Una vita per l'arte
eBook - ePub

Una vita per l'arte

Confessioni di una donna che ha amato l'arte e gli artisti

  1. 416 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Una vita per l'arte

Confessioni di una donna che ha amato l'arte e gli artisti

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Nel centenario della nascita viene ripubblicata l'autobiografia, ormai introvabile, di uno dei personaggi più importanti dell'universo artistico del Novecento. Di carattere inquieto, partì alla scoperta dell'Europa dove vi rimase circa vent'anni frequentando gli ambienti letterari e artistici del cui lato bohemienne si sentì partecipe. Oltre ad investire le sue cospicue fortune in opere d'arte, 'collezionò' anche con una passione divorante gli autori: amica e amante di molti, moglie, per periodi più o meno lunghi, di alcuni, fu per tutti una 'musa inquieta'. Sono note le sue tempestose relazioni con Laurence Vail, John Holms, Douglas Garman, Yves Tanguy, Samuel Beckett, Max Ernst e altri famosi scrittori e artisti. Sullo sfondo, tra le vicende private della ricchissima ed eccentrica famiglia Guggenheim, emergono gli avvenimenti dell'Europa tra le due guerre. La sua esistenza interamente dedicata all'arte si spense nel 1979 a Venezia, città molto amata da Peggy, nei cui salotti aveva regnato come 'l'ultima dogaressa'.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Una vita per l'arte di Peggy Guggenheim in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Social Sciences e Social Science Biographies. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
ISBN
9788858677209
CAPITOLO PRIMO

L’infanzia dorata

Ho la memoria corta e per questo raccomando sempre agli amici di non raccontarmi le cose che preferiscono mantenere segrete, perché tanto prima o poi mi dimentico della promessa di tacere e racconto tutto.
Cominciai a scrivere le mie memorie nel 1923, iniziando così: «Provengo da due delle famiglie ebree più in vista. Uno dei miei nonni era nato in una stalla come Gesù Cristo, o meglio, sopra una stalla, in Baviera, e l’altro era un venditore ambulante». Ma con quel libro non sono andata molto avanti: probabilmente non avevo niente da dire, o può darsi che fossi troppo giovane per il compito che mi ero prefissa. Adesso mi sento matura, e poi aspettare troppo potrebbe voler dire dimenticarsi di tutto ciò che sono riuscita in qualche modo a ricordare.
Se i miei nonni cominciarono la loro vita modestamente, la conclusero nella ricchezza più sontuosa. Il nonno nato in una stalla, Seligman, giunse in America in terza classe, con quaranta dollari in tasca e a bordo della nave restò vittima del vaiolo. Iniziò a costruirsi la sua fortuna come addetto alla manutenzione dei tetti e successivamente come sarto: cuciva le uniformi dell’esercito dell’Unione nella Guerra civile. Poi divenne un famoso banchiere e fu presidente del Tempio Emanu-El. Tutto sommato, riuscì ad acquisire una posizione sociale più prestigiosa di quella dell’altro nonno, Guggenheim, venditore ambulante, nato a Lengnau, nella Svizzera tedesca. Da parte sua, Guggenheim superò di gran lunga Seligman per l’enorme fortuna che riuscì ad accumulare con l’acquisto della maggior parte delle miniere di rame del mondo, ma i traguardi sociali che conseguì furono di un gradino inferiori a quelli di Seligman. Così, quando mia madre sposò Benjamin Guggenheim, i Seligman giudicarono il matrimonio una mésalliance. Per informare i parenti che vivevano in Europa che la figlia stava per sposare un membro della ben nota famiglia proprietaria delle miniere di rame, inviarono un telegramma che diceva: «Florette si è fidanzata con Guggenheim il fonditore». Quel telegramma suscitò grandi risate in famiglia, poiché via cavo il testo si trasformò in «Guggenheim la fonde».1
Quando nacqui io, i Seligman e i Guggenheim erano ricchissimi: perlomeno, i Guggenheim possedevano enormi ricchezze, e i Seligman non se la passavano tanto male. Il nonno, James Seligman, era un uomo dalle abitudini assai modeste: si rifiutava di spendere denaro per sé e faceva patire gli stenti all’infermiera che si prendeva cura di lui. Visse con poco e lasciò tutto a figli e nipoti. Teneva a mente le date di tutti i nostri compleanni e, sebbene sia morto a novantatré anni suonati, in occasione di queste ricorrenze non si dimenticò mai di farci un assegno: e gli assegni furono tanti in quanto aveva undici figli e quindici nipoti.
Quasi tutti i figli erano strani, per non dire matti, a causa della triste eredità ricevuta dalla nonna. Alla fine, il nonno dovette risolversi a lasciarla; credo che fosse una persona non proprio responsabile, in quanto a moralità. La mamma mi raccontò che non poté mai invitare a casa dei ragazzi senza che sua madre le facesse una scenata; la nonna aveva l’abitudine di andare in giro dai negozianti e, appoggiandosi al bancone, chiedeva loro in tono confidenziale: «Quando pensate che sia stata l’ultima volta che mio marito ha dormito con me?».
I fratelli e le sorelle della mamma erano persone piuttosto eccentriche. Una delle zie che preferivo era un inguaribile soprano. Se, aspettando l’autobus all’angolo della Quinta Strada, le capitava di incontrare qualcuno, attaccava subito a gorgheggiare a bocca spalancata, cercando di convincere il malcapitato a fare altrettanto. Il cappello lo portava calcato sulla nuca o inclinato su un orecchio e tra i capelli, da dove spuntavano minacciosi lunghi spilloni, si conficcava una rosa: dovunque andasse, spazzava la strada con i vestiti a strascico. Comunque, era una cuoca eccellente e faceva una magnifica gelatina di pomodoro; quando non suonava il pianoforte, la si poteva trovare in cucina o a leggere il nastro del telegrafo. Era una giocatrice incallita e aveva una strana fobia per i germi che la spingeva a pulire in continuazione i mobili con il lysoform: ma aveva un fascino talmente straordinario che l’amavo davvero. Non posso dire altrettanto di suo marito, invece: dopo averci lottato per più di trent’anni, cercò di ucciderla e con lei anche uno dei figli, colpendo entrambi con una mazza da golf. Ma non ci riuscì e, disperato, corse alla cisterna dove si annegò con dei grossi pesi legati ai piedi.
Un’altra zia assomigliava più a un elefante che a un essere umano; ormai a tarda età le venne l’idea del tutto gratuita di aver avuto una relazione con un farmacista. Sebbene si trattasse di una cosa puramente immaginaria, ne provò un rimorso così intenso che divenne improvvisamente malinconica e dovette farsi ricoverare in una casa di cura.
Il più attraente dei miei zii era un gentiluomo vecchia maniera molto raffinato. Si era separato dalla moglie, una donna ricca come lui, e aveva deciso di vivere molto semplicemente in due piccole stanze e di spendere tutto il denaro rimastogli in pellicce che regalava alle ragazze. Qualsiasi ragazza poteva averla: bastava chiederla. Si fregiava della Legion d’Onore, ma non ci aveva mai detto perché era stato decorato.
Un altro zio possedeva miniere di carbone; ne aveva ingoiato per anni e i denti gli erano diventati neri. In una tasca foderata di zinco portava sempre alcuni pezzetti di ghiaccio che succhiava ininterrottamente. Prima di colazione beveva whisky e non toccava quasi cibo. Giocava forte, come la maggior parte degli zii e delle zie, e quando restava senza denaro minacciava di suicidarsi per spillarne al nonno. Aveva un’amante che teneva nascosta in camera sua, e nessuno aveva il permesso di andarlo a trovare, finché non si suicidò, questa volta sul serio, e non fu ovviamente più in grado di tenere lontana la famiglia. Al suo funerale il nonno scandalizzò tutti percorrendo la navata a braccetto con l’amante del figlio. Tutti si chiesero come fosse arrivato a tanto.
C’era poi uno zio spilorcio che non spese mai un centesimo: arrivava sempre all’ora di pranzo dicendo di non voler toccare nulla e poi mangiava tutto ciò che vedeva. Dopo cena rappresentava per i nipoti una scenetta terrificante, si chiamava Il serpente e ci riempiva allo stesso tempo di terrore e di divertimento. Dopo aver disposto in fila un gruppo di seggiole, avanzava fra di esse contorcendosi sulla pancia, dando così effettivamente l’illusione del movimento di un serpente. Gli altri due zii erano pressoché normali: uno di loro passava il tempo a lavarsi e l’altro a scrivere commedie che non vennero mai rappresentate. Quest’ultimo era un tesoro, il mio preferito.
L’altro nonno, Meyer Guggenheim, sposò la sorellastra, con la quale visse felicemente. Formavano una famiglia addirittura più numerosa di quella dei Seligman, anche se meno eccentrica. Erano sette fratelli e tre sorelle e fra tutti misero al mondo ventitré nipoti. Quando la nonna morì, del nonno si occupò la cuoca e probabilmente ne divenne l’amante: rammento di averla vista piangere a dirotto soltanto perché il nonno soffriva di vomito.
L’unico ricordo che conservo di questo gentiluomo è di averlo visto a spasso per New York su una slitta tirata da cavalli: era solo ed indossava un cappotto con un colletto di pelle di foca e un cappello intonato. Morì quando io ero ancora molto piccola.
Sono nata a New York, nella Sessantanovesima strada ovest. La mamma mi raccontò che mentre l’infermiera riempiva la borsa dell’acqua calda io mi precipitai nel mondo con la mia consueta velocità, gemendo come un gattino. Fui preceduta da una sorella, Benita, che aveva circa tre anni più di me e che costituì il grande amore della mia infanzia, o meglio di tutta la mia vita immatura, e forse non è mai finito.
Ci trasferimmo presto in una casa della Settantaduesima strada est, vicino all’ingresso del parco. Avevamo per vicini gli Stillman e i Rockefeller e di fronte a noi viveva la vedova del presidente Grant. Mio padre riadattò la casa e la rese molto elegante. Quando io avevo circa cinque anni nacque Hazel, la mia seconda sorella, della quale ero diabolicamente gelosa.
Non c’è elemento che riguardi quella casa che non susciti in me i ricordi più vivi: per anni, me la sono sognata la notte. Per entrare nella nostra nuova proprietà si dovevano superare non una ma due porte di vetro divise da un’anticamera. Poi ci si ritrovava in un piccolo ingresso di marmo, con una fontana e un’aquila in catene imbalsamata. L’aveva catturata mio padre, nonostante fosse proibito, nell’Adirondack, dove a fine estate andavamo in campeggio.
Dietro l’ingresso, che aveva una scala di marmo, c’era una porta che conduceva all’ascensore. Nel 1941, di ritorno a New York dopo un’assenza di molti anni, tornai in questa casa per far visita ad una zia che viveva lì. Quando fummo nell’ascensore, mia figlia, che allora aveva sedici anni, all’improvviso se ne uscì con questa domanda: «Mamma, hai vissuto in questa casa quando eri bambina?». Io risposi timidamente «Sì» e per convincerla aggiunsi: «È qui che nacque Hazel». Mia figlia mi rivolse un’occhiata sorpresa e concluse con questa affermazione: «Mamma, come sei caduta in basso!». Da quel momento, il maggiordomo che ci precedeva su per le scale mi guardò con sospetto e mi fece entrare con riluttanza: probabilmente, ciò che infine lo convinse fu il fatto che mi ricordavo molte cose dell’appartamento.
Al piano terreno c’era una sala da pranzo con un soffitto altissimo a pannelli e sei arazzi di scarso valore; nel retro si apriva una piccola serra piena di piante e al centro un salone con un enorme arazzo che rappresentava l’ingresso trionfale di Alessandro il Grande a Roma. Di fronte si trovava un tavolo da tè a due scomparti, con un servizio in argento semplicemente mostruoso: in questa sala la mamma riceveva di pomeriggio, una volta la settimana, le signore più noiose dell’alta borghesia ebraica, obbligandomi a partecipare ben sapendo che lo facevo malvolentieri.
Nella parte anteriore della casa era ambientato il nostro salotto Luigi XVI con grandi specchi, arazzi sul muro e mobili ricoperti di stoffa. Sul pavimento era adagiata una pelle d’orso, con la bocca e la lingua enormi e rosse. A volte la lingua si staccava e allora aveva un aspetto veramente ripugnante; i denti, invece, li avevano fatti fissare in modo definitivo. C’era anche un pianoforte a coda e una notte ricordo di essermi nascosta sotto questo piano e di aver pianto al buio. Mio padre mi aveva cacciata da tavola perché alla tenera età di sette anni gli avevo detto: «Papà, tu devi avere un’amante, altrimenti non passeresti fuori casa tante nottate!».
La parte centrale della casa era coperta da una cupola di vetro che lasciava filtrare la luce del giorno. Di notte l’illuminazione era garantita da una lampada sospesa. Attorno ad essa si svolgeva un’ampia scala a chiocciola che partiva dal piano terreno e terminava al quarto, dove vivevo io. Ricordo perfettamente il motivetto che mio padre aveva inventato e che fischiava per attrarre la mia attenzione quando arrivava a casa la sera e saliva le scale a piedi. Adoravo mio padre e non mancavo mai di corrergli incontro.
I miei genitori stavano al terzo piano, dove, nella parte anteriore, c’era una libreria tappezzata di velluto rosso ed ampi scaffali a vetri che ospitavano i classici; un altro tappeto di pelle di tigre e alle pareti erano appesi i ritratti dei miei quattro nonni. Questa sala, come ogni stanza della casa, aveva tendine di pizzo color crema alle finestre.
Era in questa stanza che mi sedevo ad un ampio tavolo Luigi XV con il piano di vetro e venivo imboccata da una signorina il cui unico dovere, allora, era di assicurarsi che io mangiassi. Non avevo mai appetito. Quando le lacrime non bastavano, protestavo vomitando e così si concludeva il pasto.
La mamma aveva la sua stanza nel retro della casa. Era preceduta da una piccola nicchia che conteneva gli armadi necessari al suo notevole guardaroba. La camera, con due letti gemelli, era tappezzata di seta rosa e i mobili erano di mogano con intarsi d’ottone. Sullo scrittoio, troppo alto per essere usato come tavolo da toeletta, stavano una serie di spazzole e bottiglie d’argento. C’era un lungo specchio di fronte al quale la mamma si sedeva per farsi pettinare dalla signorina francese o da un parrucchiere che veniva appositamente per lei. In quell’ora avevo il permesso di giocare nella stanza della mamma, dietro la quale c’era il guardaroba del papà.
Di sopra, le mie sorelle ed io avevamo un intero piano a nostra disposizione, finché il nonno Seligman non venne a vivere da noi. La mia stanza era vicino ad uno scalone ripido e oscuro che portava agli appartamenti della servitù e che mi faceva tanta paura al punto che di notte soffrivo di incubi.
Mi ricordo anche molto bene gli appartamenti della servitù, che erano squallidi e contrastavano nettamente con le nostre stanze eleganti. Le camere degli uomini erano le peggiori in assoluto: non erano al piano superiore, già brutto a sufficienza, ma nel retro della casa, su pianerottoli piccoli e strani che si aprivano lungo le scale di servizio. La cucina era di sotto, al pianterreno, quasi al buio.
La mamma invitava spesso gente a cena e ricordo che in una di queste occasioni la signorina si precipitò a chiamarla, mentre era a tavola. Aveva udito piangere un bambino nella stanza della cameriera e, incuriosita, aveva scoperto un neonato nascosto in una cassa, strangolato con il suo stesso cordone ombelicale. La ragazza era venuta a casa nostra solo pochi giorni prima, probabilmente per avere un rifugio, aveva partorito per conto suo e ucciso la sua creatura illegittima. Il medico di famiglia la dichiarò malata di mente e riuscì così ad evitarle la prigione.
La mia infanzia fu particolarmente infelice: non ne conservo alcun bel ricordo e, se ci penso, la rivedo come una lunga, infinita agonia. Quando ero molto giovane non avevo amici, e non andai a scuola finché non ebbi quindici anni; prima di allora studiavo a casa con insegnanti privati. Ci fu un periodo in cui presi lezioni assieme ad una ragazza di nome Dulcie Sulzberger. Aveva due fratelli affascinanti ed uno in particolare, Marion, mi piaceva moltissimo.
Mio padre insistette perché noi figli ricevessimo un’educazione adeguata e imparassimo ad avere “buon gusto”. Lui stesso era appassionato d’arte, comprava moltissimi quadri e a Monaco ci fece fare il ritratto da Lenbach, ma poiché a quel tempo avevo solamente quattro anni, non ne conservo alcun ricordo. La mia memoria arriva solamente fino alla nascita di Hazel. Lenbach mi dipinse in un costume alla Van Dyck e, per qualche strana ragione, mi fece gli occhi castani invece che verdi e i capelli rossi invece che castani. Con Benita si sbizzarrì meno: forse perché era tanto bella, la ritrasse così com’era, con occhi e capelli castani. Posseggo due ritratti, uno di me da sola e l’altro assieme a Benita, in cui i miei capelli sono color oro. Si tratta dei tesori più importanti del mio passato.
Gli unici giocattoli che ricordo sono un cavallo a dondolo con un’enorme groppa ed una casa delle bambole nel cui interno c’erano tappeti di pelle d’orso e meravigliosi candelieri di cristallo. La casa delle bambole mi ha lasciato addosso una grande nostalgia, e per anni ho cercato di riprodurla per mia figlia. Ho trascorso mesi a tappezzare di carta le pareti e a comprare oggetti per arredare la sua casetta. Infatti ancora non resisto alla tentazione di acquistare giocattoli. Naturalmente li regalo subito ai bambini, ma devo comprarli per mio divertimento personale. Ricordo anche un armadietto di vetro pieno di minuscoli mobili d’argento e d’avorio incisi a mano, che avevano una chiave in ottone scolpita alla vecchia maniera. Ho sempre tenuto l’armadietto chiuso a chiave e non ho mai permesso a nessuno di toccare i miei tesori.
I ricordi più vivi riguardano Central Park, dove da piccola andavo con la mamma su una limousine elettrica. Sull’East Drive c’era una roccia particolare che assomigliava a una pantera sul punto di spiccare il balzo: la chiamai “il gatto” e ogniqualvolta la superavamo facevo finta di telefonarle per salutarla o avvertirla del nostro arrivo, usando come telefono il tubo di comunicazione della nostra limousine. Successivamente cominciai ad andarmene in giro per il parco su una piccola automobile a pedali. Il posto più adatto era The Mall, mentre al Ramble mi divertivo ad arrampicarmi sulle rocce da sola, mentre la governante aspettava di sotto. D’inverno mi obbligavano ad andare a pattinare sul ghiaccio, cosa che mi faceva soffrire pene atroci: avevo le caviglie troppo deboli e la circolazione difettosa. Non dimenticherò mai il dolore straziante che avvertivo mentre mi si sgelavano le dita dei piedi quando, tornando dal lago, mi stringevo contro una stufa che si trovava in una piccola capanna attrezzata per i pattinatori.
Tutto ciò mi ha lasciato ricordi talmente penosi che da allora in poi ho sempre fatto in modo da evitare il parco. Infatti, quando agli inizi degli anni Quaranta tornai a New York, mi rifiutai di andarci. Accadde però che una calda notte d’estate Alfred Barr insistesse a portarmici: mi sforzai di ritrovare i luoghi della mia infanzia, ma tutto era cambiato. Solo The Ramble con il suo vecchio castello era rimasto fedele ai miei ricordi d’infanzia.
Da bambina non solo fui molto solitaria e triste, ma anche piena di angosce. Una volta ebbi una signorina che minacciò di tagliarmi la lingua se avessi osato ripetere alla mamma le cose sporche che lei mi diceva. Disperata e spaventata raccontai tutto alla mamma e la signorina fu subito licenziata. Inoltre non ero affatto robusta ed i miei genitori erano sempre preoccupati della mia salute; immaginavano che avessi ogni tipo di malattia e mi portavano continuamente da medici vari. Quando avevo circa dieci anni, decisero che soffrivo di un disturbo intestinale e trovarono un medico che mi ordinò di fare una serie di enteroclismi. La signorina di Hazel fu incaricata di somministrarmeli, ma poiché non era adatta a svolgere questo compito, il risultato fu catastrofico. Ebbi un attacco acuto di appendicite e venni trascinata di corsa all’ospedale durante la notte ed operata. Per alcuni giorni mi tennero all’oscuro di tutto: pensavano che fossi ancora troppo giovane per sapere. Comunque non credetti ad una parola della loro stupida storia ed insistetti a sostenere che mi avevano tagliato la pancia.
Subito dopo mia sorella Benita si prese la pertosse e dovemmo separarci per paura del contagio, in quanto un colpo di tosse avrebbe potuto far riaprire la mia ferita che era appena cicatrizzata e, diciamolo francamente, enorme. La mamma prese una casa a Lakewood nel New Jersey per sé e per Benita, ed io venni mandata in albergo con una governante diplomata. Credo che non ci sia bisogno di aggiungere che trascorsi un inverno solitario; solo occasionalmente mi fu permesso di parlare a Benita per strada e da grande distanza. La mamma aveva diverse nipoti in età da marito e offriva continuament...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione. di Gore Vidal
  4. Introduzione. di Alfred H. Barr, Jr.
  5. Una vita per l’arte
  6. 1. L’infanzia dorata
  7. 2. La verginità
  8. 3. Il matrimonio
  9. 4. Fine della mia vita con Laurence Vail
  10. 5. La mia vita con John Holms
  11. 6. Hayford Hall
  12. 7. Morte di John Holms
  13. 8. La mia vita con Garman
  14. 9. Yew Tree Cottage
  15. 10. Il comunismo
  16. 11. Guggenheim Jeune
  17. 12. La mia vita durante la guerra
  18. 13. La mia vita con Max Ernst
  19. 14. Fine della mia vita con Max Ernst
  20. 15. Pace
  21. 16. Vita nell’appartamento doppio
  22. 17. Art of This Century
  23. Intermezzo
  24. 18. Venezia e la Biennale
  25. 19. Palazzo Venier dei Leoni
  26. 20. Ceylon, India e di nuovo Venezia
  27. 21. Ritorno a New York
  28. Conclusione
  29. APPENDICE. Venezia
  30. Copyright