Un paese nel fango
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Un paese nel fango

Frane, alluvioni e altri disastri annunciati. I fatti, i colpevoli, i rimedi

  1. 242 pagine
  2. Italian
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Un paese nel fango

Frane, alluvioni e altri disastri annunciati. I fatti, i colpevoli, i rimedi

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Il nostro Paese è tra i primi al mondo per perdite di vite umane e danni economici a seguito di catastrofi naturali. Questa verità atroce è figlia di un calcolo brutale: 200 mila morti dall'Unità d'Italia a oggi sotto le macerie dei terremoti o nel fango delle alluvioni, e 7 miliardi circa di spesa all'anno, dal dopoguerra, per risarcimenti e ricostruzioni. Le colpe sono assai più vicine di quanto si pensi e i colpevoli hanno un nome e un cognome. Anni di cemento a presa rapida sulle coste e ai piedi delle montagne, di sviste, di condoni e normative suicide. A cui è seguito uno stato di perenne emergenza, con deroghe alle leggi e poteri straordinari, facilmente trasformatisi nei luoghi ideali per il prosperare di criminalità e malaffare. Ma le frane e le alluvioni hanno a che fare anche con il dissesto atmosferico. In sole tre generazioni, nell'ultimo secolo e mezzo, la manomissione dell'ambiente ha accelerato il ritmo delle modifiche climatiche. Così, in un tempo biologico infinitamente piccolo, l'homo sapiens si è rivelato l'inquilino più disastroso del condominio terrestre. Creando danni economici impressionanti, tanto che ormai anche i board delle multinazionali, i fondi di investimento e le agenzie di rating suonano l'allarme, come ecologisti della prima ora. Erasmo D'Angelis ricostruisce il filo di queste colpe, che sono della politica, dell'imprenditoria e dei cittadini. Ma propone anche un programma per portare il nostro Paese, e la sua fragile bellezza, fuori dall'emergenza. Perché qualcosa si è cominciato a fare e molto si può ancora fare. Perché, come scrive Matteo Renzi nella prefazione, "nella storia di un grande Paese arriva un momento in cui si guarda in faccia la realtà, si fa tesoro degli errori del passato, errori di tutti, e si scrive la pagina del futuro. Arriva un momento in cui si mettono da parte le polemiche e ci si infila gli stivali di gomma per spalare il fango. Per la politica, a ogni livello, sono finiti i margini per bluffare. Non è più il caso".

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
ISBN
9788858682661
Categoria
Sociologia

1

I rischi naturali: danni e vittime come in guerra

«Un tempo per la meraviglia alzavamo
al cielo lo sguardo sentendoci parte
del firmamento, ora invece lo abbassiamo
preoccupati di far parte del mare di fango.»
Christopher Nolan, Interstellar

Spoon River

La prima atroce verità è che l’Italia svetta tra le posizioni più alte nella graduatoria mondiale per le perdite di vite umane e per i danni economici dovuti a calamità naturali. Il conto aggiornato, che comprende i settant’anni tra il 1945 e il 2015, vede 4419 località distribuite in 2458 comuni, 110 province in tutte le 20 regioni colpite da eventi geo-idrologici con frane e inondazioni, che hanno causato finora 5455 morti, 98 dispersi, 3912 feriti e 752.000 sfollati. Nel solo annus horribilis 2014, queste catastrofi si sono verificate in 220 comuni di 19 regioni, provocando 33 morti, 46 feriti e 10.000 sfollati, accumulando circa 4 miliardi di euro di danni sia pubblici sia privati. L’analisi delle serie storiche di frane e alluvioni descritta nello studio Societal landslide and flood risk in Italy rileva che dal 1950 al 2008 i 967 eventi franosi e i 613 di natura alluvionale con danni alla popolazione hanno determinato in media per ogni frana e alluvione rispettivamente 6,3 e 4,4 casualties (morti, feriti e dispersi).
Se a questo carico disumano aggiungiamo i danni dei terremoti e delle altre tipologie di calamità, le cifre schizzano alle stelle. I due storici dei disastri, Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, calcolano la brutalità di 200.000 morti dall’Unità d’Italia a oggi, per l’intera gamma delle catastrofi di origine naturale.
La nostra storia sismica è, da sola, un’altra lunga scia rosso sangue, esempio lampante di una popolazione condannata all’attesa della scossa successiva e caratterizzata da un’irritante presunzione di invincibilità. Sono noti ben 4800 crolli e ricostruzioni post-sismiche dal Medioevo a oggi, fra cui quelli di 40 città dai 30.000 al milione di abitanti, più volte distrutte e più volte risorte senza alcun criterio. Dal 1860 abbiamo subìto in media un disastro sismico ogni 4-5 anni, e i 43 terremoti più importanti hanno causato oltre 164.000 vittime, cifra calcolata per difetto, considerata l’inaffidabilità dell’anagrafe italiana fino ai primi decenni del Novecento. Una media impressionante di oltre 1000 morti l’anno. In 150.000 sono rimasti sotto le macerie di soli due terremoti dei primi anni del secolo scorso: quello del 1908 tra Messina e Reggio Calabria (120.000) e quello sulle montagne abruzzesi di Avezzano del 1915 (30.000). Dal 1950, i 15 terremoti più importanti hanno fatto contare 4665 morti, in media 72 ogni anno, con milioni di feriti e invalidi.

Ma quanto ci costa la catastrofe?

Tra i numeri delle catastrofi e le cifre della finanza il passo è, ahimè, più breve di quello che si immagina, e i lamenti dei lupi e degli agnelli di Wall Street o dei trader che orchestrano i movimenti sulle valute dei più grandi centri d’affari del mondo sono tra i primi a farsi sentire. I board delle multinazionali e dei fondi di investimento, o le agenzie di rating come Standard & Poor’s, sembrano ecologisti della prima ora. Perché quando si parla del portafoglio e, più in grande, dei possibili scenari di ripetuti crack finanziari per milioni di azionisti e consumatori, non c’è più spazio per il negazionismo, nemmeno per quello del cambiamento climatico che si è scoperto essere tanto caro ai petrolieri. I giganti assicurativi come Munich Re e Swiss Re girano e rigirano i costi miliardari da catastrofe e chiedono ai governi di alzare la guardia contro i pericoli del climate change. Se tra il 1970 e il 1989 risarcivano in media 5 miliardi di dollari l’anno, oggi ne scuciono quasi 30 per eventi climatico-dipendenti in aree sempre più urbanizzate e con infrastrutture sempre più complesse e costose.
Investitori avvisati, mezzi salvati, provò a dire dieci anni fa l’economista Sir Nicholas Stern, già responsabile finanziario della Banca Mondiale che, con aplomb inglese, seminò un bel po’ di panico con il suo report The Economics of Climate Change, dimostrando ai signori della finanza che se i mutamenti climatici non verranno arginati costeranno così tanto da mettere in ginocchio l’economia mondiale. Oggi, a diciotto anni dal Protocollo di Kyoto e con l’andirivieni da un summit planetario fallito all’altro, a chiedere alla politica e all’economia globale di guardare al problema del clima come alla più grande sfida per l’umanità del XXI secolo è l’Intergovernmental Panel on Climate Change, un’organizzazione scientifica dell’Onu che ha da poco quantificato l’impatto delle catastrofi future in oltre mille miliardi di dollari. Nel 1980 il costo ammontava a 50 miliardi l’anno, oggi è di 200.
Le catastrofi naturali, nella nostra vicenda nazionale, sono da sempre un duro colpo al cuore finanziario dello Stato e al portafoglio di milioni di famiglie italiane. La valutazione biecamente monetaria, basata sui parametri statistici utilizzati nelle stime del valore di una vita umana perduta e del periodo medio di malattia per i feriti, quantifica il danno in almeno 1,5 miliardi di euro ogni anno. E i geologi Gianluigi Giannella e Tiziana Guida, in collaborazione con il Cresme (Centro ricerche economiche sociali di mercato per l’edilizia e il territorio), ricostruendo i costi del dissesto idrogeologico dal 1944 a oggi, hanno calcolato un valore dei danni annuali che si aggira intorno a 1,2 miliardi. Una montagna di soldi spesi con una sola e finora inderogabile logica, quella emergenziale, attraverso un elenco sterminato di decreti per «interventi urgenti a seguito di eccezionali eventi “meteorologici” o “situazioni di grave criticità e grave stato di dissesto idrogeologico”», con stanziamenti e mutui miliardari contratti per far fronte alle spese per l’assistenza agli sfollati, ai risarcimenti per le attività produttive danneggiate e ai cittadini colpiti, al ripristino dei servizi di pubblica utilità, e alla riparazione di strade e ferrovie, ponti e viadotti, acquedotti e altre infrastrutture devastate.
La montagna fatta di vecchie lire e poi di euro, emerge dallo screening realizzato dall’economista Rita Cellerino, esperta di analisi benefici/costi nella gestione del rischio idrogeologico, che ha analizzato i bilanci del ministero dei Lavori pubblici dal 1956 al 2000, più trent’anni di bilanci regionali e le richieste di risarcimento inviate alle prefetture per tutte le alluvioni dal 1957 al 2000. Scopriamo così quanto è stata monumentale e unidirezionale, irrazionale e disorganizzata la contabilità pubblica, che ha visto un incremento vertiginoso e continuo della spesa annua senza che questa fosse però controbilanciata da azioni tese alla riduzione del rischio, anzi in moltissimi casi rilevandone la crescita. Complessivamente il ministero dei Lavori pubblici ha erogato, infatti, circa 16,6 miliardi di euro in 45 anni, e le regioni – dalla loro istituzione al 2000 – 31,6 miliardi di euro. Cifre che non tengono conto delle somme per fronteggiare le urgenze e i ripristini stanziati via via dalla protezione civile, né dei risarcimenti e degli indennizzi. Vanno aggiunti, dal 2002, gli aiuti del Fondo di solidarietà dell’Unione europea per le calamità naturali in 63 occasioni: sul totale di 3,7 miliardi di euro stanziati, tra tutti i Paesi richiedenti, l’Italia ha ricevuto il contributo più alto, esattamente 1,262 miliardi. Ogni post-emergenza ha aperto un flusso di cassa dalla Ragioneria dello Stato. La protezione civile ha versato, fino al 2011, una media di 1,188 miliardi l’anno di prestiti a lungo termine per farvi fronte, e questa spesa è oggi direttamente a carico del ministero dell’Economia e delle finanze.
La stima dei danni subiti negli ultimi quarant’anni a causa dei terremoti porta alla colossale cifra di ben 147 miliardi di euro (prezzi 2015), impiegati solo nelle ricostruzioni post-eventi. Si tratta di un esborso medio annuo pari a 3,672 miliardi di euro, senza considerare che un sisma, soprattutto se è ad alta intensità, innesca modifiche anche radicali alla dinamica delle falde acquifere, delle sorgenti, a volte dei corsi d’acqua, e provoca danni diffusi alla rete dei trasporti e alla solidità statica dei ponti, alle opere idrauliche, agli impianti idrovori e ai sistemi irrigui, alle arginature e canalizzazioni di scolo, lasciando intere zone a rischio piena e creando problemi di fornitura di acqua. Vanno aggiunte le conseguenze, non traducibili in valore economico, sul patrimonio storico, artistico e monumentale. Un pozzo senza fondo. Gli economisti ci dicono che i fiumi di denaro versati finora dallo Stato attraverso i ministeri, le tesorerie comunali, provinciali, regionali, i consorzi di bonifica, le aziende di servizi pubblici e le donazioni private, e gli ulteriori costi per i danni e i disagi alle famiglie a fronte dei gap infrastrutturali e dei servizi, e per le perdite delle attività produttive private, superano la cifra attendibile di 7 miliardi l’anno dal dopoguerra a oggi.
Stando così le cose, ci si chiede allora se non sarebbe bastato questo semplice calcolo di natura economica per farci invertire in fretta la rotta e ridurre il dissesto dei suoli e l’accumulo di debito futuro. Come mai un concetto tanto elementare ha sempre faticato a entrare nella testa della politica e degli italiani? Anche in una visione strettamente ragionieristica, sarebbe stato salutare per le casse dello Stato e l’occupazione investire in prevenzione. Quante vite, strazi, rovine, vergogna ci saremmo risparmiati? Il suicidio del buonsenso è in questo esborso finanziario perenne e fuori controllo, pompato per il rattoppo continuo degli sfregi al territorio senza mai essere riusciti a definire una strategia per evitare di rimanere così esposti ai pericoli.
Poi però si scopre anche che aver lasciato fare agli eventi, aver puntato sempre e solo su interventi palliativi e risarcimenti a cascata, in fondo, è stata la strategia cinica che ha trasformato lo Stato in un burocratico ente pagatore e ci ha catapultati nella top ten dei gabellieri, aggiornando lo schema medievale delle signorie che, dopo ogni catastrofe, appioppavano una nuova imposta: «Una piena? Un fiorino!». Il costo delle emergenze è stato posto a carico di noi cittadini con nuove tasse occultate con cura, per esempio con l’avvento della motorizzazione in ogni litro di carburante. Tecnicamente si chiamano «accise», scaricate sull’acquisto di benzina o diesel dal 1935, e da decenni rimaste lì anche a emergenza conclusa. Ecco quel che paghiamo al distributore per ogni litro di benzina: 0,005 euro per il disastro del Vajont del 1963; 0,005 euro per l’alluvione di Firenze del 1966; 0,005 euro per il terremoto del Belice del 1968; 0,051 euro per il terremoto del Friuli del 1976; 0,039 euro per il terremoto dell’Irpinia del 1980; 0,020 euro per il terremoto in Emilia-Romagna del 2012. Ma paghiamo ancora la guerra di Abissinia del 1935, la crisi di Suez del 1956, le missioni militari in Libano del 1982 e in Bosnia del 1996 e il contratto degli autoferrotranvieri del 2004.
E più aumentava la spesa emergenziale, più calava l’investimento in difesa del suolo e la capacità di spesa sul territorio. Dai 190 milioni di euro l’anno previsti dalle manovre finanziarie degli inizi degli anni Novanta, saliti a 400 alla fine del Novecento, si è poi scesi a 300 nei primi del Duemila e poi sempre più in basso scivolando con la Legge di Stabilità del 2013 fino ai 30 miseri milioni per il 2014, ai 50 per il 2015 e ai 100 previsti per il 2016.
Dalla verifica effettuata da #italiasicura – la Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico istituita a Palazzo Chigi all’inizio del 2014 – sugli ultimi quindici anni di investimenti pubblici per contrastare il dissesto, emerge la cifra complessiva di 6,5 miliardi di euro circa impegnati con fondi nazionali ed europei, assegnati dallo Stato a soggetti attuatori come regioni, province o comuni. Fanno all’incirca 430 milioni in media ogni anno. Li avessero almeno spesi! Di questi, infatti, al 1º giugno 2014 solo poco più della metà risultava realmente trasformata in cantieri aperti. Il resto era ancora nei labirinti della burocrazia o fermo per disinteresse e sciatteria.
Questa già ridottissima spesa, doveva essere finalizzata per l’80% a interventi «convenzionali» nei quali rientravano anche operazioni oggi vietate come il tombamento dei corsi d’acqua e le arginature in cemento, qualche canale scolmatore, casse di espansione, rialzi di spallette. Il 17% doveva essere impiegato in «manutenzioni straordinarie», poco più del 2% nelle «riqualificazioni ambientali» e appena lo 0,3% nelle «delocalizzazioni di beni esposti». Ma solo in pochissimi casi queste risorse hanno dato i risultati attesi. La storia dei cinquant’anni di fondi inviati da Roma – rilevano due organizzazioni non governative a forte impronta tecnico-scientifico, il Gruppo 183 e il Centro italiano per la riqualificazione fluviale – ha visto spesso la realizzazione di interventi controproducenti che hanno aggiunto altri danni, diffondendo una falsa sensazione di sicurezza e legittimando addirittura lottizzazioni in zone a rischio. Nel bacino del Po, per esempio, basta analizzare le richieste di indennizzo dopo piene e allagamenti, passate dai pochi milioni di euro per i danni accertati del 1957 agli oltre 3 miliardi del post-alluvione del 1994 e ad altri miliardi inviati per risarcire e risanare la devastazione dell’alluvione del 2000 per un totale di oltre 7,6 miliardi di euro erogati. È significativo anche il caso del bacino del Tanaro dove, tra il 1957 e il 1994, a fronte di una spesa complessiva per l’assetto idraulico di quasi 490 milioni di euro (39% per difese arginali, 32% per sistemazione idraulica, 2% per manutenzione e 27% per ripristini di argini e lavori in alveo), c’è stata una vera esplosione dei danni conseguenti alle alluvioni. Dopo la piena del 1994, tra indennizzi ai privati per la devastazione di abitazioni, automezzi e unità produttive, ripristini di opere pubbliche e rendite vitalizie corrisposte agli eredi delle vittime, la spesa è passata da meno di 10 milioni di euro nel 1957 a quasi 250 nel 1977 per gonfiarsi a oltre 2,2 miliardi nel 1994 e altrettanti nel 2000.

Dissesto atmosferico. A qualcuno piace caldo?

L’accelerazione degli eventi e dei danni è strettamente collegata all’accelerazione del dissesto atmosferico. Ed è tutta racchiusa nella banalità della frase attribuita a milioni di italiani: «Le stagioni non sono più quelle di una volta». La verità sta piovendo dal cielo, e il cielo sopra l’Italia, in pochissimo tempo, può scaricare su un’area ristretta una quantità di pioggia a carattere «esplosivo» che poteva cadere in mesi o addirittura in un anno intero. Le chiamiamo «bombe d’acqua» per la loro capacità di provocare disastri, e sono figlie legittime di una meteorologia estremamente variabile. Colpivano con violenza anche in passato. Il 5 dicembre del 1288 ne fu testimone e cronista eccellente Dante Alighieri, impressionato dalla violenza dell’alluvione del suo Arno, che nel Canto V del Purgatorio raccontò con questi versi: «Indi la valle, come ’l dì fu spento, / Da Pratomagno al gran giogo coperse / Di nebbia, e ’l ciel di sopra fece intento / Sì, che ’l pregno aere in acqua si converse: / La pioggia cadde, e ai fossati venne / Di lei ciò, che la terra non sofferse: / E come ai rivi grandi si convenne, / Ver lo fiume real tanto veloce / Si ruinò, che nulla la ritenne».
Il dato che sfugge al controllo e più lascia basiti, però, è l’aumento delle flash floods, le alluvioni lampo imprevedibili e concentrate nel tempo e nello spazio. Ed è anche la moltiplicazione negli ultimi anni di nubifragi e piogge torrenziali, violenti grandinate e cicloni extratropicali, temporali autorigeneranti, uragani mediterranei o medicanes, ultimo neologismo scientifico che unisce i due termini. Fenomeni che la comunità scientifica e il senso comune definivano «eccezionali» quando ancora rappresentavano il limite dell’orizzonte temuto, e la meteorologia ne registrava in Italia un paio ogni 10-15 anni fino all’ultimo decennio del Novecento, per poi passare a 4-5 l’anno e dal Duemila al 2006 a un centinaio, e da allora la volata verso i 351 eventi con danni nel 2013, gli oltre 400 nel 2014 e le numerose emergenze del 2015. L’escalation non concede più a nessuno di ignorare che i danni e le vittime sono direttamente proporzionali allo stato di tenuta del territorio e al dissesto idrogeologico.
Se oggi siamo vittime di questa esplosiva condizione meteorologica, è anche perché abbiamo premuto troppo sull’acceleratore del riscaldamento globale e inserito il freno a mano sulle difese strutturali. Il fatto è che l’equilibrio dell’atmosfera è andato in tilt in appena 150 anni di storia dell’uomo, un intervallo trascurabilissimo rispetto alla storia biologica del pianeta, un flash, un infinitesimo matematico. Le generazioni che hanno fatto l’ultimo secolo e mezzo di storia industriale hanno partecipato alla man...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Copyright
  3. Prefazione di Matteo Renzi
  4. 1. I rischi naturali: danni e vittime come in guerra
  5. 2. L’assalto alla Grande Bellezza
  6. 3. Prequel. Le generazioni senza colpa
  7. 4. Il fango della politica
  8. 5. Stato terremotato
  9. 6. Sorella acqua
  10. 7. Come nasce un piano nazionale di prevenzione
  11. 8. Missione #Terraferma
  12. Conclusioni. La parola «ecologia»
  13. Ringraziamenti
  14. Indice