La macchina della morte
eBook - ePub

La macchina della morte

Siria: oltre il terrorismo islamico

  1. 240 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

La macchina della morte

Siria: oltre il terrorismo islamico

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Nel 2011, con l'inizio delle proteste contro il regime siriano di Bashar al Assad, César – questo il nome in codice – e i suoi colleghi agenti militari ricevono l'ordine di fotografare i corpi delle persone morte nelle strutture di detenzione gestite dall'esercito. Sono i cadaveri degli oppositori al regime arrestati nel corso delle manifestazioni di protesta. César decide di copiare di nascosto molte delle fotografie e conservarle in modo sicuro, per aiutare i parenti delle vittime a conoscere la verità sulla sorte dei loro cari. Dopo due anni però i timori per la sua incolumità e quella dei suoi familiari lo hanno spinto a lasciare il Paese e cercare asilo in Europa. A Foreign Affairs, Assad ha dichiarato: "Chi ha scattato queste foto? Chi è quest'uomo? Nessuno lo conosce. Nulla di tutto ciò è stato provato". La testimonianza di César, arricchita da documenti e informazioni inedite, sta cambiando in queste ore il corso della storia.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a La macchina della morte di Garance Le Caisne in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a History e World History. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2016
ISBN
9788858683101
Argomento
History
Categoria
World History

1

Rivelare, testimoniare, accusare

Diplomatici, consiglieri, collaboratori: devono tutti lasciare la stanza. Un dossier ultrasensibile sta per essere reso noto a porte chiuse agli undici ministri degli Esteri presenti. Si tratta di un video di otto minuti, trasmesso sull’enorme schermo di un televisore. Subito una voce fuori campo avverte: «Questo filmato contiene scene scioccanti e mostra atti abominevoli commessi dal regime siriano. Sono soltanto alcuni esempi delle decine di migliaia di fotografie ufficiali che abbiamo ricevuto e la cui autenticità è stata avvalorata da prove giuridiche, documenti originali e testimonianze. Un gruppo di esperti in procedura penale ha garantito la validità delle prove e l’affidabilità delle fonti. Portiamo pertanto alla vostra attenzione il presente rapporto confidenziale».
Domenica 12 gennaio 2014, nella sala da pranzo in stile Secondo Impero del Quai d’Orsay, Laurent Fabius ha appena dato il benvenuto ai suoi omologhi: John Kerry, capo del dipartimento di Stato americano, e i capi dei servizi diplomatici di Germania, Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Italia, Giordania, Qatar, Regno Unito e Turchia.
Il core group degli Amici della Siria si è appena riunito per fornire il proprio sostegno a Ahmad al-Jarba, presidente della Coalizione nazionale siriana (Cns), il principale organo rappresentativo degli oppositori politici del regime. Di lì a dieci giorni, infatti, governo e opposizione dovrebbero ritrovarsi in Svizzera per discutere l’eventuale creazione di un governo di transizione. La Cns è spaccata in due: al suo interno c’è chi pensa che la partecipazione a quella conferenza internazionale di pace – che si aprirà a Montreux e proseguirà a Ginevra, sotto l’egida dell’Onu – non sia affatto una buona idea. Gli undici Amici della Siria, invece, sono convinti che la Cns debba essere presente, se si vuole evitare che Bashar al-Assad scarichi la responsabilità del fallimento dei negoziati sulle spalle dell’opposizione.
Il ministro francese che presiede la seduta si accomoda al centro, di fronte a Ahmad al-Jarba. A fine mattinata, a sorpresa, dà la parola a Khaled al-Attiyah. Qualche giorno prima, il ministro degli Esteri del Qatar gli aveva rivelato di aver ricevuto da parte di un gruppo dell’opposizione un documento confidenziale che desiderava mostrare ai colleghi. I lavori vengono sospesi. Una trentina di persone vengono invitate a uscire dalla stanza. Attorno al tavolo rimangono soltanto gli undici ministri.
Si spengono le luci. Sulle note composte da Itzhak Perlman per il film Schindler’s List sfilano fotografie di corpi nudi, con i vestiti a brandelli o solo in slip, di cadaveri scheletrici, talora mutilati, dilaniati, ustionati. A qualcuno sono stati cavati gli occhi. Altri hanno il volto sfigurato da qualche sostanza chimica. Altri ancora, infine, sono stati chiusi dentro sacchi di plastica e impilati sotto il portico di un hangar. L’obiettivo si attarda meticolosamente sul numero di matricola abbinato alle spoglie di ciascuno, scritto sulla pelle con un pennarello indelebile o su un adesivo incollato in fronte. Quel macabro inventario fotografico è chiaramente opera di un professionista. Tra gli stucchi dorati del Quai d’Orsay cala un silenzio sbigottito.
La voce prosegue: «Raramente, nella storia, atti di privazione sistematica del cibo e di brutali torture commessi all’interno dei centri di detenzione del regime siriano sono stati così documentati. Dalla morte, subito dopo l’arresto, alla liquidazione fisica dei detenuti all’interno delle prigioni o degli ospedali militari, il regime ha certificato e archiviato il loro percorso servendosi di una serie di fotografie scattate dal dipartimento anticrimine della polizia militare… Secondo i referti delle autopsie sono morti per arresto cardiaco, mentre i corpi presentano chiari segni di tortura e denutrizione». Il filmato si chiude con una domanda: «Questa tragedia è tuttora in corso. Siamo di fronte a un nuovo olocausto?».
Ammutoliti, i ministri lasciano la stanza con un’espressione grave e turbata stampata in volto. John Kerry è pallido come un cencio. A pranzo toccano a malapena il cibo. Laurent Fabius confiderà ai propri collaboratori: «È spaventoso, abominevole. Ci vorrà molto lavoro, ma va fatto ogni sforzo per scoprire la verità riguardo a documenti così importanti».
«Quelle immagini andavano a toccare un tasto dolente, portando a galla le derive del regime di Bashar al-Assad che la Francia denuncia da anni» dichiarerà in seguito una persona vicina al ministro francesce. «Immagini che non si vedevano dal genocidio degli ebrei e dai crimini khmer. L’accuratezza con cui il regime siriano documenta e cataloga i suoi orrori ci riporta indietro di settant’anni.»
Alla conferenza stampa di fine giornata, Laurent Fabius ricorderà pubblicamente il sostegno alla conferenza di pace Ginevra 2 per arrivare a «un’effettiva transizione politica che metta fine all’attuale regime dispotico… e rispetti al tempo stesso la sovranità del popolo siriano». Poi, improvvisamente cupo, il ministro francese sottolineerà che «il governo condanna con la massima fermezza le atrocità perpetrate dal regime siriano contro il proprio popolo, in particolare quelle di cui si è macchiato di recente. È nostra convinzione che, contrariamente a quanto si sostiene in molti ambienti, ci sia un legame tra il terrorismo e il regime di Bashar al-Assad. È questo regime, infatti, a nutrire e alimentare il terrore. Se dunque vogliamo sconfiggere il terrorismo una volta per tutte, va fatto ogni sforzo per porre fine al regime di Bashar al-Assad».
A rischio della sua stessa vita
All’indomani del vertice diplomatico, a cinquemila chilometri di distanza si tiene un’altra riunione, questa volta della massima segretezza. Siamo a Doha, nel Qatar. Sin dall’inizio della Rivoluzione, questo piccolo Stato del Golfo Persico sostiene e finanzia i ribelli siriani, con una spiccata preferenza per i gruppi di tendenza islamista. Non appena il ministro degli Esteri ha appreso dell’esistenza delle foto, e ne ha viste una ventina sparse sulla sua scrivania, non ha esitato a inviare aiuti alla Corrente nazionale siriana. Di tendenza islamista moderata, aperto politicamente e socialmente conservatore, questo gruppo ha preso sotto la propria ala l’uomo che ha fatto uscire dalla Siria quelle decine di migliaia di scatti terribili.
Consapevole che la sua feroce opposizione al regime di Bashar al-Assad rischia di minare la credibilità del dossier, il governo del Qatar affida allo studio legale londinese Carter-Ruck l’incarico di effettuare una perizia sulle fotografie e verificare l’attendibilità della fonte. Lo studio legale si avvarrà di tre giuristi internazionali e di tre studiosi di antropologia medica, i quali, dopo avere analizzato scientificamente gli scatti e decifrato i numeri scritti sopra i cadaveri, stenderanno un rapporto ufficiale. Queste informazioni giocheranno un ruolo fondamentale quando arriverà il momento di divulgare pubblicamente il dossier.
Il 13 gennaio 2014, dunque, nella sala riservata di un hotel di lusso a Doha, due di quei tre giuristi siedono a un tavolo davanti a due schede di memoria. Si tratta dell’americano David Crane e dell’inglese Desmond de Silva. I due si conoscono bene: si sono infatti succeduti alla testa del Tribunale speciale per la Sierra Leone che ha giudicato e condannato il presidente liberiano Charles Taylor per crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
I due ex procuratori sono venuti in Qatar per interrogare la fonte misteriosa. L’uomo è un disertore dell’esercito siriano. È arrivato a Doha il giorno prima. Seduto di fronte a David Crane e Desmond de Silva e affiancato da un interprete, sopporta di buon grado quello che gli pare un interrogatorio. Lo sguardo colmo di apprensione, sembra a disagio nel suo giubbotto leggero. A volte occorre ripetergli le domande che non capisce. Le sue risposte concise, il suo vocabolario semplice e preciso rivelano un uomo riservato, a malapena cosciente dell’impresa eroica che ha compiuto. Una modestia e una compostezza che non perderà mai.
«Ha divulgato le fotografie di propria spontanea volontà?» chiede Desmond de Silva.
«Sì. È un servizio che rendo al mio Paese. Alle famiglie dei detenuti del popolo siriano» risponde l’uomo.
[…]
«Ho una domanda semplice. Perché l’ha fatto?» chiede a sua volta David Crane.
«Per i siriani, per la gente. Affinché gli assassini paghino per i loro crimini e siano processati» afferma l’uomo.
«Dunque ha fatto tutto questo per avere giustizia, perché alla fine sia fatta giustizia?»
«Sì, perché sia fatta giustizia.»
«Perché i responsabili siano costretti a rendere conto del loro operato?»
«Sì, i responsabili siriani a capo dei servizi militari del regime.»
[…]
«Ha fatto qualcosa di molto pericoloso copiando queste immagini?» continua Desmond de Silva.
«Di molto pericoloso, sì.»
«Se le autorità vi avessero trovato addosso quelle fotografie, avreste avuto dei grossi problemi, giusto?»
«Già. Io, la mia famiglia e tutte le persone in qualche modo riconducibili a me.»
«Adesso lei è qui, ha abbandonato la Siria. Come e perché ha lasciato il suo Paese?»
«L’ho lasciato perché temevo per me e per la mia famiglia. Se i servizi di sicurezza avessero scoperto che avevo copiato le immagini, la nostra punizione sarebbe stata la morte.»
«E così è stato lei a decidere di partire. Chi l’ha aiutata a uscire dal Paese?»
«Ho attraversato la frontiera illegalmente.»
«Ha ottenuto denaro in cambio?» indaga Desmond de Silva.
«No.»
«Sta dicendo che non ha ricavato alcun vantaggio?» insiste David Crane.
«Sì.»
«Ha fatto tutto questo per ragioni di coscienza?»
«Inshallah. Come faccio a mettermi al sicuro? Voi lo sapete?» si preoccupa l’uomo. Il tono pacato non riesce a nascondere l’angoscia.
«Qui lei è al sicuro» gli garantisce Desmond de Silva. «Nel nostro rapporto non sveleremo il suo vero nome e non pubblicheremo la sua foto. D’ora in poi lei avrà un nome in codice: si chiamerà César.»

2

Professione reporter di cadaveri

César
Mi chiamo César. Lavoravo per il regime siriano. Facevo il fotografo per la polizia militare di Damasco. Vi racconterò in cosa consisteva il mio lavoro prima della Rivoluzione e nei primi due anni della Rivoluzione. Ci sono informazioni che potrebbero permettere al regime siriano di identificarmi e che quindi non divulgherò. Oggi sono rifugiato in Europa: ho paura che il governo mi ritrovi e mi elimini, o che faccia del male alla mia famiglia.
Prima che scoppiasse la Rivoluzione, avevo il compito di fotografare le scene di crimini o incidenti in cui rimanevano coinvolti dei militari. Suicidi, annegamenti, un incidente stradale o una casa che prende fuoco. Io e gli altri reporter della squadra dovevamo recarci sul posto e fotografare i luoghi e le vittime. Una volta lì, erano il giudice o l’inquirente a indicarci chi o cosa fotografare. Il nostro lavoro era complementare al loro. Se era stato commesso un crimine dentro un ufficio, per esempio un omicidio con arma da fuoco, scattavamo una serie di fotografie nel luogo in cui era stato ritrovato il corpo, dopodiché andavamo all’obitorio e facevamo lo stesso con il cadavere, per riprendere il foro di entrata e quello di uscita del proiettile. Ci capitava anche di immortalare le prove, come per esempio una pistola o un coltello. Se si trattava di un incidente automobilistico, facevamo foto alla macchina e ai dintorni. Quindi tornavamo in ufficio, dove veniva steso un verbale cui erano allegate i nostri scatti. Infine il rapporto veniva inoltrato alla giustizia militare, e a quel punto si avviava il procedimento giudiziario.
All’epoca, il nostro era un reparto piuttosto ambito tra le reclute e i soldati semplici perché non c’era mai troppo lavoro. In genere, un caso ogni due o tre giorni. E poi non si è obbligati a indossare l’uniforme: si può benissimo scegliere di lavorare in abiti civili.
Gli ufficiali invece di certo non sgomitavano per ottenere quel posto! Ci sono incarichi più prestigiosi che dirigere una squadra di fotografi e archivisti. In Siria la polizia militare non ha molta autorità, niente a che vedere con i servizi segreti. Per giunta non avevamo contatti con i civili, perciò era impossibile mettersi in tasca qualche extra con le bustarelle, come succede nelle dogane e nei ministeri. Non avevamo voce in capitolo neppure in materia di esercito e di sicurezza interna.
Dato che il nostro reparto contava poco o niente, nella gerarchia nessuno badava davvero al nostro lavoro. Eravamo una goccia nel mare. La polizia militare conta decine e decine di dipartimenti, sezioni, battaglioni. Solo a Damasco ci saranno come minimo una trentina di reparti: fotografi, autisti, meccanici… Il reparto delle operazioni, quello dello sport, il corpo che si occupa di trasferire i prigionieri da una sezione all’altra dell’intelligence militare. Ma i più importanti, naturalmente, sono il reparto investigativo e quello delle prigioni.
Un giorno sono arrivato in ufficio e un collega mi ha detto che dovevamo fotografare corpi di civili. Era appena stato nella provincia di Deraa1 a fotografare i cadaveri dei manifestanti. Era il marzo o l’aprile 2011, la Rivoluzione era cominciata da poche settimane. Mi raccontò in lacrime: «I soldati ingiuriavano i corpi, li prendevano a calci con gli stivali di cuoio urlando: “Figli di puttana!”».
Non voleva tornarci, aveva paura. Quando è arrivato il mio turno, ho visto tutto con i miei occhi. Gli ufficiali dicevano che erano dei «terroristi». Invece no, erano semplici cittadini che manifestavano. I corpi erano ammassati nell’obitorio dell’ospedale militare di Tishrin, non lontano dal quartier generale della polizia militare.
All’inizio, sopra ogni corpo era indicato il nome. Ma dopo un po’, forse in capo a qualche settimana o un mese, i corpi non avevano più nome. Soltanto numeri. All’obitorio dell’ospedale di Tishrin, un soldato li tirava fuori dalle celle frigorifere, li adagiava sul pavimento di piastrelle perché potessimo fotografarli e poi li rimetteva a posto.
Ogni volta che ci chiamavano per un servizio, trovavamo il medico legale già sul posto. Come noi, i medici legali, pur essendo dei militari a tutti gli effetti, non erano tenuti a indossare l’uniforme. Nei primi mesi si trattava di ufficiali subalterni. Con il passare del tempo sono stati rimpiazzati dagli alti gradi dell’esercito.
Una volta all’ospedale, ai corpi venivano attribuiti due numeri identificativi. Erano scritti su un pezzo di nastro adesivo, oppure con un pennarello direttamente sulla fronte o sul petto (il nastro era di cattiva qualità e spesso finiva per staccarsi). Il primo numero identificava il detenuto, il secondo la sezione dei servizi segreti dove era stato incarcerato. Il medico legale, che arrivava sempre prima di noi la mattina, ne assegnava un terzo per il suo verbale. Questo numero era fondamentale per i nostri archivi. Gli altri due potevano essere scritti male, illeggibili o semplicemente sbagliati, perché a volte si commettevano errori.
Il medico legale scriveva il numero su un cartoncino. Dopodiché lui stesso o un agente dei servizi di sicurezza lo posava accanto al cadavere o lo teneva in mano mentre noi scattavamo la foto. Le mani che vedete nell’inquadratura appartengono a loro. A volte a lato del cadavere si intravedono i piedi del medico legale o della guardia.
I medici legali erano nostri superiori. Ci era vietato aprir bocca, figurarsi fare domande. Dovevamo eseguire gli ordini e basta. Per fare un esempio, potevano dirci: «Fotografami quei corpi, dall’1 al 30, e poi togliti di torno». Per far sì che nei dossier il cadavere venisse identificato rapidamente, dovevamo scattare diverse foto: una al viso, una alla figura intera, una al profilo, una al busto e una alle gambe.
I corpi erano raggruppati per bracci carcerari: c’era la zona del braccio 215 dell’intelligence militare, per esempio, oppure quella del braccio dei servizi segreti dell’aeronautica. Un accorgimento che facilitava il lavoro dei fotografi e la successiva catalogazione degli scatti.
Fino a quel momento non avevo mai visto niente del genere. Prima della Rivoluzione, i membri del regime torturavano per estorcere informazioni; oggi torturano per uccidere. Ho visto segni di ustioni praticate con una candela. Una volta ho riconosciuto il marchio circolare di un fornelletto – di quelli che si usano per scaldare il tè – che aveva bruciato il volto e i capelli di un uomo. C’erano cadaveri con il corpo squarciato, le orbite vuote, i denti rotti, la pelle martoriata dai segni di quegli elettrodi che si collegano al motore delle auto. C’erano ferite piene di pus, come se non fossero state medicate e a l...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Prologo
  6. Introduzione
  7. 1. Rivelare, testimoniare, accusare
  8. 2. Professione reporter di cadaveri
  9. 3. E l’orrore diventa routine
  10. 4. Gli archivi della morte
  11. 5. Comunità e religioni
  12. 6. Tra due fuochi
  13. 7. Dalla parte delle famiglie degli scomparsi
  14. 8. Uscire vivo dal Paese, un dovere
  15. 9. L’inefficacia della diplomazia dei piccoli passi
  16. 10. Testimoniare a Washington
  17. Ringraziamenti
  18. I testimoni
  19. Note
  20. Bibliografia selezionata
  21. Appendice