SECONDA PARTE
Primavera 1516
36
Venezia
«Chiudi!» comandò una voce.
I cardini cigolarono. I due portoni sbatterono con un tonfo sordo. Si sentirono stridere le chiavarde, ferro su ferro.
«Chiuso!» disse una voce.
«Chiuso!» fece eco un’altra voce.
E poi fu silenzio.
La comunità ebraica era riunita al completo in campo del Ghetto. Nessuno era rimasto in casa. Non c’era stato un programma, un piano, un appuntamento preso di concerto. Semplicemente si erano ritrovati lì. E tutti avevano quell’espressione sbigottita dipinta in viso.
Era la prima volta in vita loro che venivano rinchiusi. Quella era la prima sera.
Nel silenzio seguito alla chiusura dei due portoni nessuno sapeva cosa fare. Nessuno si muoveva. Gli occhi di tutti erano ai portoni inchiavardati dall’esterno.
«Come galline in un pollaio» fece all’improvviso una vecchia, con voce roca. «Che schifo.»
E in quel silenzio tutti la udirono.
«Potevi trovare un altro esempio» le disse un uomo, lì accanto.
E tutti sentirono anche lui.
«Come un pugno di cimici in una tabacchiera» disse allora la vecchia. «Come una tribù di scarafaggi in un pitale. Vuoi che continui?»
Un’altra voce disse: «No».
Scese di nuovo il silenzio.
E allora lo scemo della comunità, un ragazzetto che aveva la bocca sempre spalancata e la saliva che gli colava sul mento, cominciò a intonare, con la sua voce sgraziata, un’antica nenia che si cantava ai bambini la sera, per farli addormentare: «Nel buio c’è una luce… è lì dentro di te… chiudi gli occhi e la vedrai…».
Una bambinetta di cinque o sei anni, che si stropicciava gli occhi per il sonno, allungò la manina e la mise in quella dello scemo.
«… Chiudi gli occhi e la vedrai… è la luce dell’angelo che veglia su di te… è la luce del giorno di domani…»
Il padre del ragazzo, commosso, prese l’altra mano del figlio e gliela strinse. E la madre, a sua volta, prese quella del marito e gli appoggiò la testa sulla spalla. «Canta, bambino mio» disse piano.
«… È la luce del giorno di domani… che sarà il tuo giorno, tesoro… perché il buio è già luce dentro di te…»
«Perché il buio è già luce dentro di me…» ripeterono i bambini in campo del Ghetto, come voleva la canzone.
E i genitori li accarezzarono e li presero per mano, mentre lo scemo concludeva la canzone: «Perché il buio è già luce dentro di noi… perché l’agnello ha ritrovato il suo gregge… Dormi, amore mio, dormi… non aver paura, angelo mio… perché non c’è paura nella luce».
Una a una, in silenzio, in quel nuovo silenzio, tutte le persone della comunità si presero per mano, senza curarsi di chi fosse il vicino e senza staccare gli occhi dai portoni sbarrati, e formarono una catena che non aveva inizio né fine.
Allora la voce del rabbino si alzò, seria e commossa: «Domani all’alba, quando apriranno, saremo di nuovo una moltitudine. Ma stanotte siamo uno solo».
«Amèn Selah» risposero tutti in coro a quella preghiera che non era mai stata pronunciata prima.
Seguì di nuovo il silenzio.
E in quel momento, al di là del muro di cinta, qualcuno gridò: «Ti porterò via, Giuditta! Ti porterò via di lì, te lo giuro!».
Tutte le donne, le ragazze e perfino le bambine che si chiamavano Giuditta si chiesero chi fosse, e le più vanitose sperarono che si rivolgesse a loro, ma solo Giuditta da Negroponte sapeva che era Mercurio. E sentì un’emozione profonda, la voce le rimescolava qualcosa dentro, suo malgrado, anche se aveva giurato a se stessa di non pensare più a lui.
Suo padre Isacco si voltò a guardarla.
Giuditta arrossì. «Entriamo in casa» disse rabbiosamente. «Ho freddo.»
In un attimo, le guardie a bordo della barca che girava intorno al serraglio degli ebrei scorsero una figura scura in cima al muro di mattoni rossi costruito di recente. Trovata una palanca che, come un piccolo ponte, andava dall’argine di uno stretto rio fino alla recinzione, Mercurio si era arrampicato lassù.
«Scendi di là!» urlò una delle guardie mentre l’altra caricava la balestra.
Il ragazzo alzò le mani, in segno di resa, e poi si calò dal muro.
La guardia lo agguantò con malagrazia e lo strattonò, fino a farlo cadere sul fondo viscido della barca. «Cosa credevi di fare, idiota?» ringhiò. Poi fece cenno al compagno di mettersi ai remi e attraccarono in fondamenta dei Ormesini.
Una piccola folla di cristiani curiosi si era accalcata fino alle bianche pietre d’Istria, squadrate, che delimitavano le fondamenta sul rio di San Girolamo, proprio di fronte a campo del Ghetto. Anche loro non avevano occhi che per il portone chiuso. E perfino quelli che dicevano di detestare gli ebrei avevano uno sguardo sbigottito, come se non credessero che si fosse davvero arrivati a tanto.
«Buon Dio» disse una donna che teneva per mano la figlioletta, facendosi il segno della croce, «li abbiamo messi in gabbia.»
La guardia scese dalla barca e si fece strada tra la gente, tirandosi dietro Mercurio fino a un tozzo edificio rossiccio. Aprì la porta e lo fece entrare in una stanza dal soffitto basso e opprimente. Nell’aria si respirava puzzo di vino rancido.
La guardia spinse Mercurio in avanti. «Capitano, abbiamo preso questo ragazzo che urlava di voler far evadere un’ebrea. Forse è ebreo anche lui.»
Il capitano alzò lo sguardo dal bicchiere che aveva davanti. Faticò a mettere a fuoco il prigioniero. Poi il suo volto corrucciato si distese e scoppiò a ridere. «Mezzoprete!» esclamò.
Mercurio guardava il capitano Lanzafame sorridendo.
«Lasciaci soli, Serravalle» disse il capitano alla guardia, che annuì e uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alla spalle. «Siediti, mezzoprete» fece Lanzafame, improvvisamente di buon umore, indicandogli uno sgabello a tre gambe di fronte al tavolo. «Bevi con me» disse allungandogli la bottiglia.
«No, grazie, io non bevo.»
«Tu berrai con me. Per educazione, ragazzo.»
Mercurio si portò la bottiglia alle labbra e la inclinò verso l’alto, come per bere, ma la tappò con la punta della lingua, impedendo al vino di scendere. Fece finta di deglutire e poi la ripassò al capitano.
Lanzafame lo guardò sorridendo. «Facevo la stessa cosa quando ero bambino e mio padre mi voleva obbligare a bere» ricordò scuotendo il capo, mestamente. «Avessi continuato a farlo…»
«Vi sbagliate, capitano, io ho bev…»
«Mezzoprete!» lo interruppe Lanzafame, sbattendo un pugno sul tavolo. «Accetto che tu non beva. Ho anche sorriso. Ma non ricompensarmi prendendomi per il culo, perché potrei incazzarmi.»
«Scusate» disse Mercurio abbassando lo sguardo a terra.
«Così va bene.» Il capitano Lanzafame si attaccò alla bottiglia, finendola. «Serravalle!» urlò.
La guardia si affacciò nella stanza. Aveva lunghi capelli castani che si arricciavano attorno al viso tondo, allungato da un pizzetto. Gli occhi chiari e vispi sapevano cosa voleva il capitano. Aprì un armadio alla sinistra della porta, prese una bottiglia e la stappò col coltello. Poi si ritirò.
«Era un buon soldato. Uno dei migliori. E ora fa la guardia degli ebrei» brontolò Lanzafame, con una nota rabbiosa nella voce. Fissò Mercurio con uno sguardo vacuo.
«Non sapevo che foste voi il comandante del drappello» disse Mercurio per rompere il silenzio.
«Drappello?» Lanzafame tornò a metterlo a fuoco. «Anche i Cattaveri lo chiamano così. Otto uomini in tutto, quattro a piedi e quattro in barca, non sono un drappello. E nessun “drappello” farebbe la guardia a un gruppo di ebrei disarmati. E perché poi? Per non farli uscire di notte?» Lanzafame bevve una sorsata di vino. «Al mattino apriamo i portoni e i presunti prigionieri vanno liberi dove vogliono… i cristiani entrano per farsi prestare soldi o fanno affari… Sai che vuol dire? Solo una cosa. Che i cristiani hanno paura della notte, ragazzo. Come i bambini. Questa buffonata non durerà a lungo.»
Mercurio annuì, senza sapere cosa dire.
«Dov’è la tua tonaca?» gli chiese il capitano.
«L’ho persa.»
«Be’, Dio non me ne vorrà se dico che non mi dispiace. Mi sembravi sprecato come prete. E adesso che fai?»
«Voglio una nave tutta mia» disse con enfasi Mercurio.
«Da mezzoprete a mezzoscemo non è un gran passo avanti» rise Lanzafame.
Mercurio invece rimase serio. Impassibile. «Io avrò una nave tutta mia, un giorno.»
Il capitano fu colpito dalla forza che emanava quel ragazzo. Una forza che lui sapeva di aver perso. «È una cosa talmente cretina e assurda» disse con un misto di rabbia e sarcasmo, di umiliazione e nostalgia per l’uomo che non era più capace di essere, «che ti giuro, qui, adesso, che se mai tu ci riuscissi io verrei a fare la tua scorta armata senza pretendere un solo soldo di paga.»
«Vi prendo in parola» lo sfidò Mercurio.
Lanzafame lo guardò attraverso la delusione e la debolezza che il vino stava producendo nella sua anima. Poi si scosse. «E chi sarebbe la ragazza che vuoi far evadere?»
«Nessuno che voi conosciate» cercò di restare sul vago Mercurio.
«E che cazzo ne sai tu di chi conosco?»
Mercurio non parlò.
«Non sarà la figlia del dottore?»
«Quale dottore?»
«Mi stai diventando antipatico, ragazzo.» Lanzafame si sporse oltre il tavolo e gli toccò il petto con un dito. «E non è un bene per te. Già mi rode il culo di stare qua. Nemmeno un anno fa ero uno degli eroi di Marignano e adesso devo fare la guardia notturna per sopravvivere. Capisci bene che il mio umore non è alle stelle.»
Mercurio annuì. «Sì, è lei.»
Lanzafame sospirò. «Quel ragazzino che ti portavi dietro ora fa coppia con il frate predicatore che appesta Venezia di questi tempi. Bella coppia di coglioni» disse cambiando discorso.
«Già.»
«Non dovevi consegnarlo insieme alla ragazza coi capelli rossi a un pezzo grosso della Chiesa?»
«Dovevo, sì…»
«Ma il pezzo grosso non esisteva e perciò…»
Mercurio sorrise.
Anche Lanzafame. «E di lei che ne è stato?»
«Non lo so. Ci siamo persi di vista.»
«Peccato. Era una bella ragazza.»
«Se la vedo le dico di venirvi a trovare.»
«Sono troppo vecchio per lei. È giusta per te. In più è cristiana e non ebrea…» disse il capitano. «Tutto molto più semplice, non trovi?»
«Non sono fatto per le cose semplici» rispose Mercurio scrollando le spalle.
«Forse però dovresti fartele piacere, almeno finché ci sono qui io di guardia» replicò Lanzafame con un tono duro. «Anche se questa cosa è una buffonata e non mi piace, io per natura faccio sempre il mio dovere, ricordatelo. Non farti pizzicare più. E non mettere strane idee in testa alla ragazza ebrea. Sono guai se viene pescata in giro di notte.»
Mercurio quasi non riconosceva l’uomo che aveva visto a cavallo del suo castrone, con l’armatura e le insegne di guerra. Non riusciva più a vedere quello sguardo fiero, da guerriero, che tanto lo aveva affascinato. E provò una grande pena.
Lanzafame, come accorgendosene, bevve una sorsata rabbiosa e si alzò in piedi, instabile. «Adesso ti saluto, ragazzo. Vai per la tua strada che io ho da fare.» Aprì la porta e fece segno a Mercurio di sloggiare. «Lascialo andare, Serravalle» disse al suo uomo. «E poi torna in barca.»
«Sì, signore» disse Serravalle. Prese Mercurio per un braccio e lo strattonò fino in fondamenta dei Ormesini. Raccolse una pietra e disse: «Vattene, cagnetto».
Quando Mercurio se ne fu andato, il capitano Lanzafame bevve ancora, poi prese un piccolo bicchiere e dei dadi e uscì. Raggiunse il portone del Ghetto, come ormai lo chiamavano tutti a Venezia. Fece segno alle due guardie di aprirlo ed entrò.
All’interno c’era Isacco che lo aspettava.
«Buonasera, dottore» disse Lanzafame.
«Buonasera, capitano» sorrise Isacco.
«Giochiamo?»
«Che penseranno di voi vedendovi insieme a un ebreo?»
«Che penseranno di te vedendoti insieme a un goi?»
I due amici si sedettero per terra, con la schiena al muro. Poi il capitano lanciò i dadi contro il portone.
«Sai chi ho incontrato stasera?» continuò Lanzafame.
«Devo far finta di non saperlo?» rispose Isacco, scuotendo il capo.
«Perché? Lo sai?»
«Ha urlato quelle sciocchezze a squa...