Lo spazio del tempo
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Lo spazio del tempo

Jeanette Winterson

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  1. 320 pagine
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Lo spazio del tempo

Jeanette Winterson

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Informazioni sul libro

A quattrocento anni dalla morte di William Shakespeare una grande impresa letteraria: celebri autori contemporanei riscrivono le maggiori opere del grande drammaturgo. Un progetto internazionale di cui Rizzoli è in esclusiva l'editore italiano. Luogo dell'azione: Nuova Boemia, sud degli Stati Uniti. In una notte di pioggia battente e superluna, un pianista nero di nome Shep è testimone dell'assassinio di un anziano messicano; pochi minuti dopo, abbandonata nella ruota per bambini di un ospedale, trova una neonata bianca e, accanto a lei, una ventiquattrore. L'uomo solleva la bambina, "leggera come una stella", e decide di tenerla con sé. Luogo dell'azione: oltreoceano, Londra. Leo Kaiser è un disinvolto uomo d'affari che con i soldi ci sa fare, molto meno con i sentimenti. Se, come crede, la sua amata moglie lo tradisce con il suo migliore amico, cosa diavolo dovrebbe farsene della bambina che lei ha appena dato alla luce? Diciassette anni dopo, questa bambina di nome Perdita chiederà conto del proprio passato, "ci vuole così poco tempo per cambiare una vita e ci vuole tutta una vita per comprendere il cambiamento". La cover version di Jeanette Winterson del Racconto d'inverno di William Shakespeare è una brillante prova d'autore. Vibra dell'eco dell'opera originale, abilmente sospesa fra tragedia e commedia, ma è una storia tutta contemporanea di amicizia, paranoia e redenzione, che si muove fra parcheggi sotterranei, videogiochi di ultima generazione, musei dell'automobile, angeli caduti. Sulla scena si fronteggiano, nell'ampio spazio del tempo, la gelosia devastante di un marito e l'amore duraturo di una figlia. E come già nell'originale shakespeariano è proprio il tempo il protagonista del romanzo, la sua natura ellittica ed elastica; il tempo capace, a sipario ancora alzato, di ridare un posto a qualcosa che si credeva perduto.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
ISBN
9788858682760

UNO

Stella dell’acqua







Stanotte ho visto una cosa stranissima.
Stavo tornando a casa, in una notte calda e opprimente, come ce ne sono qui, in questo periodo dell’anno, quando la pelle è lustra di sudore e la camicia non si asciuga mai. Avevo suonato il piano nel bar dove lavoro, e nessuno aveva voglia di andarsene, così avevo fatto più tardi di quanto non volessi. Mio figlio aveva detto che sarebbe venuto a prendermi in macchina, ma non si era fatto vedere.
Stavo tornando a casa, verso le due di notte, con una bottiglia di birra fredda che mi si riscaldava in mano. Non bisognerebbe bere per strada, lo so, ma che diavolo!, dopo aver lavorato per nove ore di fila servendo al bar quand’era tranquillo e suonando il piano quand’era affollato… La gente beve di più se c’è la musica dal vivo, è un fatto indiscutibile.
Stavo tornando a casa quando il cielo si è squarciato e la pioggia è venuta giù come ghiaccio, in realtà era ghiaccio: chicchi di grandine grossi come palline da golf e duri come palle di elastico. La strada aveva trattenuto tutto il calore della giornata, della settimana, del mese, della stagione. Quando la grandine si schiantava al suolo, era come se dei cubetti di ghiaccio venissero gettati in una friggitrice. Era come se la grandine scaturisse dalla strada e non dal cielo. Correvo, crivellato da proiettili sparati dal basso, cercando riparo ora in un androne, ora nell’altro, senza potermi vedere i piedi in quel vapore sibilante. Salendo sui gradini della chiesa, sono riuscito a innalzarmi per un paio di minuti al di sopra della schiuma ribollente. Ero bagnato fradicio. Le banconote che avevo in tasca si erano appiccicate fra loro e i capelli mi si erano incollati alla testa. Mi sono asciugato gli occhi dalla pioggia. Dalle lacrime di pioggia. Mia moglie è morta da un anno. Non aveva senso cercare riparo. Meglio andare a casa.
Così ho preso la scorciatoia. Non mi va di prendere la scorciatoia per via della Culla per la Vita.
L’ospedale l’ha installata un anno fa. Giorno dopo giorno, quando andavo a trovare mia moglie, guardavo i muratori. Li ho visti versare il calcestruzzo per formare la nicchia, fissare la scatola d’acciaio al suo interno, applicare la finestra sigillata, allacciare l’impianto di riscaldamento, la luce, l’allarme. Uno dei muratori era restio a fare quel lavoro, pensava fosse sbagliato; immorale, credo. Un segno dei tempi. Ma i tempi hanno talmente tanti segni che se li leggessimo tutti moriremmo di crepacuore.
La culla è sicura e calda. Una volta che il neonato vi è stato deposto e il portello è stato chiuso, un campanello suona nell’ospedale e, dopo un breve intervallo, lungo quanto basta perché la madre scompaia dietro l’angolo – lì la strada fa un angolo – arriva un’infermiera.
L’ho visto succedere una volta. Ho rincorso la madre. L’ho chiamata. «Signora!» Si è girata. Mi ha guardato. È passato un secondo, uno di quei secondi che contengono un mondo intero, e poi la lancetta dei secondi si è mossa e lei era scomparsa.
Sono tornato indietro. La culla era vuota. Qualche giorno dopo è morta mia moglie. Perciò non mi va di fare quella strada per andare a casa.
Le Culle per la Vita hanno una storia. Non c’è sempre una storia dentro la storia? Credi di vivere nel presente ma il passato è alle tue spalle, come un’ombra.
Ho fatto delle ricerche. In Europa, nel Medioevo, se mai c’è stato e chissà quando, c’erano già le Culle per la Vita. Le chiamavano Ruote degli Esposti, erano finestrelle rotonde in un convento o in un monastero, attraverso le quali si poteva far passare il bambino e sperare che Dio si occupasse di lui.
Oppure si poteva abbandonarlo in un bosco, avvolto nelle sue fasce, dove i cani o i lupi l’avrebbero allevato. Lo si abbandonava senza un nome, ma con un segno di riconoscimento perché la sua storia potesse cominciare.
Una macchina sfreccia a un passo da me. L’acqua delle pozzanghere mi schizza, come se non fossi già bagnato abbastanza. Testa di cazzo! La macchina accosta. È Clo, mio figlio. Salgo a bordo. Mi passa una salvietta e io mi asciugo la faccia, grato e improvvisamente stanco morto.
Superiamo un paio di isolati con la radio accesa. Il bollettino meteo con l’allerta maltempo. Una superluna. Onde gigantesche nel mare, il fiume che tracima dagli argini. Non mettetevi in viaggio. State in casa. Non è l’Uragano Katrina, ma non è nemmeno una notte in cui stare in giro. L’acqua ricopre per metà le ruote delle macchine parcheggiate ai lati della strada.
Poi la vediamo.
Poco più avanti c’è una BMW Serie 6 finita dritta contro il muro. Entrambe le portiere sono aperte. Una piccola utilitaria scassata è andata a sbattere contro il cofano. Due teppisti stanno picchiando un tizio, lo buttano a terra. Mio figlio si attacca al clacson, va verso di loro con il finestrino abbassato, grida: CHE CAZZO CHE CAZZO! La nostra macchina sbanda mentre uno dei due ci spara addosso per colpire la gomma davanti. Mio figlio sterza, e con un tonfo urta il marciapiede. I teppisti saltano sulla BMW, grattano la fiancata contro il muro, si liberano dell’utilitaria scassata che finisce in mezzo alla strada. Il tizio preso a botte giace a terra. Indossa un vestito elegante. È sulla sessantina. Sanguina. Il sangue gli cola sul viso bagnato dalla pioggia. Mormora qualche parola. Mi chino su di lui. Ha gli occhi aperti. È morto.
Mio figlio mi guarda – è naturale, sono suo padre – cosa facciamo adesso? Poi sentiamo il fischio delle sirene che arriva da lontano, come da un altro pianeta.
«Non toccarlo» gli dico. «Fai marcia indietro.»
«Dovremmo aspettare la polizia.»
Scuoto la testa.
Procediamo sobbalzando con la gomma scoppiata fin dietro l’angolo e avanziamo lentamente lungo la strada che passa davanti all’ospedale. Un’ambulanza sta uscendo dal garage del pronto soccorso.
«Devo cambiare la ruota.»
«Entra nel parcheggio dell’ospedale.»
«Dovremmo dire alla polizia quello che abbiamo visto.»
«È morto.»
Mio figlio ferma la macchina e va a prendere gli attrezzi per cambiare la ruota. Per un attimo rimango seduto, immobile e bagnato fradicio, sul sedile zuppo d’acqua. Le luci dell’ospedale entrano di sbieco dal finestrino. Odio quest’ospedale. Quando è morta mia moglie sono rimasto a lungo seduto così, come adesso. A guardare dal parabrezza, senza vedere niente. È passata tutta la giornata e poi è scesa la notte e niente è cambiato perché era cambiato tutto.
Scendo. Mio figlio posiziona il cric e insieme sganciamo la ruota. Lui ha già portato lì la ruota di scorta dal bagagliaio. Infilo le dita nella gomma squarciata e tiro fuori il proiettile. Ci mancava anche questa storia. Il proiettile lo scaglio in un profondo canale di scolo sotto il marciapiede.
Ed è in quel momento che la vedo. La luce.
La Culla per la Vita si è accesa.
In modo confuso, capisco che è tutto collegato: la BMW, l’utilitaria scassata, il morto, il neonato.
Perché dentro c’è un neonato.
Vado verso la culla e il mio corpo si muove al rallentatore. Il neonato dorme e si succhia il pollice. Non è ancora arrivato nessuno. Perché non arrivano?
Mi accorgo, senza quasi accorgermene, che ho in mano la chiave per smontare la ruota. Mi muovo, senza quasi muovermi, per fare leva sulla botola e aprirla. Ci riesco senza sforzo. Tiro fuori la bambina e lei è leggera come una stella.
Resta con me, presto scende la sera
Il buio s’infittisce, Signore resta con chi in te spera.
Quando nessuno più ti aiuta e nessuno più ti consola
Tu, Protettore degli inermi, resta con me finché non giunge la mia ora.
Questa mattina la congregazione è molto nutrita. Siamo circa duemila a riempire la chiesa. L’alluvione non ha scoraggiato i fedeli. Il pastore recita: «“Le grandi acque non possono spegnere l’amore, né i fiumi travolgerlo”».
Sono versi del Cantico dei Cantici. Cantiamo le strofe che conosciamo.
La Chiesa dei Doni del Signore è sorta in una baracca, poi si è trasferita in una casa e ora è diventata una piccola città. I fedeli sono perlopiù neri. Ma c’è anche qualche bianco. I bianchi fanno più fatica a credere in qualcosa a cui credere. Si fissano sui dettagli specifici, come i Sette Giorni della Creazione e la Resurrezione. Io non me ne preoccupo. Se non c’è nessun Dio, quando sarò morto non starò peggio di come sto adesso. Sarò solo morto. Se c’è un Dio, be’, okay, immagino già cosa state per dire: e dove sarebbe questo Dio?
Non so dove sia Dio, ma credo che Dio sappia dove mi trovo io. La app – Trova Shep – ce l’ha in mano lui.
Shep, cioè il sottoscritto.
Vivo una vita tranquilla con mio figlio Clo. Ha vent’anni. È nato in questo Paese. Sua madre era originaria del Canada, i suoi nonni materni venivano dall’India. Io devo essere arrivato qui su una nave negriera, okay, non io in persona, ma è il mio DNA, nel quale c’è scritto ancora Africa. Il luogo dove ci troviamo ora, Nuova Boemia, un tempo era una colonia francese. Piantagioni di canna da zucchero, grandi case coloniali, orrore e bellezza senza distinzione. Le ringhiere di ferro battuto che piacciono tanto ai turisti. I palazzi bassi del diciottesimo secolo dipinti di rosa, di giallo o di azzurro. Le facciate di legno dei negozi, con le loro ampie vetrine ricurve che danno sulla strada. Le viuzze con gli antri bui che conducono dalle donne di piacere.
Poi c’è il fiume. Immenso come un tempo era immenso il futuro. Poi c’è la musica, c’è sempre una donna che canta, un vecchio che suona il banjo. Ogni tanto anche un paio di maracas nelle mani della ragazza alla cassa. Ogni tanto un violino che ti fa pensare a tua madre. Ogni tanto una melodia che ti fa venire voglia di dimenticare. Che cos’è la memoria, se non una dolorosa disputa con il passato?
Ho letto che il corpo si rinnova ogni sette anni. Ogni singola cellula si rinnova. Anche le ossa si riformano, come il corallo. Perché, allora, ricordiamo ciò che se n’è andato? Che senso ha ogni cicatrice, ogni umiliazione? Che senso ha ricordare i bei tempi quando ormai non ci sono più? Ti amo. Mi manchi. Sei morta.
«Shep! Shep?» È la voce del pastore. Sì, grazie. Sto bene. Sì, che nottataccia, la scorsa notte. Il giudizio di Dio sui milioni di crimini dell’umanità. Ma il pastore ci crede? No che non ci crede. Lui crede nel riscaldamento globale. Dio non ha bisogno di punirci. Ci pensiamo da soli. Ecco perché abbiamo bisogno del perdono. Gli esseri umani non conoscono il perdono. «Perdono» è una parola obsoleta, come «tigre», c’è del materiale d’archivio al riguardo, e abbiamo prove della sua esistenza, ma pochi di noi l’hanno vista da vicino, in tutto il suo essere selvaggio, e sanno davvero com’è.
Io non posso perdonarmi per quello che ho fatto…
Una notte, a tarda ora, nel profondo della notte, nella notte più nera – se si dice così ci sarà un motivo – ho soffocato mia moglie nel suo letto d’ospedale. Lei era fragile, io sono forte. Er...

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