L'Italiaccia senza pace
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L'Italiaccia senza pace

Misteri, amori e delitti del Dopoguerra

  1. 350 pagine
  2. Italian
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L'Italiaccia senza pace

Misteri, amori e delitti del Dopoguerra

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Delitti politici rimasti senza colpevoli. Pugno di ferro sui fascisti sconfitti. Reduci di Salò che si vendicano. Fanatismi barbarici. Partiti divisi dall'odio. Il potere crescente delle donne, imposto anche nelle storie di sesso. Misteri ed enigmi che diventano incubi. Il primo dopoguerra italiano è stato tutto questo. Un inferno durato tre anni, sino alle elezioni del 18 aprile 1948 e all'attentato a Palmiro Togliatti subito dopo il trionfo di Alcide De Gasperi sul Fronte popolare rosso. Da allora sono trascorsi tanti anni e quasi nessuno rammenta quel tempo feroce. Ma Giampaolo Pansa l'ha vissuto con lo sguardo attento di un ragazzino curioso. E non l'ha dimenticato. Lui ha una tesi: l'Italia di questo 2015 è ancora figlia del primo dopoguerra, dei vizi e delle faziosità che lo inquinavano. Allora i comunisti sognavano di fare un colpo di Stato. Adesso i reduci del Pci rimasti sulla piazza hanno scoperto degli alleati imprevisti: i movimenti che vogliono il nostro distacco dall'Europa. Gli italiani di oggi sono più in frantumi degli italiani di allora. I partiti soffrono di un discredito che nel dopoguerra affiorava già, ma non li paralizzava. Purtroppo non abbiamo un De Gasperi che ci guidi verso una nuova rinascita. Siamo vittime di paure più cattive di quelle che fra il 1945 e il 1948 devastavano i sonni di un paese che aveva ben poco da perdere. Mentre oggi abbiamo il terrore di perdere tutto e di ricadere nella povertà. È questa convinzione che ha spinto Pansa a creare un affresco dal titolo ruvido: L'Italiaccia senza pace. Perché Italiaccia? Perché nel primo dopoguerra eravamo una nazione sottosopra, incapace di ritrovare una condizione di normalità e rapporti umani non inquinati dalla violenza. Si sente dire che il passato annoia, ma di certo non quello narrato da Pansa. Questo suo libro è un'incalzante sfilata di vicende osservate dal basso, dove il privato di tanti protagonisti diventa la spia di un'epoca senza misericordia. L'autore ha scovato nella propria memoria le sequenze di un dramma che nasce da un enigma: chi ha consegnato ai tedeschi l'ebreo Samuele Segre, un direttore di banca ucciso ad Auschwitz? La verità si scoprirà nelle ultime pagine dell'Italiaccia senza pace.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
ISBN
9788858682142
Argomento
History
1948

25
Romagna bella

Verso la metà del gennaio 1948, la signora Foà invitò a cena Giovanna Aceto e il dottor Ubertis. La corrispondente della «Stampa» chiese alla padrona di casa: «Posso venire insieme a un’amica? Ha una storia da raccontare che pochi conoscono, perché i grandi giornali non amano mettere in imbarazzo un partito pesante come il Pci».
L’amica sembrava una gemella più giovane della signorina Aceto. Anche lei era alta, davvero magra e molto elegante. Avevano entrambe gambe lunghe e perfette, messe in risalto da gonne corte e da tacchi che le rendevano seducenti. Erano suagnate, tirate a lucido, come se dovessero recarsi a una festa. Pure il trucco faceva risaltare gli occhi e le labbra.
Quando le vide, Carlo rammentò quello che gli aveva detto la Tilde, una sarta con i fiocchi: «Le donne magre sono le più facili da vestire. Anche perché si accettano come sono. Non hanno il problema di sembrare più giovani dell’età che hanno. Qualsiasi abito gli sta d’incanto. Del resto, un proverbio recita: la magrezza è metà bellezza».
L’amica della giornalista aveva trentacinque anni e lavorava da capo infermiera all’ospedale della città, il Santo Spirito. Si chiamava Rosa Galletti, romagnola di Lugo. E sorprese i Segre Foà rivelando un carattere forte e una passione politica straordinaria.
Disse alla signora Elisa: «Non pensi che io sia una romagnola rossa. Anzi il rosso non mi piace affatto. Anche da noi si trovano tante donne che la pensano come me. Però mi considero una pasionaria, come sostiene il dottor Ubertis. Ho visto gli orrori della guerra civile e adesso vedo le nefandezze di questo dopoguerra che i comunisti vogliono incendiare…».
Carlo la interruppe: «Lei è democristiana?».
Rosa Galletti lo scrutò infastidita: «Per niente. Sono iscritta al Partito repubblicano, quello democratico. In Romagna siamo molti. Abbiamo partecipato anche noi alla lotta partigiana. E adesso ci troviamo alle prese con un pericolo più subdolo: le violenze delle bande di Togliatti. Ci odiano perché abbiamo rifiutato di metterci al loro servizio. Ci danno la caccia…».
Il ragazzo la interruppe di nuovo: «Che cosa significa darvi la caccia?».
Lei ritornò a guardarlo storto: «Vuol dire che, se potessero, ucciderebbero tutti i militanti del Pri, come hanno fatto all’inizio di questo gennaio. Con l’assassinio di un nostro giovane dirigente: Marino Pascoli. Avete mai sentito parlare di questo delitto?».
La signora Foà e Carlo ammisero di no. E anche il dottor Ubertis, che conosceva i segreti di una quantità di persone, fu costretto a confessare di non saper nulla di questo Pascoli.
La Rosa sospirò: «Lo immaginavo. Vivete in una città che giudico tranquilla, se la confronto con quelle romagnole. Da voi nessuno rischia la vita. Vivono in pace anche i direttori di banca come questo signore» spiegò indicando Ubertis. «Guardate il vostro amico. La sera, una volta chiuso l’ufficio, il suo unico problema è di raggiungere la mia amica Giovanna. In Romagna starebbe attento ai propri passi e dovrebbe usare molte cautele. Un banchiere e la corrispondente del giornale della Fiat: quale obiettivo migliore per qualunque killer rosso?».
E per rendere credibili le sue parole, Rosa Galletti raccontò la storia di Marino Pascoli.
Era nato nel 1923 a Santerno, una frazione di Ravenna. Nel 1948 stava per compiere venticinque anni ed era un attivo militante del Pri, un partito che in Romagna poteva essere considerato quasi di massa.
Veniva da una famiglia umile con il culto di Giuseppe Mazzini. Il padre faceva il calzolaio ed era un mutilato della guerra 1915-1918. Marino aveva combattuto da partigiano prima nell’8° Gap di Forlì e poi nella 29ª Brigata Garibaldi Gastone Sozzi che operava nella pianura forlivese.
Dopo la guerra civile, aveva iniziato a commerciare in legnami, ma dedicava molto tempo all’impegno politico. Era un giovane intelligente, volitivo e di grande coraggio. Sapeva scrivere bene e sulla «Voce di Romagna», il giornale del Pri di Ravenna, pubblicava articoli polemici nei confronti dei comunisti della zona. Per farlo ci voleva del fegato, poiché significava mettersi in conflitto con una superpotenza molto vendicativa.
«Nella vostra città» disse Rosa, «i due partiti più forti sono la Dc e i socialisti. Anche qui il Pci ha le sue truppe, ma non è ancora in grado di imporre la propria volontà. Ho sentito parlare di un solo delitto compiuto dai trinariciuti: la vittima era un comunista dissidente, un certo Acquaviva.»
La signora Elisa osservò: «La storia di Acquaviva la conosco. Ma confesso di sapere poco o niente della Romagna…».
«È un altro mondo, opposto al vostro» spiegò l’infermiera. «Lì siamo passati dalla dittatura fascista a quella comunista. I rossi hanno le mani dappertutto e vogliono sempre di più. Da noi non si muove foglia che il Pci non voglia. Lo dimostra anche quello che è accaduto a me. Una faccenda da nulla rispetto a tante altre ben più gravi, però mi ha lasciato una grande amarezza. E insieme mi ha fatto capire quanto il potere politico possa essere crudele e volgare.»
«Ci racconti questa vicenda» la incitò Elisa Foà.
Rosa Galletti sorrise a denti stretti: «È molto semplice. Nel corso da infermiera, fatto a Ravenna, sono risultata la prima. Dovevo prendere servizio nell’ospedale cittadino, era mio diritto. Ma l’assunzione non arrivava mai. Ho chiesto di parlare con il funzionario del Pci che si occupava della sanità. Senza tanti giri di parole, lui mi spiegò come stavano le cose. Disse: “Signorina Galletti, sappiamo che lei è una militante repubblicana. A quel posto abbiamo designato una nostra compagna. Ma può ottenerlo lei se dimostrerà di essere gentile con me”…».
La signora Foà esclamò, inorridita: «Il maiale voleva che entrasse nel suo letto!».
«È così» confermò Rosa, con rabbia. «L’ho mandato a quel paese e per questo motivo non ho ottenuto il posto che mi spettava. Allora ho deciso di andarmene dalla Romagna. L’ho fatto con la morte nel cuore, ma non volevo sottomettermi a un regime che mi faceva vomitare. Un dirigente del Pri mi ha suggerito di tentare con l’ospedale della vostra città. Qui mi hanno assunto e sono diventata persino capo infermiera.
«Marino invece non poteva, e non voleva, andarsene» spiegò Rosa. «Continuò nella battaglia politica contro il Pci. Il suo impegno poggiava su tre cardini. La denuncia degli eccessi compiuti dai partigiani rossi durante e dopo la guerra civile. La critica al massimalismo politico e sindacale del partito di Togliatti. E la difesa del sistema politico occidentale contro l’Unione Sovietica. In più, Pascoli insisteva nel rivendicare una verità: essere anticomunisti non voleva dire essere di destra o fascisti.»
La reazione del Pci romagnolo si rivelò di un’asprezza senza pari. Contro Pascoli iniziò una violenta campagna di denigrazione politica e morale. Venne accusato di non aver mai combattuto da partigiano. Poi si sostenne che aveva fatto la spia per conto dei fascisti di Salò. Alle calunnie si aggiunsero le minacce. Infine una sera dell’ottobre 1947, alla periferia di Ravenna, qualcuno gli sparò due rivoltellate, senza riuscire a colpirlo. L’attentato non intimidì Pascoli che continuò a dire e a scrivere quello che pensava.
La signora Elisa si accorse che Rosa Galletti si era incupita e soffriva. La invitò a non proseguire: «Ho sofferto anch’io una perdita pesante, quella di mio marito Samuele. E so per averlo provato che ricordare ciò che ti è accaduto rinnova il dolore».
Ma lei scosse il capo: «No, dovete ascoltare questa storia sino alla fine. E vi renderete conto che in Italia, nelle regioni dove comandano i comunisti di Togliatti, la guerra civile continua ancora.
«Il 6 dicembre 1947» disse Rosa, «Pascoli pubblicò sulla “Voce di Romagna” l’articolo che gli sarebbe costato la vita. Aveva per titolo una parola sola: Il Partigianato. Invitava a distinguere i partigiani veri da quelli falsi. Purtroppo i partigiani falsi erano la maggioranza. Teppa, collezionisti di omicidi, abituati a uccidere, a compiere prepotenze, a imporre ricatti. Tutta gentaglia pronta a vendere l’Italia a un paese straniero: l’Unione Sovietica».
Questo era troppo per qualche banda rossa. Se il primo attentato era fallito, il secondo non doveva mancare il bersaglio. La sera della domenica 4 gennaio 1948, Pascoli scese dal treno partito da Ravenna alla stazione di Mezzano. Qui lo aspettavano la fidanzata Wanda Gulminelli e il fratello minore Sauro, con la morosa. Si avviarono verso casa in bicicletta. Gli assassini lo attesero sulla strada fra Mezzano e Ammonite. Erano passate da poco le 18, faceva già buio ed era scesa la nebbia. Ma questa volta i killer non sbagliarono.
Appostati dietro una siepe, spararono contro Pascoli cinque colpi di rivoltella, in successione. Lui cadde a terra ferito. Perdeva sangue dal ventre. Mormorò al fratello: «Sauro, non credo di farcela». Sauro lo rincuorò: «Fatti forza, non sembrano ferite gravi». Marino svenne nell’automobile che lo trasportava all’ospedale di Ravenna. Quando ci arrivarono, era già in coma. E qualche minuto dopo spirò.
«Ai suoi funerali partecipò una grandissima folla» raccontò Rosa Galletti. «Prima che il corteo funebre si incamminasse in direzione del cimitero, dal balcone della Casa del Popolo di Ravenna parlò il deputato Aldo Spallicci, uno dei leader repubblicani della Romagna. Disse che il sacrificio di Pascoli doveva servire a spegnere tutti gli odi di parte. Ma questo poteva accadere, ammonì Spallicci, soltanto se i mandanti e gli esecutori del delitto venivano consegnati alla giustizia.»
«È stato possibile individuarli?» domandò la signora Foà.
La capo infermiera esclamò con rabbia: «Ma figuriamoci! Assolutamente no. Vennero effettuati un paio di arresti, senza risultato. Fu decisiva una campagna velenosa messa in atto da due quotidiani comunisti: “l’Unità” e “Milano sera”. Arrivarono a suggerire che il fratello di Marino, Sauro, fosse un complice degli assassini. Poi il fango venne gettato sulla fidanzata di Pascoli. Infine contro Guerrino Ravaioli, uno dei dirigenti repubblicani romagnoli. Un vero schifo!».
I Foà erano ammutoliti. A rompere il silenzio fu Giovanna Aceto: «Ho ascoltato la mia amica con il cuore in gola. Voi conoscete la mia storia e la fine atroce dell’uomo che amavo, ucciso anche lui. Ero una donna distrutta, non volevo più vivere a Milano, odiavo gli esseri umani, ho anche pensato di farla finita. Mio padre era sconvolto dal mio stato d’animo. Poi scoprì il modo per aiutarmi. Aveva un cugino che abitava nella vostra città. Era un redattore della “Stampa” vicino alla pensione. Mi mandò ad abitare con lui e lo pregò di insegnarmi il suo lavoro.
«Sono stata fortunata. Quel nostro parente andò a trovare il redattore capo del giornale, Giulio De Benedetti, un signore ebreo, di grandi capacità e con un carattere di ferro, destinato a diventare il direttore. Gli chiese di assumermi e lui decise di offrirmi quel lavoro. Dicendo: “Una donna nel nostro giornale? Sarebbe la terza in questa redazione! Se risulterà davvero brava, costringerà i giornalisti maschi a non farsi mangiare sulla testa da una collega”…».
La signora Elisa domandò a Giovanna: «E come ha incontrato il dottor Ubertis?».
Lei spiegò: «Nel modo più banale, diventando una cliente della sua banca. Quando ci siamo conosciuti meglio, tra noi è nata una simpatia speciale. Lui mi ha confessato di aver sempre amato ragazze robuste, ma di essersi invaghito di me. Io gli ho raccontato la vicenda terribile che voi già conoscete. Da allora non mi ero più accompagnata a nessuno. E avevo paura di innamorarmi una seconda volta. Adesso le paure stanno sparendo».
La signora Foà era molto curiosa di tutte le storie d’amore. E domandò alla signorina Aceto: «Che cosa l’ha spinta a dirgli di sì?».
La risposta di Giovanna fu sorprendente: «Ho compreso che Claudio è l’esatto opposto del fazioso. Non ha una vera passione politica. È incapace di odiare qualcuno, è un signore di buon carattere, abbastanza scettico sul conto dell’umanità. E non nutre illusioni a proposito dei partiti. Li considera un insieme di mafie diverse fra loro, ma tutte da respingere…».
Il dottor Ubertis tentò una timida protesta: «Non sono esattamente così. Esageri, Giovanna!».
Ma la giornalista lo zittì con indulgenza: «Non difenderti, caro Claudio. Per fortuna tua, e per il momento anche mia, sei un perfetto qualunquista. Insomma, siamo uguali e questo ci aiuterà a vivere l’uno accanto all’altra. Da sposati o da morosi, per me non ha nessuna importanza. Quando siamo insieme, mi sento tranquilla e felice».
Con un sorriso, la signora Foà esclamò: «Non una parola di più! Lasciamo intatto il segreto della vostra coppia. Adesso riprendiamo la cena da buoni amici. Insieme alla signorina Galletti che ci ha svelato un altro orrore di questo dopoguerra».

26
Colpi di Stato e sfilatini

I racconti dell’infermiera sul delitto Pascoli in Romagna e della giornalista sull’uccisione del fidanzato a Milano lasciarono nella memoria di Carlo Segre un segno indelebile. E lo spinsero a riflettere sulla crudeltà del dopoguerra come di solito ai ventenni suoi coetanei non accadeva. Si ripromise di ricordare il più possibile di quanto sarebbe successo nel 1948. Un anno che prometteva di rivelarsi cruciale per il destino politico dell’Italia dopo la fine del conflitto mondiale.
Diventato adulto, Carlo si sarebbe reso conto che era stato un tempo di grandi mutamenti pubblici e privati. Dietro lo schermo della battaglia elettorale fra bianchi e rossi, fra la Dc di De Gasperi e il Fronte popolare di Togliatti e Nenni, era esplosa una rivoluzione capace di sconvolgere molti codici morali, costumi e abitudini considerati indistruttibili.
Il caos politico si sarebbe insinuato anche nella vita privata di tantissime persone, a cominciare dalle donne. In pochi mesi, molto sarebbe cambiato con una rapidità del tutto imprevista. In meglio o in peggio? Carlo, negli anni a venire, non fu mai in grado di rispondere con sicurezza a questa domanda.
All’inizio del febbraio 1948, il Generale Inverno decise un ultimo assalto alla gente già intirizzita da lunghe settimane di freddo. Dalle colline cominciò a soffiare sulla città e verso il Po un’ariaccia così gelida da far pensare ai Segre Foà e ai loro amici che il calendario scorresse all’incontrario, in direzione di un altro Natale. Fu persino necessario chiudere per molti giorni le scuole perché non si sapeva come alimentare le stufe e scaldare le aule.
Quanto al resto, regnava sovrana una babilonia mai vista. I carabinieri scoprivano dappertutto depositi di armi, quasi sempre allestiti dai partigiani delle Garibaldi. I disoccupati stavano diventando ogni giorno più furibondi e i loro cortei prendevano una piega violenta. La Celere li picchiava senza risparmio, non per cattiveria poiché anche i poliziotti non se la passavano bene, ma perché così voleva il governo De Gasperi, preoccupato di perdere il controllo del paese.
Il più delle volte i senza lavoro, privi di speranze e di energia, subivano i pestaggi senza quasi reagire. Ma in non pochi casi assaltavano i magazzini dell’ammasso. Costringendo i sindaci a distribuire il grano che gli agricoltori avevano conferito di malavoglia. Rischiava di scoppiare una nuova guerra civile. Questa volta tra poveri vestiti alla meglio e altri poveri in divisa.
Una collega della signora Foà, Antonia Pesavento, insegnante di matematica, era originaria del Polesine e aveva ancora i genitori che vivevano a Adria. Era una signorina sui trent’anni, una bionda di bell’aspetto, sempre informata su quanto accadeva. Lei sapeva molte cose su quella parte d’Italia che sembrava dimenticata da Dio e dagli uomini, l’unica isola rossa in un Veneto che si preparava a diventare tutto bianco, uno dei pilastri della Democrazia cristiana.
In Polesine c’erano stati giorni di sciopero per solidarietà con i senza lavoro. A Corbola, a Bottrighe, a Taglio di Po, ad Ariano avevano bloccato i traghetti, l’unico mezzo per andare da una sponda all’altra del fiume. Anche il ponte sul Po tra Polesella e Copparo era stato interrotto. C’erano volute due autoblindo dei carabinieri per riaprirlo al traffico. Poi il cielo si era messo a scaricare pioggia. Aggiungendo alle tante disgrazie anche la maledizione di un fiume sempre più gonfio e più nero.
Fu in quel tempo, la sera di giovedì 5 febbraio 1948, che il governo De Gasperi stabilì la data delle prime elezioni parlamentari del dopoguerra. Si sarebbero svolte la domenica 18 aprile. I cannoni del conflitto politico tuonavano già sull’orizzonte. Però lo scontro vero doveva ancora cominciare. E il primo colpo a vantaggio della Dc e a scorno del Fronte popolare arrivò da un paese lontano dall’Italia: la Cecoslovacchia.
Il 26 febbraio 1948 i sovietici conquistarono il potere a Praga con un golpe voluto e diretto da Mosca. Il Partito comunista diventò il padrone assoluto del paese. Lo guidava Rudolf Slánský, un dirigente di quarantasette anni che nel 1945, per volere di Stalin, era stato imposto come segretario generale del blocco fedele all’Unione Sovietica.
Sembrava un leader indistruttibile e invece diventò la vittima di un assassinio deciso dai suoi protettori moscoviti. Nel 1951 fu accusato da Stalin di cospirare contro i sovietici. Venne messo in carcere, processato, condannato a morte e impiccato nel 1952. Come altre vittime dello stalinismo, anche lui sarebbe stato riabilitato nel 1968. Quando stava sottoterra da sedici anni.
Sotto la guida di Slánský, nacque un governo tutto rosso capeggiato da Klement Gottwald, un comunista di cinquantadue anni, appena rientrato dall’esilio a Mosca. Fu lui ad annunciare il colpo di Stato al presidente della Repubblica cecoslovacca. Era Edvard Beneš, sessantaquattro anni, che aveva guidato dal 1939 al 1945 il governo provvisorio costituito a Londra.
Diventato presidente della Repubblica, Beneš si era rifiutato di firmare la nuova costituzione voluta dai comunisti. E disse a Gottwald: «Voi mi parlate con lo stesso tono dei capi nazisti». Nel giugno 1948 si ritirò da...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Introduzione. L’Italiaccia
  5. 1943
  6. 1945
  7. 1946
  8. 1947
  9. 1948
  10. 1949