto e, con il riflesso dorato del sole, farò la mia proposta, in ginocchio, scatoletta in mano, comme il faut.
Il sole sta per calare e manco a farlo apposta il prato è invaso da minuscole farfalle giallonere. Roccia le insegue frenetica, ma senza risultati, le farfalle si beffano facilmente di lei svolazzando appena fuori dal suo (minimo) raggio di portata.
Arriva che guardo il mare, con aria distratta, come se avessi trovato tutto lì per caso.
Ok, manca solo il Negroni sbagliato e direi che siamo pronti.
Ne verso due bicchieroni, mi tremano un po’ le mani.
Non proprio per coincidenza, Nina Simone canta di noi, dallo stereo strategicamente posto in veranda.
Birds flying high, you know how I feel.
Sun in the sky, you know how I feel.
Breeze driftin’ on by, you know how I feel.
Roccia corre verso di me e appoggia le sue zampine anteriori alla mia coscia.
«È il momento» sembra volermi dire.
Oppure punta al salmone.
Inspiro fino a che non entra più aria da nessuna parte, come quando da piccolo mi obbligavo a tuffarmi dagli scogli alti per non fare la figura del cagasotto con i miei amici.
Tutto quell’ossigeno mi dà alla testa, le gambe si fanno molli. Mi appoggio allo schienale.
«Tutto bene?»
«Sì, sì.»
«Sei molto pallido.»
«No, davvero, non potrei star meglio.»
«Anch’io.»
Si alza e mi bacia. Roccia abbaia gelosa, come fa sempre quando ci abbracciamo. Ridiamo, senza smettere di baciarci.
Ormai il sole tocca l’orizzonte, è d’oro puro.
It’s a new dawn.
It’s a new day.
It’s a new life, for me.
And I’m feeling good.
Non credo che esisterà mai momento più propizio.
Sorrido e finalmente mi inginocchio.
Non c’è più ritorno ormai, lo capisco non appena panico, sorpresa e meraviglia guizzano nei suoi occhi in un rapido susseguirsi.
Metto la mano in tasca, tiro fuori la scatolina blu notte, la apro lentamente e lascio che lo zaffiro riceva i raggi del sole.
«È uno scherzo?»
«Direi proprio di no.»
Ride, mostrando i suoi denti bianchissimi e così allineati che mi danno voglia di farci una collana. Sono già più rilassato, rido anch’io, ma non è finita.
Mi schiarisco la voce.
«Mattia, vuoi tu…»
E a questo punto, Dio smette di occuparsi della pace in Medio Oriente, la prostituzione in Thailandia e la denutrizione in Africa per interferire con i miei piani.
Un urlo atroce si sovrappone alla voce di Nina Simone.
Sembra la voce di una bambina. Mattia e io ci giriamo di scatto.
Mi esce un gemito d’incredulità, i muscoli si accartocciano per l’orrore: è Roccia, che strilla terrorizzata mentre si alza sempre più in alto nel cielo.
Mattia scatta in piedi, le braccia protese, chiama Roccia, ma già decine di metri lo separano da lei.
Io sono ancora in ginocchio, impietrito, è come se non riuscissi ad abbandonare la proposta che ho preparato con tanta cura, per tanto tempo.
Mattia urla a squarciagola verso di me: «Mafaqualcosacazzo!».
La scatolina dell’anello mi cade nel prato, ma non me ne accorgo neppure. Entro in azione.
Mi fiondo sulla ciotola di mandarini e li lancio uno a uno verso l’aquila che, sbucata da chissà dove, probabilmente in missione per conto di Zeus, ha optato per una cena a base di cane.
Mattia continua a chiamare Roccia, corre sul retro del faro, cade, si rialza, ma non va da nessuna parte. Ha la faccia sfigurata dal dolore, guarda il cielo per non perdere di vista l’aquila.
È giusto sopra di noi, lontanissima.
Mattia lancia un ultimo, disperato grido, dal tono così profondo che non sembra provenire da lui, ma dalle caverne in riva al mare.
«L-a-s-c-i-a-l-a-n-d-a-r-e!»
L’aquila mandata da Zeus ubbidisce: apre gli artigli facendo precipitare Roccia chissà dove.
Mi sveglio di soprassalto, madido di sudore.
Per fortuna non mi tocca vive...