La politica non serve a niente
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La politica non serve a niente

Perché non sarà il Palazzo a salvarci

  1. 206 pagine
  2. Italian
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La politica non serve a niente

Perché non sarà il Palazzo a salvarci

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È la prima volta che i cambiamenti della società sfuggono completamente al controllo della politica. L'innovazione si sviluppa lontano dai Parlamenti, i nuovi protagonisti sono troppo potenti e globali per essere affrontati da piccoli Stati. Uber liberalizza il trasporto pubblico, Spotify regala musica invece di venderla, AirBnB vanifica i tentativi degli albergatori di fare cartello, Facebook e Google iniziano a comportarsi come Stati del web, gli utenti sono i loro cittadini. Oggi gli utili si fanno conquistando miliardi di consumatori a cui migliorare la vita offrendo prodotti e servizi quasi gratis. Ma non di solo profitto si tratta: mentre i governi tagliano su welfare e investimenti, i nuovi modelli di business hanno reso conveniente per i privati cercare di risolvere alcuni grandi problemi del mondo. Allora la politica è diventata inutile? Forse sì, almeno nella forma in cui l'abbiamo conosciuta finora. E non è detto che sia una cattiva notizia. Se le scelte collettive, quelle dei governi, sono sempre meno rilevanti, cresce il peso delle scelte individuali. In questi anni difficili abbiamo quindi due possibilità: continuare a lamentarci dei politici che non ci aiutano, aspettando che le cose cambino e arrivi "la ripresa". Oppure prendere atto delle enormi opportunità che la fine della politica tradizionale sta aprendo e provare a sfruttarle, prendendo in mano il nostro destino.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
ISBN
9788858682043
Argomento
Business

1

I sintomi del declino

Promesse non mantenute

La sera del 25 gennaio 2015 ad Atene tutta la politica è condensata in una strada pedonale lunga 300 metri. A un estremo c’è il tendone che fa da quartier generale per la campagna elettorale di Syriza, il partito radicale di sinistra che vuole ridiscutere i rapporti tra la Grecia e i creditori della Troika (Commissione europea, Fondo monetario internazionale e Banca centrale europea). All’altro capo, la piazza dell’Università con il palco dal quale il candidato di Syriza Alexis Tsipras farà il discorso della vittoria. A mezza via, un piccolo prefabbricato, con i vetri pieni di insulti scritti a pennarello e un lucchetto alla serratura: è il comitato elettorale di quel che resta del Pasok, lo storico partito socialista che un tempo aveva il 44 per cento dei voti e faceva governi monocolore e che nel 2015 è precipitato al 4,7 per cento. Mentre Syriza è il primo partito con il 36,3. Sono elezioni disperate, nelle quali un Paese che ha perso un quarto della propria economia negli anni della crisi, tra 2010 e 2014, deve scegliere tra chi chiede di avere pazienza e di sopportare una durissima cura di austerità che forse in un domani lontano porterà a una nuova crescita e chi, dall’altra parte, vuole sfidare l’Europa e i creditori anche minacciando di portare il Paese in bancarotta. Eppure, in una consultazione così drammatica, l’affluenza è soltanto del 63,9 per cento, appena l’1,4 in più delle elezioni europee del 2014.
Il governo Tsipras viene salutato come l’inizio di una nuova fase per la Grecia, la rinascita dopo gli anni bui della Troika, il terzetto di istituzioni che ha vigilato per quattro anni sulle riforme da attuare in cambio di un pacchetto di aiuti arrivato alla colossale cifra di 244 miliardi. Tsipras vince con una promessa chiara: stracciare il memorandum of understanding sottoscritto dai governi precedenti, cioè rifiutarsi di continuare con l’austerità decisa a Bruxelles che ha portato la Grecia a tagliare stipendi pubblici, licenziare migliaia di statali, chiudere la televisione pubblica e ridurre il welfare al punto che anche le cure sanitarie di base spesso dipendono dal coordinamento di volontari invece che da ospedali regolari.
Le elezioni del gennaio 2015 sembrano il ritorno della politica dopo gli anni della tecnica: la democrazia si riprende il suo spazio dimostrando che certi interventi – per esempio, drastiche riduzioni di stipendio ai dipendenti pubblici o tagli alle pensioni – sono possibili soltanto in condizioni temporanee di emergenza, in cui le normali dinamiche democratiche sono sospese. Certe cose, insomma, si possono fare soltanto quando c’è un governo sostenuto da una maggioranza estesa alle principali forze politiche che rinunciano all’abituale confronto per approvare misure che non portano voti ma servono a evitare scenari peggiori. E le «larghe intese» diventano un modo per condividere lo stigma, cioè per impedire agli elettori di sanzionare un partito o l’altro quando si vota: se tutte le forze principali hanno sostenuto l’impopolare austerità, a nessuna di queste può essere attribuita tutta la colpa. Il rischio, però, è che poi tutti i voti vadano ai partiti che si rifiutano di partecipare a questo schema, come è successo in Grecia con l’improvvisa crescita di Syriza.
La sera del 25 gennaio, nella piazza dell’Univeristà di Atene, ci sono migliaia di persone, fragili anziani si arrampicano sui monumenti per vedere Tsipras agitare il pugno della vittoria, decine e decine di italiani cantano – insieme ai greci – Bella ciao, convinti che dal Paese che aveva inventato la democrazia stia partendo una nuova fase in cui gli elettori si sarebbero dimostrati più forti delle istituzioni della finanza internazionale e della governance europea. Io osservo, un po’ perplesso, Alexis Tsipras gridare che «la Troika è storia»: sono incerto se farmi contagiare dal clima di euforia generale o lasciar prevalere lo scetticismo. Sto guardando l’ultimo custode di una fiamma democratica quasi spenta sul continente europeo o, più banalmente, l’ennesimo politico che vince le elezioni facendo promesse che non ha alcuna possibilità di mantenere?
La lista delle ambizioni di Syriza è lunga, a cominciare da un taglio drastico del debito pubblico di Atene, arrivato al 175 per cento del Pil. Tsipras vuole portarlo al 60 con una Conferenza internazionale del debito, come quella che si tenne per la Germania nel 1953: i creditori dovrebbero rinunciare spontaneamente a una parte cospicua del loro rimborso così da non soffocare Atene sotto il peso del suo indebitamento. Tsipras vuole anche sospendere il pagamento degli interessi sul debito pubblico, così da accumulare risorse per la crescita e per finanziare il suo «Programma di Salonicco». Quello che più interessa ai greci sono le promesse (enormi) di cambiamento in patria: assistenza sanitaria anche per i disoccupati che ora la perdono, aumento del salario minimo, 300.000 posti di lavoro con investimenti pubblici, riapertura della tv pubblica Ert, case popolari e, nell’immediato, sollievo dalla povertà per le vittime della crisi (ad Atene i senzatetto sono passati da 3000 a oltre 30.000), cancellazione dell’Enfia, una specie di Imu locale sulla casa. Un piano che costa oltre 11 miliardi. Le coperture finanziarie? Secondo Syriza ci sono per ben 12 miliardi. Ma paiono un po’ incerte, del genere che in condizioni normali la Commissione europea non approverebbe mai: lotta all’evasione fiscale, recupero tasse arretrate, nuove imposte su settori privilegiati come quello degli armatori.
Tsipras sa di aver vinto non perché ha promesso di redistribuire ricchezze – che non ci sono –, ma perché i greci sono convinti che per decidere chi deve pagare il costo della crisi è meglio ci siano i ribelli di Syriza, invece che quell’intreccio di politici corrotti e oligarchi che ha portato il Paese a un centimetro dal default.
Dopo pochi giorni, però, inizia il ritorno alla realtà. Tutti, compreso lo stesso Tsipras, ridimensionano le proprie ambizioni. Fin dalle sue prime dichiarazioni il pur bellicoso ministro delle Finanze Yanis Varoufakis rinuncia alla Conferenza internazionale del debito e si limita a chiedere condizioni più morbide nel programma di riforme abbinato ai finanziamenti: la Grecia ha bisogno degli ultimi 7,2 miliardi di aiuti già previsti e pretende di averli anche senza sottoporsi all’esame finale previsto per la fine di febbraio. La promozione è esclusa, dato che il precedente governo Samaras non ha adottato tutte le misure concordate e quello di Tsipras vuole fare l’opposto di quanto desiderato da Bruxelles. L’unico risultato, ma soltanto simbolico, è la fine della Troika. Le tre istituzioni – Ue, Fmi, Bce – continuano però a vigilare e intervenire sulla politica greca esattamente come prima, con la differenza che il loro nome diventa il più rassicurante «Brussels Group».
I retroscena da Bruxelles raccontano della frustrazione dei funzionari della Commissione che non tollerano l’estenuante lentezza del negoziato con la Grecia e l’enorme quantità di fastidi aggiuntivi che ha comportato l’elezione di Alexis Tsipras. Eppure, a loro modo di vedere, la soluzione che garantirebbe di far approvare in Parlamento le misure necessarie per consentire alla Grecia di raggiungere gli obiettivi di bilancio sarebbe semplice: cambiare la maggioranza parlamentare. Tsipras dovrebbe liberarsi dell’ala più euroscettica di Syriza e allargare la coalizione anche al partito centrista moderato Potami, così da non avere problemi quando si vota. Tutto giusto e coerente. Ma a che cosa è servito votare se la maggioranza politica e il governo pretende di deciderli qualcuno che non è affatto stato eletto ma che da Bruxelles o dal Fondo monetario di Washington ha molto più potere sui cittadini greci che il loro premier?
Nel giro di pochi mesi diventa chiaro che quelle elezioni di gennaio non erano state una svolta, avevano sancito non il ritorno della politica ma la sua impotenza. Il 30 giugno 2015, la Grecia non riesce a rimborsare un prestito da 1,6 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, perde ogni potere contrattuale, i creditori cercano di imporre piani di riforme e sacrifici sempre più duri, sapendo che Atene non ha più soldi. Il premier Tsipras interrompe i negoziati, chiede un referendum popolare: trionfa, il 61 per cento degli elettori dice «No» (Oxi, in greco) all’ultima proposta dei creditori. Di nuovo, in tutta Europa, ma soprattutto in Italia, si celebra la rinascita della politica, il trionfo della democrazia sulla tecnica, il popolo che si riprende la facoltà di decidere sul proprio destino. Nel giro di pochi giorni, però, Tsipras viene messo di fronte a una scelta netta: far uscire la Grecia dall’euro, in teoria per un periodo di tempo limitato, oppure accettare un nuovo programma di aiuti da 86 miliardi di euro cui fanno da garanzia riforme ancora più severe di quelle bocciate dal referendum. Tsipras si arrende e sottopone al Parlamento greco il nuovo programma di aiuti pur sapendo che la sua maggioranza si spaccherà e che lui sarà considerato un traditore del popolo greco. Gli stessi opinionisti che celebravano il referendum con trionfo tattico, l’inesorabile superiorità della democrazia sui vincoli dell’economia, osservano impietriti.
Il caso di Atene è estremo ma è un buon punto di partenza per cercare di capire cosa sta succedendo alla politica. E perché è diventata inutile.

La grande fuga

L’Italia non è la Grecia, i problemi sono simili ma l’intensità per fortuna minore, eppure anche qui da noi sembra che qualcosa si sia rotto all’improvviso nel rapporto tra elettori e partiti. Per dirla con il linguaggio dei politologi, non siamo più dentro una «crisi nel sistema» ma in una «crisi di sistema». Non stanno vacillando soltanto i protagonisti della dinamica democratica, cioè i partiti, ma lo stesso impianto della democrazia come l’abbiamo conosciuta. Al Forum svizzero di Davos, dove si riuniscono quegli amministratori delegati, accademici e finanzieri che formano la Superclass mondiale, nel 2015 è stato invitato a parlare un giovane imprenditore messicano. Si chiama Jorge Soto e trova una sintesi efficace della situazione: «I nostri governi semplicemente non sono parte della conversazione: abbiamo istituzioni del diciannovesimo secolo con una mentalità da ventesimo che cercano di comunicare a cittadini del ventunesimo secolo. I nostri governi sono eletti, si dissolvono e vengono rieletti soltanto per perseguire agende di breve periodo, anche se il ciclo che produce fiducia richiede investimenti e risultati nel lungo periodo. Nessuna sorpresa se le persone pensano che il sistema si sia rotto».
La crescita dell’astensionismo in Italia è la dimostrazione concreta del fatto che la politica non è più percepita come una variabile fondamentale dei nostri destini. L’Italia ha sempre avuto una partecipazione elettorale elevata perché a noi italiani, votare, piaceva proprio. Alle elezioni del 2008, il tasso di astensionismo era al 19,5 per cento, in aumento rispetto al passato ma molto basso rispetto a Paesi paragonabili per dimensione e caratteristiche. In Francia alle legislative del 2007 era del 39,6 per cento, in Spagna nel 2011 del 31,1 per cento, in Gran Bretagna nel 2010 del 34,9 per cento. Certo, la partecipazione è in lento ma continuo calo: dal 1992 al 2008 è stata in media dell’83,4 per cento.
Poi è cambiato tutto, all’improvviso, e si è verificato un terremoto elettorale nel 2013: per la prima volta la partecipazione è scesa, e di molto, sotto la soglia simbolica dell’80 per cento: soltanto 75,1 per cento, ben cinque punti in meno che nel 2008. Oltre due milioni e mezzo di persone hanno deciso di rimanere a casa, lo sforzo di recarsi in una scuola per segnare con la matita quale partito dovesse scegliere i loro rappresentanti in Parlamento è stato giudicato eccessivo rispetto al beneficio di sentirsi parte del processo democratico. Nel 2008 l’aumento dell’astensione, considerato un po’ fisiologico vista la tendenza generale nelle democrazie occidentali al calo della partecipazione, era stato del 5,4 per cento rispetto alle consultazioni del 2006. Questa volta il balzo ha un altro ordine di grandezza: +28 per cento. E se confrontiamo il «terremoto» del 2013 con un altro aumento notevole dell’astensionismo, nel 1979 dopo la fine del compromesso storico, la situazione è questa: l’astensionismo è salito del 67 per cento. E nella cosiddetta «zona rossa», l’Italia centrale che fu dominata dal Pci e poi è rimasta territorio della sinistra, la parte del Paese con la più radicata cultura di partecipazione politica, l’aumento è addirittura del 95 per cento.
Le elezioni regionali del 2015 indicano che il voto del 2013 non è stato un’eccezione: l’astensione continua a crescere e siamo a un passo dalla soglia critica, quella oltre la quale i non votanti superano i votanti tra gli aventi diritto. In Veneto, per esempio, l’affluenza è del 57 per cento contro il 66 delle elezioni di cinque anni prima. Ma se si guardano i voti assoluti, cioè il numero di elettori e non le percentuali che misurano i rapporti di forza tra partiti, si nota una fuga impressionante: il centrodestra in cinque anni, tra le regionali del 2010 e quelle del 2015, nelle sette regioni in cui si votava ha perso 2,3 milioni circa di elettori. Il centrosinistra 1,6. Se facciamo il confronto con il 2005, il calo decennale è di 2 milioni per il centrodestra e 3,1 per il centrosinistra. Il politologo dell’Università di Bologna Filippo Andreatta ha calcolato da quanti elettori sono effettivamente sostenuti i governatori eletti: tutti i voti presi dalla coalizione vincente di centrosinistra in Campania valgono soltanto il 20 per cento dell’elettorato. In Liguria il candidato di Forza Italia Giovanni Toti risulta primo un po’ a sorpresa, ma tutti i voti raccolti dal centrodestra sono soltanto il 21 per cento di quelli potenziali. Che è come dire che quasi l’80 per cento dei liguri non ha fiducia o interesse in Toti come governatore. Perfino in Toscana, una delle «regioni rosse» dove prima il Pci e poi i suoi eredi fino al Pd hanno sempre stravinto grazie anche a una forte presa sulla società, il governatore Enrico Rossi (ovviamente Pd) viene rieletto senza problemi, ma dietro di sé ha soltanto il 22 per cento degli elettori toscani. Non è un problema di legittimità: chi vince governa e i rapporti tra forze politiche si danno in percentuale, sono quelle a decidere quanti rappresentanti vengono eletti per ogni partito. Ma per fare riforme conta anche il consenso reale. E se i voti che sono dietro i decisori politici sono quelli di una ristretta minoranza, la loro forza impositiva sarà molto minore rispetto a quando erano davvero legittimati dalle masse.
L’astensionismo o il voto per formazioni diverse da quelle tradizionali sembrano crescere soprattutto dove i cittadini sono politicamente più attivi, più consapevoli. È dunque un astensionismo di protesta ragionata e meditata, non una mancanza di interesse per le elezioni. La conferma della svolta del 2013, che ha segnato l’inizio di una nuova fase di volatilità elettorale, c’è già nel novembre 2014, con le regionali in Emilia-Romagna: l’affluenza si ferma al 37,7 per cento, alle consultazioni precedenti era il 68,1 per cento. Le inchieste giudiziarie sugli sprechi di consiglieri regionali e i pasticci sulle candidature (tra i due sfidanti alle primarie del Pd indagati per lo stesso reato, uno, Stefano Richetti, si ritira, l’altro, Stefano Bonaccini, resta in corsa e vince) non bastano a spiegare un simile tracollo. E neppure si può imputare a un’improvvisa perdita di popolarità del governo Renzi, ancora in una fase iniziale del suo mandato e reduce, anzi, da un grande successo di consensi al voto europeo di pochi mesi prima.
Precedenti impennate dell’astensionismo si erano registrate solo in momenti drammatici della storia nazionale, con grandi eventi che avevano fatto perdere ogni fiducia nel sistema dei partiti: come reazione all’omicidio Moro, nel 1979, o dopo gli arresti di Mani Pulite, nel 1992. Questa volta gli unici traumi collettivi, ormai passati dalla fase acuta a quella cronica, sono la Grande recessione e l’assenza di ripresa dopo il crollo del Pil nel 2009. Una crisi che in Emilia-Romagna è penetrata lentamente, minando in pochi anni anche il sistema economico più coeso e robusto d’Italia. Dall’astensionismo in Emilia-Romagna si può trarre soltanto una conclusione: anche gli italiani più informati sulla politica, quelli che nel dopoguerra ne hanno misurato la forza e l’impatto nella società attraverso una fitta rete di cooperative e welfare state che ha garantito benessere senza eguali nel Paese, quelli, insomma, che nella politica hanno creduto perché ne hanno saputo sfruttare al meglio le potenzialità per produrre progresso e benessere hanno deciso che non ne valeva più la pena. Hanno letto «la Repubblica» tutti i giorni, sono andati a sentire i dibattiti alle feste dell’Unità e su La7, hanno osservato con curiosità l’affacciarsi del Movimento 5 Stelle, hanno sopportato la noia crescente di sette talk show settimanali, tutti con gli stessi ospiti, e poi sono giunti alla conclusione che la politica, almeno questa politica che chiedeva loro voto e legittimazione, non serve più a niente.
Gli scienziati della politica si interrogano da sempre su cosa spinga uomini e donne a partecipare alla gestione della loro comunità o, quando questa ha una struttura troppo sofisticata, almeno alla scelta di chi dovrà amministrarla. Secondo la definizione che ne dà Gianfranco Pasquino nel suo Partiti, istituzioni, democrazie, la partecipazione politica è l’insieme delle «attività dei cittadini privati più o meno direttamente mirate a influenzare la selezione del personale governativo e/o le azioni che effettuano». Mettere una croce con la matita su una scheda, distribuire volantini, firmare una petizione, scendere in strada per manifestare, iscriversi a un partito, mandare una lettera a un giornale, commentare i fatti del giorno su Facebook. Chi o cosa ce lo fa fare? Applicando lo schema della «scelta razionale» proposto da Dario Tuorto in La partecipazione al voto, si tratta soltanto di una lucida analisi costi-benefici: l’elettore valuta quali vantaggi può ottenere dalla sua partecipazione, se gli argomenti in discussione sono di suo interesse (andrà più volentieri a una manifestazione contro l’inceneritore che gli vogliono costruire sotto casa, piuttosto che a votare per un referendum sulla legge elettorale) e se il governo in carica merita uno sforzo per sostenerlo o per abbatterlo. Quanto cambia per me se vince il candidato a o il candidato b? Se ho una casa di proprietà andrò a votare chi promette di tassarla meno, se non ho alcun capitale disponibile sarò più incline a sostenere chi propone un’imposta patrimoniale. E se voto in un collegio in cui l’esito è già scontato, sprecare un’ora del pomeriggio per appoggiare un candidato sicuramente sconfitto può sembrare una perdita di tempo. A meno che questo non abbia promesso comunque qualcosa ai suoi sostenitori e, anche dall’opposizione, non sia in grado di remunerare i suoi elettori.
Gli studi sull’utilità marginale del voto (cioè il potere del singolo elettore di decidere l’elezione) negli Stati Uniti dimostrano che ha senso votare soltanto per gli elettori degli swing States, quelli in bilico, dove anche un solo consenso in più o in meno può fare la differenza (come ha capito a sue spese Al Gore in California, contro George W. Bush, nel 2000). Per gli altri sarebbe più razionale rimanere a casa: il loro voto si limita a consolidare la vittoria o la sconfitta di un candidato già sicuramente vincente – o sconfitto –, visto che quasi mai uno Stato Democratico si converte e diventa Repubblicano e viceversa.
Per quanto mi riguarda, ho votato tutta la vita in Emilia-Romagna, a Modena, dove l’esito delle elezioni non è mai stato in bilico: la vittoria del centrosinistra è sempre stata scontata. Eppure sono sempre andato a segnare con la matita il simbolo di un partito, anche quando da anni abitavo ormai lontano dalla città. Non è razionale, ovviamente, ma i politologi hanno capito che nessuno è così freddamente calcolatore come nei modelli che presuppongono scelte motivate soltanto dall’utilità personale. E quindi hanno provato a introdurre altre variabili meno meccaniche per individuare i motori della partecipazione: il senso del dovere, il capitale civico presente nella comunità, l’efficacia percepita della propria azione, i benefici che si possono ottenere anche per gli altri e non soltanto per se stessi. Il minimo comune denominatore su cui sembrano tutti d’accordo è che nessuno vota volentieri in un’elezione che considera completamente inutile. E per decenni il canale per contare qualcosa in politica, per incidere sulla collettività di cui facciamo parte, è stato quello dei partiti. Quindi, per capire come mai ora gli elettori si siano convinti che la politica non serva più a niente, dobbiamo partire proprio dai partiti.

La fine dei Leviatani

Il 3 ottobre 2014, nel pieno di una delle mille faide interne al Pd e a poche settimane da quelle traumatiche elezioni in Emilia-Romagna di cui abbiamo detto, il quotidiano «la Repubblica» rivela quanto fragile è diventato un partito che dopo il 40,8 per cento ottenuto alle elezioni europee di pochi mesi prima sembrava inarrestabile: in tutta Italia gli iscritti sono meno di 100.000, soltanto nel 2013 ce n’erano ufficialmente 539.354. Può essere che fosse gonfiata la vecchia cifra, ma gli stessi sospetti di una certa generosità nel conto sono legittimi su quella aggiornata, tanto che...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. 1. I sintomi del declino
  5. 2. Il populismo inevitabile
  6. 3. Crescita, il grande fallimento
  7. 4. L’ultimo tentativo dei luddisti
  8. 5. Lo Stato minimo (ma utile)
  9. 6. La Repubblica di Facebook
  10. Indice