Il presente come storia
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Il presente come storia

Perché il passato ci chiarisce le idee

  1. 272 pagine
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Il presente come storia

Perché il passato ci chiarisce le idee

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Qual è il vero motore della storia? L'oligarchia al potere o la massa dei molti? E quali criteri sono validi per interpretare gli eventi? Sono queste alcune delle domande alla base della ricerca storiografica secondo Luciano Canfora, che in questo libro si muove tra documenti e falsificazioni per comprendere quanto la narrazione storica rifletta, o mistifichi, la realtà. Passando in rassegna momenti e temi cruciali del passato antico e recente - dall'Atene di Pericle alle conquiste di Roma, dal rapporto tra Chiesa e impero nel Medioevo all'affermazione delle dittature nel Novecento - l'autore spiega perché scrivere storia significhi lottare contro gli effetti del progressivo allontanamento dai fatti. Attento nel cogliere ciò che le fonti esagerano o non dicono, Canfora interroga l'antichità sulla costante tensione tra gli eventi e la loro rappresentazione e ci mostra come partire dal passato per affrontare le questioni vitali per la società contemporanea: la giustizia, la cittadinanza, la libertà, la verità.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2015
ISBN
9788858681633
Argomento
History
Categoria
World History

La democrazia e le sue varianti

Pericle e Tucidide

La lotta politica nella Grecia arcaica consisteva nello scontro tra grandi famiglie appoggiate dalle rispettive clientele. In concreto si poteva avere, volta a volta, la prevalenza, più o meno illuminata, di un gruppo o di una singola forte personalità: l’esito poteva essere una «tirannide» o un instabile governo oligarchico. Né mancarono tiranni in grado di contare, per un notevole lasso di tempo, su di una larga base popolare.
Si attribuisce a Clistene ateniese, esponente della nobile e potente famiglia degli Alcmeonidi, il merito di aver spezzato questa circolarità notabili-clientele nel 507 a.C., tradizionalmente considerato l’anno di nascita della democrazia ateniese. Redistribuendo la popolazione in tribù territoriali abilmente rimescolate, Clistene diede effettivamente un duro colpo alla vecchia prassi. Naturalmente essa non si estinse affatto ma si adattò al nuovo meccanismo politico: divenne più complicato ottenere il consenso, ma tendenzialmente furono sempre gli esponenti delle grandi famiglie a primeggiare. La sostanza continuò, ma il modello politico divenne assai più dinamico.
Per sancire sia il rimescolamento delle clientele sia l’uguaglianza (per lo meno teorica) dei cittadini – il cui primo assertore era stato Solone quando aveva abrogato la schiavitù per debiti –, Clistene creò anche un Consiglio (Bulè) di 500 membri, 50 per ciascuna delle 10 tribù territoriali, scelti con il sorteggio, cioè con il sistema più indiscriminatamente egualitario che si possa immaginare. Ovviamente neanche questo bastava per fondare una democrazia.
In verità la parola «democrazia» non era usuale per indicare il nuovo stato di cose: anzi era più spesso adoperata, come parola sgradevole, dagli assertori, o nostalgici, della vecchia prassi gentilizia, i quali vedevano nel paventato predominio del popolo, dei poveri come allora schiettamente si diceva, un regime di violenza: appunto una demo-kratìa, stante il valore violento della parola kratos (= forza bruta). Ma se la parola stentava ad affermarsi ed esprimeva più la paura di alcuni che una realtà, anche la cosa stentava ad affermarsi. C’era un arcaico consesso (o tribunale), l’Areopago, formato per cooptazione dagli ex arconti che via via uscivano di carica, e che continuava ad avere grande peso. Era costituito da membri delle classi più alte – i soli che all’epoca potessero essere arconti – e non usciva certo spontaneamente di scena per fare largo alla Bulè clistenica. Anzi, dopo le guerre persiane accrebbe il suo potere.
L’altro impedimento all’effettivo realizzarsi della democrazia era la disuguaglianza sociale. Dunque la marcia verso la democrazia dovette attuarsi attraverso due importanti trasformazioni: abbattere il potere dei «senatori a vita» come potremmo definire in linguaggio moderno l’Areopago (un equivalente del Senato romano, anch’esso vitalizio e fatto per cooptazione); rendere davvero possibile ai poveri la partecipazione attiva alla politica; tanto più che, divenuta Atene una potenza navale, essi, come marinai, erano un gruppo sociale decisivo. La prima di queste trasformazioni fu traumatica, e fu dovuta a un politico di cui sappiamo poco, se non che era «incorruttibile»: Efialte (463-462 a.C.). Al suo fianco operava, appena trentenne, Pericle, che invece, sul piano etico, era ben altrimenti disinvolto: Efialte fu assassinato, forse da avversari. I maliziosi dietrologi fecero circolare l’ipotesi che addirittura Pericle avesse tramato per liquidarlo. Certo colpisce come nella tradizione politica ateniese la figura di Efialte sia stata nettamente offuscata in favore della centralità di Pericle, in ragione ovviamente del suo trentennale governo.
La seconda trasformazione fu più lenta, contrastata e graduale. Sappiamo tutti che la vera sfida, per un ordinamento democratico, consiste nel saper «rimuovere gli ostacoli» – come si esprime la Costituzione italiana all’articolo 3 – che si oppongono all’effettiva uguaglianza dei cittadini. I democratici chiedono che quegli ostacoli siano rimossi, i liberali dicono che basta, come nelle gare di cavalli, garantire (ma non s’è mai capito come) equi «punti di partenza» un po’ a tutti. La questione è tutta lì. Ad Atene fu man mano instaurata e diffusa la pratica dello stipendio statale (uno stipendio minimo!) per le funzioni pubbliche: il misthòs appunto. Cominciò con i soldati (da 3 a 6 oboli al giorno), seguitò con i giudici, che erano cittadini scelti a sorte. Secondo l’aristotelica Costituzione degli Ateniesi fu proprio Pericle a introdurre lo stipendio dei giudici. Ragion per cui lo si è anche chiamato enfaticamente L’inventore della democrazia, come suona il titolo voluto probabilmente dagli editori (Payot in Francia, Laterza in Italia) per il serio e armonico libro di Claude Mossé. Anni dopo si fece ricorso a una ulteriore, indiscriminata, sovvenzione per i cittadini poveri (la diobelìa, due oboli al giorno!) forse per iniziativa di un leader che davvero, e per la prima volta, era di estrazione popolana: Cleofonte.
È paradossale che si parli di Pericle come «inventore della democrazia» visto che il più grande storico ateniese, e suo ammiratore incondizionato, Tucidide, scrive, a riprova di quale grande politico Pericle fosse stato, che con lui ad Atene c’era «solo a parole la democrazia, ma di fatto il governo di un capo», di un princeps. Questo giudizio è variamente riecheggiato dagli antichi. I comici addirittura imploravano Pericle, dalla scena, di non voler diventare tiranno. Plutarco dice che, con Pericle, il regime politico divenne «aristocratico». Probabilmente intende dire che, con la sua salda e ininterrotta presenza al governo, l’alcmeonide (anche lui!) Pericle non faceva che inverare il sostanziale predominio delle grandi famiglie pur all’interno della cornice democratica. E dopo di lui affioreranno: Alcibiade, suo nipote, anche lui alcmeonide, Nicia, l’uomo più ricco di Atene, e Cleone che, al di là degli sberleffi di Aristofane, apparteneva alla classe dei cavalieri.
Insomma, la democrazia si era venuta affermando, si erano trovati mezzi per «rimuovere gli ostacoli» (sia pure in misura modesta!), ma il governo sostanziale delle grandi famiglie e dei gruppi sociali forti continuò. Se si considera che dai Romani quella ateniese era giudicata una pericolosa e scatenata democrazia radicale travalicante spesso in demagogia, è facile intendere quanto sia debole la veduta ogni tanto ritornante (da ultimo nel mondo anglosassone) secondo cui quella vigente nella Repubblica romana sarebbe stata la vera democrazia. Era invece, come ben sapeva Polibio, un regime «misto», cioè nella sostanza oligarchico.
Quello che si scopre studiando Atene è che anche lì, di fatto, l’equilibrio del sistema si spostava di norma in direzione del predominio dei gruppi più forti, sempre disinvoltamente capaci di catturare il consenso. Oltre tutto in una società schiavistica i poveri, all’interno dei liberi, non erano necessariamente la maggioranza numerica. Ben lo sa Aristotele quando osserva che, a rigore, il governo di una minoranza di poveri dovrebbe comunque definirsi democrazia. Ma non è forse questa l’esperienza nella quale viviamo noi abitanti della parte privilegiata del pianeta?

Le dure verità del «mite» Sofocle

Può sembrare semplificatoria l’osservazione, spesso ripetuta, secondo cui «quando parliamo dei Greci, allo stesso tempo parliamo dell’oggi». Non è retorica. Poche epoche del passato si presentano a noi con una tale maturità di pensiero (filosofico, etico, giuridico, politico), con una tale avanzatissima elaborazione stilistica e tecnica dell’oratoria pubblica, per non parlare di altri aspetti sconcertanti quali la perfezione dell’esametro omerico. Al centro dell’attività artistica destinata alle masse, praticata ad Atene con il sostegno dello Stato, c’è il teatro. Ed è lì che il pubblico vedeva – attraverso il filtro delle trame relative a figure più o meno mitiche – scontrarsi idee, concezioni della vita, della morte, del destino dell’uomo, del vivere sociale, della politica. Davide Susanetti ha pubblicato un volume sui sette drammi superstiti della vastissima produzione drammaturgica di Sofocle, il «beniamino» (si usa dire) del pubblico ateniese (e per «pubblico», non dimentichiamolo, bisogna intendere migliaia e migliaia di persone, spesso più di quelle dell’assemblea popolare). Il titolo può sembrare troppo duro ma è, in fondo, appropriato: Catastrofi politiche (Carocci, 2011). Qui «politicità» è intesa nel senso più ampio, come è chiaro dal sottotitolo (Sofocle e la tragedia del vivere insieme). E del resto in senso ampio va intesa la stessa parola greca politeia, che, soprattutto nel V secolo a.C., indicava non solo il «sistema politico», ma anche lo stile della conduzione politica della città: non soltanto, per dirla coi giuristi, la costituzione scritta e gli ordinamenti, ma anche la «costituzione materiale».
Del mutamento che convive con la tendenziale fissità degli ordinamenti si occupa un altro libro dovuto a un nostro notevole storico, Giorgio Camassa: Scrittura e mutamento delle leggi nel mondo antico (L’Erma di Bretschneider, 2011). Da storico formatosi – tra l’altro – alla scuola di Giovanni Pugliese Carratelli, Camassa affronta sia il mondo greco e romano, sia quello «orientale», dalla Mesopotamia all’Israele biblico. Ma certamente il cuore dell’autore batte soprattutto in Grecia. Ed è importante l’attenzione che egli ha dedicato, nel finale, alla riflessione teorica antica sul «mutamento delle leggi», che è quanto dire il modo in cui la costituzione materiale, consolidandosi, diviene col tempo, a sua volta, nuova costituzione formale o codificata. È quel processo descritto in modo geniale da Platone, nelle Leggi, là dove parla del «mutamento» come del «legame» (desmós) tra la costituzione esistente e quella che si viene formando, per l’appunto nel mutamento.
Il tema è peraltro strettamente legato alla distinzione, vivissima nella riflessione filosofico-giuridica greca, tra legge scritta e legge non scritta la cui violazione – dice Pericle nell’Epitafio – reca «vergogna universalmente riconosciuta». Una formula precorritrice, che storicamente ha condotto all’intuizione di un diritto «naturale»: fondamento etico profondo dell’agire morale, svincolato dalle singole confessioni o precettistiche religiose.
Questo è un tema, come ben si sa, particolarmente sofocleo, legato alla figura e alla «disobbedienza civile» di Antigone nell’omonima tragedia. Susanetti studia, nel suo volume, questa tragedia soprattutto dal punto di vista del potere (Rovine e miraggi della sovranità è il titolo di questo capitolo), e propone una lettura innovativa della vicenda: «Anche la norma posta da Creonte (il “tiranno”, l’antagonista di Antigone) è orale tanto quanto le leggi degli dèi. Il richiamo alle norme che vivono da sempre è semmai una mossa retorica di delegittimazione di un Creonte che si è appena insediato al governo».
Ma è forse sull’Aiace che l’autore porta il miglior contributo. Egli dedica attenzione soprattutto alla parte finale della tragedia, quella in cui si svolge un serrato scontro dialettico tra Teucro, fratello di Aiace, che pretende sepoltura per l’eroe suicida, e la coppia Agamennone-Menelao, che tale sepoltura intende impedire in ragione della colpa (il massacro delle greggi) di cui Aiace si è macchiato. Il paragrafo s’intitola Voti truccati e principio di maggioranza. Infatti al centro della serrata disputa che Sofocle mette in scena viene appunto affrontata la questione delle questioni: la fondatezza o meno del principio di maggioranza.
Aiace era stato soccombente: una «maggioranza» aveva decretato che le armi di Achille toccassero a Odisseo, non ad Aiace. Contro questo verdetto – nella sostanza iniquo ma nella forma ineccepibile se si assume il principio di maggioranza come risolutivo e irresistibile – Aiace è insorto. Ma la dea sua persecutrice, Atena, lo ha reso folle ed egli ha infierito nottetempo sugli armenti, non sugli Achei addormentati nelle loro tende. «Chi è stato sconfitto in base al criterio di maggioranza non ha diritto ad alcuna rivendicazione. Deve sottomettersi.» Questo pretendono due figure «negative» del dramma, gli Atridi. E la risoluzione del dramma viene dalla lungimirante intelligenza di Odisseo, che comunque favorisce la sepoltura del rivale suicida, meritandosi parole di dissenso da parte degli Atridi. Sofocle, che peraltro, da probulo, aveva agevolato la nascita dell’oligarchia nell’anno 411, ha posto sotto gli occhi del pubblico l’angoscioso problema in termini lucidi e dilemmatici.
La «maggioranza» non ha necessariamente ragione. Anche se costituisce (o dovrebbe costituire) uno strumento del convivere civile, il principio di maggioranza – come bene spiegò Edoardo Ruffini in un prezioso libretto ristampato da Adelphi negli anni Settanta, Il principio maggioritario – non ha alcun fondamento né logico né razionale.

Epitafio e controepitafio

La scena è a Eleusi: lì si sono raccolte, all’altare di Demetra, le madri degli Argivi caduti dinanzi a Tebe. È con loro il re di Argo, Adrasto: chiedono l’aiuto di Atene, e del re Teseo, per ottenere i corpi dei loro morti. Siamo all’inizio delle Supplici euripidee. Teseo esita dapprima, poi, convinto dalla madre Etra, accede alla richiesta di interferire direttamente nella controversia. La vicenda si concluderà con una battaglia (puramente fantastica dal punto di vista storico) tra Tebani e Ateniesi, nella quale questi ultimi conseguono la vittoria e ottengono la restituzione delle spoglie.
Ma, inopinatamente, lo sviluppo dell’azione contempla una sorta di «intermezzo»: uno scontro dialettico tra un araldo tebano, giunto ad Atene, e Teseo intorno alla migliore forma di governo. Teseo esalta i pregi della democrazia, l’araldo ne denuncia i difetti strutturali. L’arbitrarietà di questo intermezzo non può sfuggire, per giunta all’interno di un dramma che amplifica liberamente la saga tradizionale creando addirittura una guerra tebano-ateniese come presupposto dello storico riavvicinamento Argo-Atene.
La forza della politica dalla scena sta proprio nella sua duttilità e nella sua non solo apparente, ma effettiva, problematicità: è lì la sua efficacia; né potrebbe essere altrimenti in un teatro così direttamente connesso alla vita pubblica e così direttamente «sorvegliato» dai volenterosi magistrati preposti al funzionamento di quella istituzione. Ed è talmente duttile, eppure immanente nel fare teatro ad Atene, quella sua politicità che, a distanza di un tempo lunghissimo e quando ormai il contesto concreto storico-politico si è inevitabilmente appannato e sbiadito, gli interpreti si interrogano su diverse, talora opposte, letture di quei testi così intenzionalmente e fecondamente «aperti».
Il dato macroscopico è che comunque tutti avvertiamo, pur così lontani nel tempo, che, attraverso la mediazione della trama quasi sempre cavata dal mito, quei drammaturghi non fanno che parlare di politica: nel senso alto, dei valori e dei loro effettivi fondamenti, non soltanto della immediata quotidianità, che pure talvolta traspare. La saga su Teseo, e le Supplici in particolare, rendono, certo, possibile una fruizione immediatamente patriottica, ma anche una presa di coscienza dei problemi insoluti, e capitali, della politica. Il mito di Teseo è diventato, alla fine del V secolo a.C., in Atene, un mito politico: una figura necessaria alla retorica da epitaffio, in quanto primus inventor della democrazia, o, più cautamente, della patrios politeia, cioè del cosiddetto e controverso «ordinamento avito», caratteristico degli Ateniesi.
Ma il Teseo delle Supplici parla molto, e si scopre molto più di quanto il suo ruolo iconico comporti. E lasciamo qui da parte un altro aspetto che, pure, aiuterebbe a comprendere l’abilità di Euripide nel ricreare questo personaggio, che, per alcuni interpreti moderni influenzati dal clima del loro tempo, è volta a volta inteso come «Führer», come «re costituzionale», come leader popolare, quando non, addirittura, controfigura di Pericle, in una Atene dove Pericle comunque è scomparso da anni.
Egli sviluppa un primo intervento di teoria politica nella prima parte del dramma, quando ancora la sua posizione è sfavorevole alle richieste di aiuto di Adrasto: in quel momento Teseo si esprime con durezza contro i demagoghi e più in generale contro i politici egoisti («i giovanotti che godono a mietere gloria e perciò incrementano le guerre senza riguardo alla giustizia»). Quindi si impanca in una summa a carattere sistematico: nella città – spiega – ci sono tre classi sociali: i ricchi che «desiderano avere sempre di più»; i poveri che sono pericolosi perché indulgono all’invidia e non fanno altro che tentare di colpire la ricchezza dei possidenti, e sono preda dei demagoghi poneroi («capi malvagi»); i mediani («la fazione mediana»), unica fonte di possibile salvezza della città e del suo «ordine».
In questa tirata Teseo strapazza il demo avido e feroce persecutore della ricchezza e i capi politici che, al tempo stesso, lo assecondano e lo corrompono in un perverso rapporto di circolarità. Nella seconda parte del dramma invece, quando Teseo ha cambiato linea e ha deciso di intervenire per Argo e di contrastare Tebe (retta da Creonte, rigido negatore della sepoltura dei ribelli), la musica cambia. Si produce lo scontro, del tutto svincolato dallo sviluppo drammaturgico della pièce, e Teseo, provocato dalla domanda dell’araldo tebano («chi è qui il tiranno?» che vuol dire in sostanza «chi è che comanda qui?»), reagisce impartendogli una lezione sulla perfetta democrazia ateniese che ricalca ad verbum i passaggi più noti (e più inverosimili) dell’Epitafio pericleo. Qui il primo e principale scossone allo spettatore viene dal fatto che si metta in discussione la legittimità stessa del sistema democratico.
Nulla del genere sarebbe concepibile di fronte all’assemblea popolare. È abile far sollevare il problema da un personaggio che agli spettatori deve apparire odioso, l’araldo tebano – per l’aggressività e perché tebano –, ma il fatto principale che si produce sulla scena è che quegli argomenti pesanti e topici della critica radicale alla democrazia (l’incompetenza del demo e la pessima qualità del personale politico) «restano senza replica e senza confutazione». Alla critica radicale e penetrante dell’araldo tebano, Teseo oppone l’immagine della democrazia come regno della legge scritta. Ciò che Teseo dice è un agglomerato dei topoi di Otanes nel dibattito riferito da Erodoto (nulla è peggio del tiranno e descrizione convenzionale dei crimini «tirannici») e dell’idealizzazione periclea della prassi democratica (all’assemblea può parlare chiunque abbia qualcosa da dire, nei tribunali il ricco e il povero sono uguali davanti alla legge). Non deve sfuggire che, in un dramma in cui l’oggetto del contendere è la sepoltura di morti in guerra, Teseo mette insieme motivi da epitaffio e l’araldo li manda in pezzi. E sollevando, proprio in un contesto del genere, la questione della scarsa competenza del demo e dell’egoistica ribalderia del personale politico in democrazia, Euripide riesce a far dire davanti al grande pubblico, grazie al gioco scenico, quello che intellettuali in dissenso rispetto al sistema vigente riescono a dire, al più, nelle loro cerchie o conventicole, o eterìe.

Pericle di fronte alla democrazia

In Atene, l’estensione della cittadinanza attiva ai non possidenti ha determinato una importante dinamica ai vertici del sistema. I gruppi dirigenti – questo non va mai dimenticato – sono e restano esponenti delle classi alte, delle due più ricche classi di censo. Sia gli strateghi che, ovviamente, gli ipparchi (cioè i magistrati militari, coloro che detengono il vero potere politico nella città), nonché gli ellenotami (i quali amministrano il tesoro della lega e controllano le finanze), provengono da quelle classi. A sorte sono eletti i «buleuti», i componenti del Consiglio. A sorte, e dunque in modo da consentire a qualunque cittadino di entrare a far parte del consesso, e, secondo il turno, di occupare sia pure per breve tempo il ruolo equivalente alla «presidenza» della Repubblica.
Anche le liste annue di circa seimila cittadini da cui trarre i giudici che avrebbero costituito le varie corti erano composte di volontari, senza preclusioni di ceto. E tutti sanno...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Introduzione
  5. Scrivere la storia
  6. Schiavitù e tirannide
  7. La democrazia e le sue varianti
  8. La ferocia dei vincitori
  9. Comunismo, fascismo, utopia
  10. Intellettuali arruolati
  11. Ellenismo ieri e oggi
  12. È arduo sedersi sulle baionette
  13. Cesare
  14. L’impero universale di Dante
  15. Scontri di civiltà
  16. Non esiste la fine della storia
  17. Nota