L'ultima settimana di settembre
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L'ultima settimana di settembre

  1. 306 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
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L'ultima settimana di settembre

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Informazioni sul libro

Pietro Rinaldi ha ottant'anni e vuole essere lasciato in pace. Ormai è convinto che la sua vita sia arrivata al capolinea e, mentre mangia penne all'arrabbiata, riflette su quanto i libri siano meglio delle persone. Se già fatica a sopportare se stesso, figuriamoci gli altri! Non ha proprio intenzione di avere a che fare con l'umanità… fino a quando, un giorno, nel suo mondo irrompe Diego, il nipotino quindicenne. Lui ha l'entusiasmo degli adolescenti e la forza di chi non si lascia abbattere dagli eventi, neanche da quelli più terribili, e non ha paura di zittire i malumori del nonno. Da Genova partono in direzione di Roma, a bordo di una Citroën DS Pallas decapottabile su cui sembra di volare. Sul sedile posteriore c'è Sid, l'enorme incrocio tra un San Bernardo e un Terranova - vera e propria calamità. Ed è così che un viaggio di sola andata si trasforma in un'avventura on the road, piena di deviazioni e ripensamenti, vecchi amori e nuove gioie. Perché è proprio quando credi di aver visto tutto che scopri quanto la vita riesca ancora a sorprenderti. L'ultima settimana di settembre è il racconto esilarante e commovente del viaggio di un nonno e un nipote alla ricerca di se stessi. È una storia che, senza giri di parole, scava nei sentimenti più profondi e ci porta di fronte alle emozioni più vere, quelle che richiedono una buona dose di coraggio per essere affrontate ma rimangono impresse indelebili dentro di noi.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
ISBN
9788858682319

1

Il 22 settembre 2008, giorno del mio ottantesimo compleanno, intorno alle sette di sera, scrivevo la lettera che annunciava il mio suicidio. Non la classica lettera d’addio melodrammatica, infarcita di “mi dispiace”, richieste di perdono o piagnistei di autocommiserazione, ma piuttosto un gioco, un regalo che facevo prima di tutto a me stesso (ammetto che a scriverla mi sono divertito), e in seconda battuta ai miei vecchi lettori, ammesso che venisse pubblicata da qualche parte. Vecchi lettori non solo perché erano secoli che non pubblicavo, ma anche perché, inevitabilmente, erano invecchiati con me. Diciamo che quella lettera poteva considerarsi l’ultima fatica letteraria di Pietro Rinaldi, scrittore (Milano 1928 – Genova 2008). E aggiungerei scrittore di un certo successo, almeno fino al definitivo ritiro avvenuto, già in pieno declino, nel 1990, con la pubblicazione del romanzo: Andate tutti affanculo. Lettori compresi quindi, come avevo spiegato in modo esaustivo nel celebre capitolo finale Tutti quelli che mi stanno sul cazzo, di cui i lettori, o meglio, certi tipi di lettori, erano nondimeno soltanto una goccia nell’oceano mare composto da tutti coloro a cui avevo dedicato il capitolo. Un flop.
Il titolo lo imposi io, l’editore non voleva, insistette fino allo sfinimento per farmelo cambiare, ma fui irremovibile, anche se, col senno di poi, forse non aveva tutti i torti. Cedetti solo per la copertina, sulla quale avrei voluto una foto o un disegno di una mano con il dito medio alzato. Per avere garanzia di riuscita nel flop (era il mio desiderio, neppure tanto inconscio, così mi avrebbe offerto la scusa per l’addio alle armi e nessuno mi avrebbe più chiesto di riabbracciarle) avevo fatto inserire nel contratto due interessanti postille: che non ci sarebbe stata nessuna promozione al libro che comportasse la mia presenza e che non avrei partecipato ad alcun premio letterario (del resto, con un titolo così, difficilmente avrei vinto lo Strega). Inoltre, misi bene in chiaro che non avevo la benché minima intenzione di sottopormi alla solita manfrina delle copie firmate e inviate ai critici letterari, alcuni dei quali, tra l’altro, erano citati con tanto di nome e cognome nella classifica del suddetto celebre capitolo. Come logica conseguenza, non uscirono molte recensioni, e quelle che uscirono furono micidiali stroncature. Naturalmente, giusto per restare in tema, nel celeberrimo capitolo finale erano citati anche gli scrittori, intesi vuoi come categoria dello spirito vuoi, in qualche caso, come singole individualità. Avevo acconsentito invece a che la casa editrice facesse pubblicità sui vari quotidiani, ma purtroppo, mi dissero dopo, nessun giornale accettò. Del resto, che «Repubblica» o il «Corriere della Sera», nel 1990, se ne uscissero in prima pagina con una finestra pubblicitaria dove era scritto “Andate tutti affanculo” era piuttosto improbabile.
Ecco la lettera.
Domani per me sarà l’ultimo giorno di vita: mi suicido. Non sono depresso, semplicemente mi sono stancato di vivere. Se ancora non mi sono deciso è per svariati e insignificanti motivi, uno dei quali, forse il più importante, è la pigrizia di organizzare il gesto, ma anche perché, non sia mai, non vorrei affrontare la fatica di rinascere. Troverei disdicevole l’idea di dover ricominciare tutto da capo. Non vorrei ritrovarmi un’altra volta a piangere perché mi è caduto il sonaglino. O a non essere preparato in matematica sapendo che mi interrogano il giorno dopo. O a struggermi nelle pene d’amore perché la mia fidanzatina mi ha lasciato e poi, dopo due anni, non ricordare neppure più il suo nome. Comunque alla fine vorrebbe dire sopportare il peso della vita per chissà quante volte e non me la sento, non sono pronto. Riesco a malapena a sopportarlo essendo me stesso, figuriamoci se dovessi addirittura reincarnarmi in un tizio che ancora deve nascere e che non conosco nemmeno, e che dovrebbe completare quello che ho lasciato in sospeso. Per esempio, io ho paura di volare, e allora probabilmente, se inseguirò con impegno il mio karma, in occasione della prossima rinascita vivrò una vita dove magari sarò un pilota di jumbo. Chissenefrega, non voglio fare il pilota di jumbo, né di qualsiasi altro mezzo che volerà nel futuro. E poi rinascere vuol dire invecchiare di nuovo e morire ancora. No, grazie. Io voglio invecchiare e morire una volta sola, e con la paura di volare. Morire e poi sparire, per sempre. Certo, è possibile che si nasca una volta sola, e che ci aspetti l’eternità. Se fosse così, suicidandomi, l’Inferno non me lo toglierebbe nessuno. Essendo la vita un Suo dono, pare che Dio sia spietato con chi lo rifiuta e ti spedisca dritto all’Inferno. Questo dicono di Lui. Permalosetto. Non è possibile. Dio non può essere permaloso. Però non è detto, del resto, se ha organizzato questa gigantesca scenografia, ha indubbiamente talento, ma allo stesso tempo si può tranquillamente escludere che sia un tipo normale, uno di cui ti aspetti quello che fa, come minimo vuol stupire e puntare all’Oscar. Se invece ragiona secondo i canoni classici del cristianesimo, è un problema. Metti che uno, non io, uno a caso, si suicidi e dopo un secondo si ritrovi davanti a Dio che gli dice: «Vai all’Inferno», non sarebbe una bella notizia. Immagino il dialogo:
«Ma come all’Inferno?».
«Te l’avevo detto, lo sapevi, uomo avvisato mezzo salvato, lo sapevi fin dai tempi del catechismo.»
«Ma dài, Dio, non è possibile.»
«Possibilissimo invece, sai quanti ne ho visti, soprattutto di sinistra… arrivano qui e si stupiscono. Io ti ho donato la vita e tu te la sei tolta, ora vai all’Inferno.»
«Ma no, ti prego…»
«Adesso mi preghi! Troppo tardi.»
«Ok, ragioniamo… Mi sono tolto la vita, va bene, ma a parte questo non mi pare di essere stato un gran peccatore.»
«A parte questo? Ti sei suicidato, ti sembra poco?»
«Ho capito che mi sono suicidato, però… Scusa eh, toglimi una curiosità, ma Pippo Pardieri che fine ha fatto?»
Dio ci pensa un attimo e poi dice: «Paradiso».
«Paradisoooo? Come è possibile! Ma se ne ha combinate di tutti i colori… tangenti, collusioni in odore di mafia, truffe alla povera gente e poi, non so se lo sai, ma s’è anche scopato mia moglie…»
«Lo so, ovvio che lo so! Ma sul letto di morte si è pentito.»
«Eh sì, va bene, sul letto di morte si sarà anche pentito, ma nel mio no, e poi scusa, di cosa si sarebbe pentito, di essersi scopato mia moglie?»
«Anche, il suo è stato un pentimento generale.»
«E vabbe’, ma allora vaffanculo, uno fa quel cazzo che gli pare e poi si pente…»
«Ehi! Calma eh, modera i termini…»
«E perché, se no cosa mi fai? Più che all’Inferno dove mi devi mandare?»
«C’è Inferno e Inferno.»
«Ma no, figurati… Dài, Dio, mi vuoi dire che ci sono i gironi come nella Divina Commedia
«No, Dante è un bluff, s’è inventato tutto, infatti l’ho sbattuto all’Inferno.»
«Hai sbattuto Dante all’Inferno perché ha scritto la Divina Commedia
«La Commedia non c’entra. Ci sono cose che non sai, questioni con Beatrice, e comunque noi siamo gli autori della Bibbia se permetti, e vendiamo molto di più di Dante, tra l’altro.»
«Noi chi? Plurale maiestatis
«No, ho detto “noi” perché l’abbiamo scritta a tre mani.»
«A tre mani?»
«Certo, mai sentito parlare di Santissima Trinità?»
«Ma dài… Dio… Hai scritto la Bibbia con Gesù e lo Spirito Santo? Non ci posso credere… l’Inferno… ma allora c’è anche Lucifero, le fiamme e tutte queste stronzate?»
«Chiamale stronzate.»
Magari senza le fiamme e Lucifero… basterebbe la Noia, o la Solitudine: l’Inferno potrebbe essere annoiarsi per l’eternità, da soli. Mille volte peggio di qualsiasi altra pena dantesca. Strano che il Sommo Poeta non ci abbia pensato, ma forse perché aveva troppa fantasia e per un castigo come questo ne occorre poca, di fantasia. Eppure immaginatevi un uomo solo, in una landa desolata, che non può andare da nessuna parte perché tutte le parti sono uguali, anzi sono la stessa, che non prova né fame né sete, né freddo né caldo, soltanto una immensa infinita Noia; non sarebbe mille volte peggio che sguazzare in fiumi di sangue o essere immersi nel fango puzzolente o inseguito da cagne feroci o scarnificato dalle arpie? Certo, spingere avanti e indietro massi giganteschi anche oltre il normale orario di lavoro, ad esempio, deve essere terribilmente faticoso, ma io, piuttosto che un’eterna e annoiata solitudine, scelgo di spingere per sempre. E in quel cerchio, il decimo, il più terribile di tutti, ci sbatterei gli uomini che si sono macchiati delle colpe più gravi, o che almeno io considero tali: la meschinità e l’ipocrisia.
Ma se anche l’Inferno esistesse, nessuno ti ci dovrebbe mandare perché hai avuto le palle di ucciderti, o perché non le hai per vivere, soprattutto se la vita l’ha creata lui. Non avrebbe senso, invece di scusarsi ti sbatte all’Inferno? Quindi posso suicidarmi tranquillo. E poi l’Inferno è già qui, quale mente potrebbe essere così diabolica da concepirne uno peggiore? Eppure la maggior parte delle persone è convinta che la vita sia bella. Lo dice perlomeno, lo sente dire e lo ripete. Si fa condizionare dal pensiero comune, finché non ci sbatte la testa contro, alla vita. Il tramonto, la meraviglia della natura, le emozioni… Tutte scemenze buone solo per poesie di basso livello. Quando la vita ti tocca duro, ed è la regola, non l’eccezione, te ne fotti della meraviglia della natura. Certo, ci sarebbe l’amore. Un inganno. È proprio l’amore a fotterti. Se vivi perdi le persone che ami, se muori loro perdono te. La vita è crudele, l’unica fortuna che hai è quella di accorgertene tardi e così, se proprio non sei un imbecille, riesci ogni tanto a essere felice. C’è chi se ne accorge subito, in realtà, basta nascere nel posto sbagliato o nel corpo sbagliato, difettoso, per dire. Tutti gli altri se ne accorgono da vecchi.
Mi suicido domani, perché poi non c’è più tempo. In realtà ci sarebbe, potrei uccidermi anche tra un mese, o tra due. Ma sapete quanti ne ho visti? Alla mia età, voglio dire. Li incontri per strada che stanno bene, per come si possa stare bene a ottant’anni ovviamente, ma camminano, trotterellano con il loro bel sacchetto della spesa o tengono al guinzaglio un mostruoso cagnolino o per mano la loro mostruosa mogliettina e se gli chiedi: «Come va?» ti rispondono: «Non c’è male, ringraziando Iddio». Ma Dio, che se ne fotte dei loro ringraziamenti, lascia che un mese dopo si rompano un femore e due mesi dopo siano dei paralitici su una sedia a rotelle, col catetere o il pannolone, alla mercé di una badante dell’Est (o della loro mogliettina, che è peggio). E allora provaci a suicidarti, che tra l’altro ne avresti ben donde, provaci se ci riesci. Non voglio correre questo rischio. E poi mi suicido domani mattina perché, già che ci sono, voglio vivere fino a ottant’anni, e però non mi va di suicidarmi proprio il giorno del mio compleanno. Questi che si suicidano durante le feste o il giorno del loro compleanno non li sopporto, toccano i vertici assoluti dell’autocommiserazione, che tra tutti i difetti degli uomini è quello che trovo più indegno. Anzi, per evitare che, giorno più giorno meno, qualcuno potesse pensarlo, avrei aspettato ancora una settimana, anche due, ma ieri mi ha telefonato mia figlia per invitarmi a pranzo e festeggiarmi. Non potevo dirle di no, ci tiene, e poi mi ha detto che, per l’occasione, vuole fare i ravioli. Gustarmi un buon piatto di ravioli, e mia figlia devo ammettere che li fa buonissimi, era un’idea stuzzicante che tuttavia comportava l’altra, insopportabile, di dovermi sorbire per tutto il pranzo quel saputello di mio genero, uno che spara sentenze in continuazione, per lo più frutto del condizionamento mediatico, con l’aria di chi sta dicendo una novità, e tutto questo almeno per due ore (quindi per più del tempo necessario per mangiare i ravioli). Tutto ciò mi ha fatto decidere di anticipare la partenza, ma intanto la bella figura di aver detto di sì a mia figlia ormai l’avevo fatta. Quindi all’ora di pranzo sarò morto, conto di suicidarmi subito dopo colazione (prima vado al bar sotto casa per l’ultimo cappuccino con l’ultima brioche alla crema della mia vita). Mi dispiace solo non poter vedere la faccia di quel presuntuoso di mio genero quando mi troverà (ma chissà, forse svolazzerò fuori dal corpo e la vedrò). Immagino la scena. Roberta, non vedendomi arrivare, mi telefonerà a casa, visto che l’ultimo cellulare l’ho buttato via già da tre anni. Essendo io in coma e vivendo da solo (sono vedovo, mia moglie Sara è morta sette anni fa) non risponderà nessuno, con ansia crescente aspetterà ancora un po’ e poi verso l’una inizierà a preoccuparsi per davvero, e allora spedirà mio genero a vedere cosa è successo. Mio genero, scocciatissimo e affamato (e io ci godo), si metterà in macchina e verrà a casa mia. Suonerà, aprirà la porta con le chiavi di riserva, mi chiamerà due o tre volte e poi finalmente mi troverà morto stecchito. Non credo che si strapperà i capelli dal dolore, perché l’antipatia è reciproca, l’unico sottile inconfessabile dispiacere che proverà sarà quello di dover rinunciare ai ravioli. Ma sicuramente li mangerà la sera, dirà a Roberta affranta: «Cosa dici? Preparo qualcosa per Diego?» (mio nipote che non vedo mai). «Avrà fame ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Capitolo 1
  4. Capitolo 2
  5. Capitolo 3
  6. Capitolo 4
  7. Capitolo 5
  8. Capitolo 6
  9. Capitolo 7
  10. Capitolo 8
  11. Capitolo 9
  12. Capitolo 10
  13. Capitolo 11
  14. Capitolo 12
  15. Capitolo 13
  16. Capitolo 14
  17. Capitolo 15
  18. Capitolo 16
  19. Capitolo 17
  20. Capitolo 18
  21. Capitolo 19
  22. Capitolo 20
  23. Capitolo 21
  24. Capitolo 22
  25. Sette Anni Dopo
  26. Indice