Madri
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Madri

Perché saranno loro a cambiare il nostro Paese

  1. 190 pagine
  2. Italian
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Madri

Perché saranno loro a cambiare il nostro Paese

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Informazioni sul libro

Questo libro nasce da un'immagine. Quella di Toya, madre nera che va a tirar via suo figlio, a suon di schiaffi, da un corteo pericoloso. E prosegue con degli incontri con madri famose e sconosciute, ignote e dimenticate, eroiche e ordinarie. A cominciare da Sandra, che a vent'anni, innamorata e incinta, sceglie di prendersi cura di un neonato non suo, un bambino imperfetto, perché possa morire tra le braccia di una madre. Poi Giuseppina, due volte mamma insieme alla sua compagna Raphaelle. Cecilia e la sua battaglia per scoprire la verità sulla misteriosa morte del figlio avvenuta in Messico. Gabriella e l'amore smisurato per un figlio ingombrante come Fabrizio Corona. La maternità negata di Martina Levato oppure quella diventata bandiera politica come per Dorothy, la madre di Hillary Clinton. La fuga verso la salvezza di Stephanie e la lucidità di Micaela, madre e preside nel liceo coinvolto nello scandalo delle baby squillo. E in fine l'incontro con Emma, leader radicale, e Veritas, suora di accoglienza. Perché le donne trovano sempre un modo di essere madri. Anche quando non lo sono. Madri parla di noi. Noi mamme italiane, fortissime e ostinate, fragilissime e imperfette. Ogni storia ci interroga su come siamo, come vorremmo diventare e come non dovremmo essere. La maternità unisce tante donne (forse tutte), ma ognuna pensa che sia solo sua. Se solo riuscissimo a usare tutto il nostro amore "per sempre", potremmo cambiare i nostri figli, il loro futuro e dunque il nostro Paese.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
ISBN
9788858682807
Categoria
Sociologia

1

Myrta

Raccontare le madri
La madre è l’acqua ma anche la sete. È l’inizio e la fine di tutto.
Cesare Musatti
«Adesso rilassati, sentiamo l’altro battito.»
«Quale altro battito?»
«L’altro battito perché sono due» dice senza scomporsi il mio ginecologo mentre mi accarezza la fronte.
«Due cuori.»
Quella sera d’inverno del 1996 ebbi la conferma di essere madre due volte. Io. Ed era la prima volta.
Quanta paura! Che fine avrebbero fatto tutti i miei progetti? Staccarmi da Napoli, la mia città, e dal «Mattino», il mio giornale da ragazza. Andare a vivere a Roma e provarci con la stampa nazionale. Lasciare che il mio matrimonio si asciugasse e che la vita si aprisse su di me e sulle mie ambizioni.
Una sensazione che non mi piaceva per niente. Mi sentivo costretta. Vivevo quella maternità «esagerata» come un ingombro, un ostacolo alla mia affermazione, come capita a tante di noi. Diventare madre così, subito, sfarinando ogni mio progetto, mi sembrava quasi contro natura. Eppure, anche se tutto era avvenuto all’interno di un matrimonio d’amore, mi ritrovavo di fronte a un monumento incombente al dovere, a una dimensione vertiginosa. Che fosse anche la più assoluta, la più pura delle felicità, questo l’avrei capito solo dopo: quando mi misero in braccio Pietro e Giulio.
Ho vissuto tutta la gravidanza come una zavorra che rallentava la mia vita. Il medico mi aveva persino proibito di scorrazzare in motorino.
Poi invece è arrivato il parto. Li ho visti. Mi sono sembrati scolpiti nella carne talmente erano belli, perfetti e imperiosi. Seppure ancora sporchi della mia placenta.
Erano miei così come io ero loro. Indissolubili, indivisibili.
Una folgorazione, un’improvvisa e palpabile consapevolezza del sé. Nessuna paura, ma un senso pieno di dolce onnipotenza. Il piacere di acquisire un ruolo di vita e per la vita. E addosso un intenso profumo di futuro.
Lo so, non a tutte le donne quel momento restituisce la medesima sensazione. Ogni maternità è un unicum. Eppure, adesso che ci penso, l’idea di questo libro è nata allora. Me la sono covata dentro, tirata dietro proprio come i miei due gemelli e poi Caterina, figlia di gioia pura, con cui quasi non ho bisogno di parlare perché siamo la stessa cosa.
Diventata neomamma ho improvvisamente avvertito intorno a me una moltitudine di madri, uguali e diversissime da com’ero io, tremendamente forti. Donne che ogni mattina tengono in piedi il loro progetto di famiglia e fanno i conti con le luci e le ombre che inevitabilmente i sentimenti si portano appresso. La mia è una storia di maternità ordinaria, come per la maggior parte delle donne che leggeranno questo libro. E invece ho voluto raccontare storie straordinarie di donne normalissime. Mamme, tra eroismo e rassegnazione, narcisismo e amore sinistro, generosità e possessività. Mamme che sono il motore nascosto del nostro Paese.
Sono storie di incontri con madri che non si arrendono mai, che magari fanno un’infinità di sbagli per amore, ma che sanno rialzarsi con coraggio e riprendere in mano la propria vita anche quando viene devastata da un lutto insopportabile, impronunciabile, inimmaginabile, come la morte di un figlio.
La scintilla è stata lei, Toya. La mamma guerriera che corre in strada a riprendersi suo figlio a suon di schiaffi per salvarlo da se stesso e dalla sua rabbia. Vedendo quel video incredibile che arrivava da Baltimora mi sono chiesta: e noi? Noi mamme italiane dove siamo finite? Perché non siamo più capaci di riportarci a casa i nostri figli, proprio come Toya? Eh sì, perché la consapevolezza di te, dei tuoi limiti, dei tuoi errori, ti può assalire all’improvviso e rivelarti che tu, madre napoletana innamorata pazza dei tuoi figli, hai molto da imparare da quella mamma-tigre che con il suo gesto racconta plasticamente di un amore che per essere tale qualche volta deve far male.
E dopo Toya ci sono stati altri incontri casuali.
Sandra, che a vent’anni ha deciso di rinunciare a un futuro a portata di mano, semplice e luminoso, e ha scelto il dolore che nessuno vorrebbe, trovando la gioia che nessuno può capire. Una storia cominciata il giorno in cui ha detto a suo marito: «Voglio che questo bambino possa morire tra le braccia di una madre». Sandra ha preso con sé quel neonato con il suo carico di imperfezione, con i suoi organi scombinati e con quel cuore che non funzionava. La sua è la storia di un amore che non chiede nulla in cambio, di un sentimento materno generoso e purissimo, davanti al quale mi sono sentita piccola e inadeguata. Che lezione per quante di noi che più che amare i figli si amano nei figli!
Poi gli incontri cercati.
Gabriella, mamma di un figlio ingombrante come Fabrizio Corona, intrappolata in un amore forsennato per quel ragazzo bello, spavaldo e fragilissimo. Una madre che ha combattuto con le unghie e con i denti, si è aggrappata a tutto, ha inseguito la speranza, ha rinunciato al suo orgoglio e al suo aplomb di donna borghese per proteggere Fabrizio da se stesso e da tutti i guai giudiziari in cui si è andato a cacciare. Una storia che ci insegna a vedere molte delle trappole in cui rischiamo di cascare ogni mattina. Io, come tante madri innamorate e incapaci di fissare regole inviolabili, eppure tenacemente aggrappate al filo della speranza.
Poi gli incontri che non ti aspetti, Cecilia e Giuseppina.
Cecilia l’ho conosciuta grazie a un’amica comune. Una madre coraggio che combatte senza tregua per dare un senso a una storia, quella della morte di suo figlio, che un senso non ce l’ha. Combatte da sola contro tutti per portare alla sbarra uno Stato intero, il Messico, che ha ucciso il suo Simone a soli trentaquattro anni e senza un perché. Ascoltando il racconto di questo dolore insuperabile, di questo peso enorme che ti piega e ti costringe ad avanzare curva, ho fatto i conti con il mio peggiore incubo: la morte di colui che hai messo al mondo. Cecilia è madre oltre la vita di suo figlio, persino oltre la sua morte. E mi chiedo come abbia fatto questa donna a reagire, a combattere fino allo stremo, invece di buttarsi su un letto a fissare il soffitto bianco per l’eternità. D’altra parte non puoi far giustizia al dolore di una madre davanti al figlio morente, se non muori un po’ anche tu.
Giuseppina invece è la maternità che sa ricucire persino le famiglie più fragili. Lei, mamma due volte insieme alla sua compagna, dà voce a quel filo nascosto che all’improvviso, da madri, ci fa sentire più vicine a chi ci ha messo al mondo.
Poi gli incontri che spaventano, che si vorrebbero rimandare.
Micaela, la preside che ci vede in quell’istante in cui riveliamo la nostra più grande paura: non essere state delle buone madri, aver fallito con i nostri figli. Micaela è una donna, una mamma come noi, ma è anche la scomoda testimone del nostro desiderio caparbio e ridicolo di proteggere i figli a ogni costo, che a scuola raggiunge il parossismo. È lei che ci fa scoprire l’esistenza di una frontiera inconfessabile in ognuna di noi. È lei che ci ricorda l’importanza del ruolo, che ci chiede di fissare paletti e di dare ai ragazzi certezze e un punto di partenza.
Poi gli incontri inevitabili, a cui non ti puoi sottrarre, imposti dalla cronaca.
Martina, la ragazza dell’acido che non aveva mai pianto in galera, fino al giorno in cui è nato suo figlio. Quando l’ha visto, quando l’ha toccato, sono arrivate le lacrime. Allora ho pensato a Filumena Marturano, che alla fine della sua battaglia, per dare un cognome rispettabile ai figli, si può finalmente permettere di piangere e dice: «Per piangere bisogna aver visto il bello e rimpiangerlo. Io non avevo mai visto il bello nella mia vita…». Cosa c’entra Filumena con Martina? Sono entrambe mamme, siamo tutte mamme, e proprio il mio essere madre mi impedisce di avere certezze sulla vicenda della Levato e della sua maternità negata. Mi impedisce di rispondere con un sì o con un no alla domanda cruciale che la sua storia pone, uscendo dalla cronaca nera ed entrando nelle nostre coscienze, con una forza paradigmatica tale da evocare l’eterno dilemma di Antigone. E mi chiedo: la maternità può cambiare una donna?
Dorothy, la mamma di Hillary Clinton, diventata bandiera politica della sua campagna elettorale per la Casa Bianca.
E Stephanie che, partita incinta di nove mesi su un barcone per attraversare il Mediterraneo, ha dato alla luce la sua bambina su una nave della Marina militare italiana. Incontrandola ho capito che al di là del mare è ancora valido l’impulso ad aspettarsi sempre «qualcosa di meglio» per i figli; mentre noi combattiamo per delle piccole cose lì il gioco è per la vita.
Poi gli incontri che ti spiazzano.
Emma, politica di razza, madre di mille battaglie, e Veritas, quella che noi chiamiamo Madre, ma che madre ha scelto di non esserlo. Emma mi spiega senza giri di parole che il «per sempre» della maternità la terrorizza. Smonta ogni mia certezza faticosamente costruita storia dopo storia e sostiene che l’istinto materno «semplicemente non esiste».
Veritas, suora dell’accoglienza, una vita dedicata all’educazione dei bambini, è madre di tutti senza esserlo di qualcuno in particolare. Così, resto convinta che noi donne troviamo sempre il modo di essere madri ed è questo a darci un senso di eternità. Resto convinta che la maternità sia l’inizio e la fine di tutto.
E i padri, mi direte voi, dove sono i padri? Mai come in queste pagine sono sullo sfondo, assenti giustificati perché è di noi che stiamo parlando, di noi madri, ma soprattutto perché saremo noi ad allevare gli uomini di domani, figli, futuri padri e compagni, costruttori del mondo che verrà.
Sono incontri questi che riguardano ognuno di noi, perché anche se non siamo mamme, tutti abbiamo avuto una madre.
Lo confesso, ho scritto questo libro innanzitutto perché queste mamme straordinarie ridimensionano la paura, l’ansia da prestazione, l’inconfessabile fragilità e le piccole miserie di tutte noi. Esplicitano i nostri limiti e insieme li esorcizzano. Ci fanno sentire piccolissime e inadeguate e poi subito dopo onnipotenti e invincibili.
E allora, ripartiamo da qui.

2

Toya

Uno schiaffo per difenderti
Legge del capitano Penny: si può fregare tutti per un certo periodo, o qualcuno per sempre, ma non si può fregare la mamma.
Dalle Leggi di Murphy
A volte basta un’immagine che ti entra in testa e comincia a girare. A volte basta un gesto per rivelarti qualcosa di te che prima non conoscevi. A me è successo con Toya.
È entrata nella mia vita all’improvviso. Grande, grossa, jeans bianchi e maglietta gialla, con qualche chilo di troppo e quella sua aria da massaia afro-americana, con quelle sue mani enormi e forti, capaci di raddrizzare un legno storto.
La osservavo e mi rendevo conto che si era presa tutto lo schermo. Subito. Senza chiedere permesso. È precipitata su quel corteo minaccioso, in mezzo a maschi di colore grandi come armadi e vestiti come fossero Ninja. E si è diretta subito verso uno di loro. Nero come gli altri, la faccia coperta da un passamontagna proprio come gli altri, irriconoscibile per tutti ma non per Toya. Non per sua madre. Non per questa guerriera dell’anima senza corazza.
Una tigre che difende il suo cucciolo. E se agli altri quel ragazzo incazzato con il mondo fa paura, lei se lo riporta a casa al guinzaglio, neanche fosse andata a recuperarlo nel campetto sotto casa dove si sporca di fango con gli amici.
Questa è la storia di Toya. Single, sei figli, abita nella periferia di una città americana. A prima vista, può sembrare la madre di Will Smith in Willy, il Principe di Bel-Air. Ma in realtà è molto diversa. E non solo perché non ha una sorella ricca che vive a Los Angeles.
Toya vive a Baltimora, nel Maryland. Ed è lì anche il 28 aprile 2015, quando da più di ventiquattro ore la città è in fiamme, sconvolta dalla rabbia della comunità afroamericana. La miccia è stata la morte di un ragazzo (l’ennesimo), pestato dalla polizia. Tutto è cominciato con una manifestazione di liceali al Mondawmin Mall. Una manifestazione che esplode sui social media. L’obiettivo è quello di una purge, una protesta dura per mettere in ginocchio la città. E così è.
Commozione e rabbia: questi i sentimenti con cui i neri e tutti gli emarginati di Baltimora, migliaia di persone, partecipano ai funerali di Freddie Gray in una chiesa battista di periferia. Freddy aveva solo venticinque anni ed è morto dopo una settimana di coma e di agonia. L’hanno ricoverato in ospedale con la spina dorsale spezzata, a meno di un’ora dal suo arresto. Un arresto sbagliato, di cui si sa ancora troppo poco.
Freddie Gray viveva in un quartiere-ghetto, uno di quei posti in cui il mestiere di madre è ancora più difficile perché devi combattere ogni giorno per tenere tuo figlio lontano dai guai e dalla polizia. Che spesso è più pericolosa delle cattive compagnie. Un quartiere dove il lavoro non c’è e la disoccupazione è al 30 per cento, dove nelle scuole mancano pure le sedie, e di opportunità poi, neanche a parlarne. Le case sono fatiscenti, le strade sembrano il set di un B movie sulla provincia americana. Un quartiere, quello che sorge dalle parti di Pennsylvania Avenue e West North Avenue, dove «vivere è davvero uno schifo». Parola del figlio di Toya. Altro che sogno americano…
Da queste parti pare che Abraham Lincoln e Martin Luther King siano morti invano. E l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca non ha cambiato le cose. Le differenze tra chi abita in periferia e chi ha la fortuna di nascere nei quartieri alti restano siderali e incolmabili.
Ve la immaginate l’esistenza di Toya? Anche lei vive qui, non ha soldi, non ha un uomo vicino, non ha nessuno che la protegga, eppure continua disperatamente a trottare per far crescere i suoi figli. Ogni volta che sente suonare una sirena ha un sussulto. Ogni volta che scoppia una protesta, che il quartiere scende in strada per manifestare, lei non si dà pace fino a quando tutti i suoi sei ragazzi non sono a casa. E se uno manca all’appello non si dispera restando seduta in poltrona, ma si precipita fuori per andarlo a cercare.
Insomma, la vita di Toya è molto difficile in quella città che conosce bene la discriminazione e la violenza. Sia quella della polizia, sia quella dei manifestanti. Eppure siamo ad appena una sessantina di chilometri da Washington e la famosissima Johns Hopkins University, che attira cervelli da tutto il mondo, ha sede qui. Baltimora non sarà chic e ricercata come Bel-Air, la Fifth Avenue, il mare di Miami o le spiagge degli Hamptons, ma è una delle città storiche e più importanti degli Usa. Famosa già ai tempi delle Tredici Colonie.
Freddie è morto sulle sue strade, nel 2015, ucciso per il colore della pelle. La ricostruzione dei fatti non è ancora chiara. Sembra che alla vista dei poliziotti sia scappato (pur non avendone motivo) e, una volta preso, sia stato sottoposto alla «tortura del furgone». Ai giorni nostri non si usa più il supplizio della ruota o della garrota, anche i torturatori si sono evoluti. E il povero Freddie (come tanti altri prima di lui) sarebbe stato caricato con braccia e gambe legate su un mezzo della polizia, lanciato in una folle corsa tra buche, frenate e sterzate brusche. A bordo alcuni agenti, ben ancorati ai loro sedili, che assistevano al macabro spettacolo di quel ragazzo rimbalzato a destra e a sinistra come un birillo.
Una sorte tremenda. Incredibile. E così al funerale la rabbia dei suoi amici, dei suoi vicini di casa, di quelli che sanno di potersi trovare un giorno o l’altro al suo posto incendia la città. Tutti coloro che si identificano con il padre, la madre, il fratello o il cugino di un possibile altro Freddie escono dalle loro case e riempiono le strade di Baltimora. In poche ore interi quartieri vengono devastati dalla violenza di un corteo che si gonfia come un fiume in piena, scatenando una follia cieca figlia primogenita ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. 1. Myrta. Raccontare le madri
  6. 2. Toya. Uno schiaffo per difenderti
  7. 3. Gabriella. La dannazione dell’amore
  8. 4. Sandra. Tra le braccia di una madre
  9. 5. Cecilia. Come sabbia in un ingranaggio
  10. 6. Micaela. Quello che non vuoi sapere
  11. 7. Dorothy. Il potere dell’amore
  12. 8. Martina. Divieto di essere madre
  13. 9. Stephanie. Oltre lo stupro
  14. 10. Giuseppina. Di mamme ce ne sono due
  15. 11. Emma. Mamma? Non per me
  16. 12. Veritas. Un cerchio che non si chiude
  17. Ringraziamenti
  18. Indice