La bellezza disarmata
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La bellezza disarmata

  1. 360 pagine
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La bellezza disarmata

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Informazioni sul libro

Il vantaggio di ogni crisi, come quella che sta attraversando attualmente la società, è che «costringe a tornare alle domande; esige da noi risposte nuove o vecchie, purché scaturite da un esame diretto» (Hannah Arendt). È un invito ad aprirsi agli altri e a non irrigidirsi sulle proprie posizioni. È un'occasione di incontro e una circostanza preziosa anche per i cristiani, chiamati a verificare la capacità della fede di reggere davanti alle nuove sfide, chiamati a entrare senza timore in un dialogo a tutto campo nello spazio pubblico. La bellezza disarmata propone gli elementi essenziali della riflessione svolta da don Julián Carrón a partire dal 2005, anno della sua elezione a presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione dopo la scomparsa del fondatore, il Servo di Dio don Luigi Giussani, che nel 2004 lo aveva chiamato dalla Spagna per condividere con lui la responsabilità di guida del movimento. Gli scritti, nati in occasioni diverse, sono stati ampiamente rielaborati e ordinati dall'Autore allo scopo di fornire organicamente i fattori di un percorso decennale, lungo il quale egli ha approfondito il contenuto della proposta cristiana nel solco di don Giussani, alla luce del magistero pontificio e in paragone col travaglio e le urgenze dell'uomo contemporaneo. Il volume intende offrire il contributo di una esperienza di vita a chiunque sia alla ricerca di ragioni adeguate per vivere e costruire spazi di libertà e di convivenza in una società pluralistica.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
ISBN
9788858682463

Seconda parte
Un avvenimento per rinascere

5

Il cristianesimo davanti alle sfide del presente

«Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?»1 Questa frase di Dostoevskij identifica la sfida davanti alla quale si trova la fede in Gesù Cristo oggi. Essa non è generica, non pone il problema se sia possibile in assoluto la fede in Cristo. L’aspetto decisivo della domanda dello scrittore russo sta nel suo riferirsi a un contesto preciso: l’Europa contemporanea. E ha come destinatario un tipo concreto di uomo: un europeo colto, formato, che non rinuncia a esercitare la sua ragione con tutte le sue richieste, che mette in gioco tutta la sua esigenza di libertà, tutta la sua potenzialità affettiva, ossia un uomo che non rinuncia a nulla della sua umanità. Per un tipo umano con simili caratteristiche, è possibile credere in Gesù Cristo? «Credere proprio» insiste Dostoevskij, come volendo sottolineare che si tratta di una fede veramente all’altezza della natura e delle esigenze della ragione.
L’insistenza di Dostoevskij sulle circostanze nelle quali – da oltre un secolo! – siamo chiamati a vivere la fede mostra sino a che punto egli le consideri, e a giusto titolo, decisive. Infatti, «le circostanze per cui Dio ci fa passare sono fattore essenziale e non secondario della nostra vocazione, della missione a cui ci chiama. Se il cristianesimo è annuncio del fatto che il Mistero si è incarnato in un uomo, la circostanza in cui uno prende posizione su questo, di fronte a tutto il mondo, è importante per il definirsi stesso della testimonianza».2
Conosciamo bene le circostanze nelle quali noi cristiani ci troviamo a vivere la fede oggi. Se ne possono sintetizzare le caratteristiche nella constatazione che viviamo in un mondo pluralista, nel quale il cristianesimo – e la concezione dell’uomo e della vita che da esso deriva – è diventato una opzione fra le altre. Siamo chiamati a vivere la fede senza un contesto che ci protegga; non solo senza privilegi, ma addirittura talvolta perseguitati. Sempre più sovente assume forma legislativa una antropologia del tutto opposta a quella che noi riconosciamo come più umana e che fino a non molto tempo fa era condivisa naturalmente da tutti, anche da quanti non avevano la fede cristiana.
Possiamo vivere questa nuova situazione con rabbia, perché il corso degli eventi va in una direzione che non condividiamo, oppure accettare la sfida che pone, perché non ci consente di dare per scontato il persistere oggi di ciò che in passato era patrimonio comune, e ci chiama a mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita personale e sociale. Di fronte a questa sfida senza precedenti, non sorprende che nascano fra gli stessi cristiani differenti interpretazioni riguardo al modo di affrontarla. Si va da coloro che si ritirano nel proprio guscio, rinunciando a testimoniare la rilevanza pubblica della fede, a quanti credono che l’unico modo di difendere i valori cristiani sia assumere una posizione di reazione, senza preoccuparsi di dare ragione della loro positività nel contesto di pluralismo culturale nel quale viviamo.
Tutti vediamo l’inadeguatezza di questi atteggiamenti. Ma per liberarsi da essi non basta manifestare il proposito di uscirne o nutrire il desiderio di non soccombervi. Per poterli superare abbiamo bisogno di scoprire un modo di vivere la fede, dentro questa realtà sociale e culturale pluralista, tale che gli altri possano percepire la nostra presenza non come qualcosa da cui difendersi, ma come un contributo al bene proprio e comune. Occorre un modo di essere presenti in cui non vi sia alcuna volontà di imposizione, di sopraffazione, e al tempo stesso non vi sia alcuna rinuncia a vivere la fede nella realtà, affinché si documenti tutta la convenienza umana della adesione a Cristo.
La dimensione della sfida ci è stata indicata anni fa da Giovanni Paolo II: «Tanti europei contemporanei pensano di sapere che cos’è il cristianesimo, ma non lo conoscono realmente […] Molti battezzati vivono come se Cristo non esistesse […]. Alle grandi certezze della fede è subentrato in molti un sentimento religioso vago e poco impegnativo […] “Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8)».3 Che la situazione non sia cambiata negli anni successivi è confermato da Benedetto XVI: «Spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia, ciò che purtroppo è sempre meno realista. Si è messa una fiducia forse eccessiva nelle strutture e nei programmi ecclesiali, nella distribuzione di poteri e funzioni; ma cosa accadrà se il sale diventa insipido?».4 In molti casi non si può parlare di una mancanza di fede o di un suo rifiuto esplicito, quanto piuttosto di una fede ridotta, vissuta più come abitudine o pratica devozionale, in cui è data per scontata l’esistenza della fede stessa, che come scelta libera e ragionevole. Lo si vede dal fatto che essa non resiste di fronte alle scosse della realtà presente, come dimostra il numero di quanti la abbandonano oppure la vivono con indifferenza o disinteresse.
Ciò rende sempre più evidente l’urgenza di una educazione alla fede che ne mostri la pertinenza alle esigenze della vita, così che essa divenga capace di resistere all’urto delle circostanze avverse. Lo affermava già la Gaudium et Spes, a metà degli anni Sessanta: «Quanto al rimedio all’ateismo, lo si deve attendere sia dall’esposizione adeguata della dottrina della Chiesa, sia dalla purezza della vita di essa e dei suoi membri. […] Ciò si otterrà anzi tutto con la testimonianza di una fede viva e adulta, vale a dire opportunamente formata a riconoscere in maniera lucida le difficoltà e capace di superarle».5
La domanda di Dostoevskij mantiene dunque tutta la sua gravità ai nostri occhi. In questa situazione, la fede ha qualche possibilità di affascinare, di attrarre e di essere abbracciata dagli uomini del nostro tempo? In una conferenza tenuta nel 1996, l’allora cardinale Ratzinger rispondeva a questa domanda affermando che la fede può ancora far breccia ed essere accolta «perché essa trova corrispondenza nella natura dell’uomo. […] Nell’uomo vi è un’inestinguibile aspirazione nostalgica verso l’infinito».6 Con ciò egli indicava allo stesso tempo la condizione necessaria di una esperienza di tale corrispondenza: per poter mostrare tutto il suo potenziale, tutta la sua verità, il cristianesimo ha bisogno di incontrare l’umano – l’inestinguibile aspirazione – che vibra in ciascuno di noi. Proprio per questo don Giussani sottolinea con forza che «non sarebbe possibile rendersi conto pienamente di che cosa voglia dire Gesù Cristo se prima non ci si rendesse ben conto della natura di quel dinamismo che rende uomo l’uomo. Cristo infatti si pone come risposta a ciò che sono “io” e solo una presa di coscienza attenta e anche tenera e appassionata di me stesso mi può spalancare e disporre a riconoscere, ad ammirare, a ringraziare, a vivere Cristo. Senza questa coscienza anche quello di Gesù Cristo diviene un puro nome».7

Il desiderio costitutivo del nostro cuore

Sant’Agostino ha mirabilmente identificato le esigenze inestirpabili dell’uomo nella sua famosa frase sull’inquietudine: «Ci hai creato, Signore, per Te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te».8 La percezione di questo desiderio costitutivo del cuore, che da sempre spinge gli uomini a cercare la pienezza del proprio essere, ha sofferto l’influenza delle vicende storiche: oggi vediamo drasticamente ridotta la capacità di adesione a se stessi e alla realtà. Quanto più osserviamo le vicende dei nostri giorni, tanto più evidente appare l’efficacia di una immagine con cui don Giussani, negli anni Ottanta, descriveva profeticamente la situazione in cui si trova l’uomo oggi: «È come se i giovani di oggi fossero tutti stati investiti […] dalle radiazioni di Chernobyl: l’organismo, strutturalmente, è come prima, ma dinamicamente non è più lo stesso. […] Si rimane […] astratti nel rapporto con se stessi, come affettivamente scarichi (senza l’energia affettiva per aderire alla realtà), come pile che invece che durare sei ore durano sei minuti».9 Da allora, diversi autori di ogni tendenza ideologica, con toni e sfumature più o meno felici, hanno descritto questo dramma umano che, nei giovani, emerge con particolare evidenza.
In un articolo dedicato alle giovani generazioni apparso su la Repubblica, lo scrittore Pietro Citati affermava: «Un tempo, si diventava adulti prestissimo. […] [Oggi c’è una continua corsa verso l’immaturità. Una volta] A tutti i costi, un ragazzo diventava maturo. […] Conquistare la maturità era una rinuncia: la rinuncia. Di colpo, con un gesto ascetico, il ragazzo si lasciava alle spalle tutti i sogni […]. [Oggi, i giovani] non sanno chi sono. Forse non vogliono saperlo: si chiedono sempre quale sia il loro io, […] amano […] l’indecisione! Non dire mai sì e mai no: sostare sempre davanti a una soglia che, forse, non si aprirà mai. […] Non hanno volontà: non desiderano agire […]. Preferiscono restare passivi […]. Vivono avvolti in un misterioso torpore. Non amano il tempo. L’unico loro tempo è una serie di attimi, che non vengono legati in una catena o organizzati in una storia».10
Questo articolo provocò la risposta di Eugenio Scalfari, fondatore de la Repubblica ed esponente tra i più autorevoli di quella che potremmo definire la sinistra progressista: «La ferita è stata la noia, l’invincibile noia, la noia esistenziale che ha ucciso il tempo e la storia, le passioni e le speranze. Io non li vedo dolci i loro occhi. Non vedo quella profonda melanconia che c’è nei giovani volti del Rinascimento dipinti dal Lotto e dal Tiziano. […] Io vedo occhi stupefatti, estatici, storditi, fuggitivi, avidi senza desiderio, cupidi senza cupidigie, solitari in mezzo alla folla che li contiene. Io vedo occhi disperati […] eterni bambini, […] una generazione disperata […] che avanza […]. Cercano di uscire da quel vuoto di plastica che li circonda e li soffoca. La loro salvezza sta soltanto nei loro cuori. Noi possiamo soltanto guardarli con amore e trepidazione».11 Chi avrebbe potuto immaginare che la lunga parabola che, dall’Umanesimo e dal Rinascimento – nati con l’intenzione di affermare l’umano –, ci ha condotti sin qui sarebbe sfociata in questo letargo e in questa noia esistenziali?
Augusto Del Noce ha suggestivamente identificato, in rapporto all’inquietudine agostiniana, la cifra del nichilismo che caratterizza il nostro tempo: «Il nichilismo oggi corrente è il nichilismo gaio, [nel senso che] è senza inquietudine (forse si potrebbe definirlo per la soppressione dell’inquietum cor meum agostiniano)».12 A questo si intreccia ciò che Benedetto XVI ha indicato con la parola «relativismo», cioè quella posizione umana e culturale per cui tutto si equivale e non esiste verità: tutto è relativo, opinabile, niente può essere considerato più o meno vero di altro, ogni opzione è indifferente. Questo disinteresse omologante non risparmia, ovviamente, nemmeno la fede cristiana. Più si soffoca il pungolo del desiderio e dell’inquietudine, più si offusca infatti la capac...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Prefazione - Javier Prades
  5. PRIMA PARTE - IL CONTESTO E LE SFIDE
  6. SECONDA PARTE - UN AVVENIMENTO PER RINASCERE
  7. TERZA PARTE - EMERGENZA EDUCATIVA
  8. QUARTA PARTE - UN PROTAGONISTA NUOVO SULLA SCENA DEL MONDO
  9. CONCLUSIONE
  10. Fonti