Il libraio di Kabul
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Il libraio di Kabul

  1. 336 pagine
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Il libraio di Kabul

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Informazioni sul libro

Novembre 2001. Åsne Seierstad entra a Kabul e nella vita di Sultan Khan, il libraio che ha pagato con il carcere lo scontro per la dignità della sua nazione. La giovane reporter norvegese diventa per quasi un anno "la figlia bionda" di Sultan, ospite nella sua casa e testimone di amori proibiti, crimini, punizioni, ribellioni giovanili e ingiustizie che segnano la vita quotidiana della famiglia Khan, divisa tra l'onore e le umiliazioni subite, soprattutto dalle donne, sotto il regime talebano. Il libraio di Kabul è il resoconto di quell'esperienza straordinaria, la voce di un popolo che cerca di risollevarsi dopo la guerra, i sogni di riscatto che squarciano il buio di una società in lotta per la sopravvivenza.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
ISBN
9788858682333

Il falegname

greca di inizio capitolo
Mansur entra trafelato nella libreria del padre. In mano ha un pacchettino.
“Duecento cartoline!” esclama ansimante. “Ha cercato di rubare duecento cartoline!”
Mansur ha la fronte imperlata di sudore: gli ultimi metri li ha fatti di corsa.
“Chi?” chiede il padre. Appoggia la calcolatrice sul bancone, scrive un numero sul suo libro contabile e alza lo sguardo verso il figlio.
“Il falegname!”
“Il falegname?” domanda Sultan stupito. “Ne sei sicuro?”
Con fierezza, come se avesse salvato gli affari del padre da una pericolosa banda di mafiosi, Mansur gli consegna la busta marrone. “Duecento cartoline”, ripete ancora. “Al momento di andarsene, mi è sembrato un po’ strano, ma ho pensato che fosse perché era il suo ultimo giorno di lavoro al negozio. Mi ha chiesto se c’era altro che potesse fare per noi. Ha detto che aveva bisogno di lavorare. Gli ho risposto che avrei chiesto a te. Gli scaffali, d’altra parte, li aveva finiti. È stato allora che ho intravisto qualcosa nel taschino del suo gilè. ‘Che cos’hai lì?’ gli ho domandato. ‘Lì dove?’ mi ha risposto lui e sembrava davvero agitato. ‘Nella tasca’, gli ho detto io. ‘È una cosa che mi sono portato da casa’, ha ribattuto. ‘Allora fammela vedere!’ l’ho incalzato io. Lui si è rifiutato. Alla fine il pacchettino gliel’ho dovuto strappare dalla tasca io stesso. Ed eccolo qui! Ha tentato di rubarci le cartoline! Ma non c’è riuscito, a Mansur non la si fa!”
In realtà il ragazzo ha un po’ ricamato su quello che è successo. Lui se ne stava seduto come al solito a sonnecchiare quando Jalaluddin se n’è andato. È stato Abdur, l’uomo delle pulizie, a pizzicare il falegname. Lo aveva visto prendere le cartoline. “Non fai vedere a Mansur quello che ti sei messo in tasca?” gli aveva chiesto. Jalaluddin aveva fatto finta di niente.
Abdur era un povero hazara, apparteneva cioè al gruppo etnico che occupa l’ultimo posto nell’ordine gerarchico vigente a Kabul. Capitava di rado che dicesse qualcosa. “Perché non fai vedere a Mansur cos’hai in tasca?” aveva gridato dietro al falegname. Solo allora il figlio del libraio aveva reagito togliendo a forza le cartoline dalla tasca di Jalaluddin. Adesso è lì che freme nell’attesa di ricevere dal padre il giusto apprezzamento per il suo gesto.
Ma Sultan si limita a sfogliare con tranquillità il mazzetto delle cartoline. “Mmm. E ora il falegname dov’è?” gli domanda.
“L’ho rimandato a casa, ma gli ho assicurato che non se la sarebbe cavata tanto a buon mercato.”
Sultan tace. Ricorda bene quando Jalaluddin si è presentato da lui al negozio. Sono entrambi originari dello stesso villaggio e sono quasi stati vicini di casa. Lui era rimasto uguale a quando erano ragazzini: magro come un chiodo, con quei grandi, spaventati occhi sporgenti. Forse era addirittura ancor più magro di allora. E ingobbito, nonostante avesse appena quarant’anni. Veniva da una famiglia povera, ma di buona reputazione. Anche suo padre aveva fatto il falegname, fino a quando, qualche anno prima, non gli si era guastata la vista ed era stato costretto a smettere di lavorare.
Sultan era stato felice di potergli commissionare del lavoro: Jalaluddin era bravo nel suo mestiere e il libraio aveva bisogno di scaffali nuovi. Fino a quel momento in negozio aveva avuto delle normalissime mensole: quelle in cui i volumi vengono allineati in verticale in modo da poterne leggere il dorso. Oltre a queste mensole disposte lungo tutte le pareti, c’erano anche degli scaffali nel mezzo della stanza. Ma Sultan voleva delle librerie in cui fosse possibile esporre le opere: adesso che aveva fatto stampare così tanti titoli nuovi, desiderava dei ripiani inclinati con una sottile tavola sporgente su cui poter adagiare i libri mostrandone la copertina. Voleva un negozio come quelli che si vedono in Occidente. I due si erano accordati per una somma di quattro euro al giorno e l’indomani Jalaluddin si era ripresentato con martello, sega, metro a verga, chiodi e le prime assi.
Il magazzino sul retro della bottega si era momentaneamente trasformato in una falegnameria. Per giorni e giorni Jalaluddin aveva martellato e inchiodato, circondato da scaffali pieni zeppi di cartoline. Queste costituivano una delle maggiori fonti di introito per Sultan, che le stampava a costo irrisorio in Pakistan e le rivendeva a caro prezzo. Di norma sceglieva motivi a lui graditi, senza preoccuparsi del compenso che avrebbe dovuto dare a fotografi o disegnatori. Quando trovava un’immagine che gli piaceva, la portava con sé in Pakistan e lì la faceva riprodurre. C’erano stati anche alcuni fotografi che gli avevano ceduto gratuitamente le loro istantanee. E le cartoline si vendevano bene. Il più folto gruppo di acquirenti era quello dei soldati delle forze di pace internazionali. Quando erano di stanza a Kabul, facevano volentieri un salto nella bottega di Sultan per comprarsene qualcuna. Cartoline di donne con il burka, di bambini che giocano sui carri armati, di regine dei tempi passati con audaci vestiti, dei Buddha di Bamiyan prima e dopo la loro distruzione a opera di talebani, dei cavalli da buzkashi, di fanciulli e fanciulle con i vestiti tradizionali, di paesaggi impervi, della Kabul di un tempo e di quella attuale. Sultan era bravo nello scegliere i soggetti e i soldati se ne uscivano dal negozio con una decina di cartoline a testa.
La paga giornaliera di Jalaluddin equivaleva esattamente a nove cartoline. Nel retrobottega ce n’erano centinaia e centinaia per tipo, impilate e accatastate, imbustate o sfuse, con un elastico intorno o senza niente, in casse e scatole e sugli scaffali.
“Duecento, hai detto.” Sultan rimane pensieroso per un attimo. “Credi che sia la prima volta?”
“Non saprei. Lui ha detto che aveva intenzione di pagarle, ma che poi se ne è dimenticato.”
“Questo è quello che vuole farci credere.”
“Secondo me è stato qualcun altro a chiedergli di rubarle”, suggerisce Mansur. “Non è abbastanza sveglio da riuscire a rivenderle da solo. E non è certo per appendersele alle pareti che le ha rubate.” Sono poche le persone che ci si sente liberi di oltraggiare con la stessa facilità con cui si schernisce un ladro colto con le mani nel sacco.
Sultan impreca. Ci manca solo questo. Tra due giorni partirà per l’Iran, ci torna per la prima volta dopo parecchi anni. Ha davvero tantissime cose a cui pensare, ma di questa faccenda si occuperà subito. Nessuno può permettersi di rubargli qualcosa e farla franca.
“Bada tu al negozio al posto mio”, dice Sultan. “Io vado a casa sua. Dobbiamo indagare a fondo sull’accaduto.” Se ne va facendosi accompagnare da Rasul che conosce bene il falegname. Prendono la macchina e si dirigono verso Deh Khudaidad.
Una nube di polvere segue l’automobile per tutto il villaggio fino a quando non raggiungono il sentiero che porta all’abitazione di Jalaluddin. “Ricordatelo bene”, dice il libraio a Rasul. “Quel che è successo non si deve sapere in giro, non è necessario precipitare nella vergogna l’intera famiglia.”
Vicino alla bottega del villaggio sull’angolo, all’inizio del sentiero, c’è un gruppo di uomini, tra cui il padre di Jalaluddin. Nel vederli, l’uomo sorride, stringe la mano di Sultan e lo abbraccia. “Vieni dentro per un tè”, lo invita con grande cordialità, mostrando chiaramente di non sapere nulla del furto delle cartoline. Anche gli altri scamberebbero volentieri quattro chiacchiere con il libraio, quello che ce l’ha fatta a diventare qualcuno.
“Vorremmo solo parlare con tuo figlio”, gli spiega Sultan. “Ti dispiacerebbe chiamarcelo?”
Il vecchio se ne va. Torna seguito dal figlio a due passi di distanza. Jalaluddin alza verso il libraio uno sguardo tremante.
Lui dice: “Abbiamo bisogno di te al negozio. Che ne dici di venire con noi?” L’altro annuisce.
“Allora il tè ve lo offrirò volentieri la prossima volta”, grida il padre ai tre che si allontanano.
“Tu sai di cosa si tratta”, gli dice secco Sultan, seduto insieme a lui sul sedile posteriore, mentre Rasul si dirige fuori dal villaggio. Stanno andando dal fratello di Wakil, Mirdzjan, che fa il poliziotto.
“Volevo solo guardarle, le avrei riportate, volevo solo mostrarle ai miei bambini. Sono così belle.”
Il falegname siede ricurvo su se stesso, con le spalle afflosciate, come se cercasse di occupare il minor spazio possibile. Tiene le mani giunte strette tra le gambe. Di tanto in tanto si conficca le unghie nelle nocche. Parlando lancia brevi occhiate nervose in direzione del libraio; ricorda un pulcino impaurito e arruffato. Sultan se ne sta comodamente seduto con aria sicura accanto a lui sul sedile posteriore e lo interroga con un tono di grande tranquillità.
“Devo sapere quante cartoline ti sei portato via.”
“Ho preso solamente quelle che avete visto, perché...”
“Non ti credo.”
“È vero!”
“Se non ammetti di averne prese di più, ti denuncio alla polizia.”
Il falegname afferra la mano levata di Sultan e la inonda di baci. Lui si libera bruscamente dalla sua stretta.
“E piantala! Smettila di comportarti come un idiota!”
“Per Allah, sul mio onore e sulla mia coscienza, non ne ho prese altre. Non farmi mettere in prigione, per favore, ti ripagherò, sono una persona onesta, perdonami, sono stato stupido, perdonami. Ho sette bambini piccoli. Due delle mie figlie sono malate di poliomielite. Mia moglie è di nuovo incinta e noi non abbiamo niente da mangiare. I miei bambini deperiscono, mia moglie piange tutti i giorni perché quello che guadagno non basta a sfamare tutti. Ci nutriamo di patate e verdure cotte, non abbiamo nemmeno i soldi per un po’ di riso. Mia madre va negli ospedali e nei ristoranti a comprare i loro rimasugli. Ogni tanto hanno del riso bollito avanzato. A volte vendono gli scarti del mercato. Negli ultimi giorni non avevamo neanche il pane. Per di più devo dare da mangiare anche ai cinque figli di mia sorella, suo marito è senza lavoro, e poi vivo con i miei vecchi genitori e la madre di mio padre.”
“È tua la scelta: ammetti di averne prese di più e non finirai in carcere”, gli dice Sultan.
La conversazione non porta a niente: il falegname che piange la sua miseria e il libraio che pretende che lui ammetta di aver compiuto un furto più grande e che vuole sapere a chi ha venduto le cartoline.
Hanno attraversato l’intera Kabul e sono di nuovo in campagna. Rasul li conduce attraverso strade infangate, oltre gruppi di persone che si affrettano per raggiungere le loro case prima del coprifuoco. Dei cani randagi litigano per un osso. Bambini corrono di qua e di là a piedi nudi. Un uomo trasporta una donna in burka, seduta di traverso sul portapacchi della bici. Un vecchio con i sandali ai piedi lotta con un carretto carico di arance impantanatosi nei solchi profondi lasciati dagli pneumatici delle macchine a causa della pioggia battente degli ultimi giorni. Quella che prima era una strada di dura terra battuta si è trasformata in una striscia di escrementi, avanzi di cucina e resti di animali che l’acqua caduta ha trascinato con sé dai vicoli e dal ciglio della via.
Rasul si ferma davanti a un portone. Sultan gli chiede di scendere e bussare. Ne esce Mirdzjan, che saluta tutti cordialmente e li invita a entrare.
Al rumore cadenzato dei passi degli uomini per le scale, si ode un frusciare di gonne leggere: le donne di casa si nascondono. Alcune rimangono in piedi dietro porte semichiuse, altre si nascondono dietro le tende. Una bambina sbircia attraverso la crepa di una porta, curiosa di sapere chi è che si presenta a un’ora così tarda. Nessun uomo al di fuori di quelli che fanno parte della famiglia le deve vedere. Sono i ragazzi maschi più grandi a servire il tè che madri e sorelle hanno preparato di là in cucina.
“Allora?” chiede Mirdzjan, che siede a gambe incrociate vestendo la tradizionale tunica dagli ampi pantaloni che i talebani avevano imposto a tutti gli uomini. È il tipo di abbigliamento che preferisce: piccolo e rotondetto com’è si trova a suo agio in queste ampie vesti drappeggiate, mentre adesso è costretto a indossare una divisa che non gli piace, la vecchia uniforme che la polizia afgana usava prima dell’avvento dei talebani. Dopo cinque anni nell’armadio, gli è proprio diventata stretta. Oltretutto è molto calda: nei magazzini erano rimaste solo divise invernali in pesante bigello. Sono state confezionate usando come modello quelle russe e quindi risultano decisamente più adatte al clima della Siberia che a quello di Kabul. E così Mirdzjan suda copiosamente in questi giorni di tarda primavera in cui le temperature raggiungono facilmente i venticinque, trenta gradi.
Sultan gli espone brevemente il caso. Come in un interrogatorio, il poliziotto lascia che raccontino ognuno, uno dopo l’altro, la propria versione dei fatti. Sultan è seduto accanto a lui, Jalaluddin di fronte. Annuisce comprensivo nell’ascoltare quel che gli raccontano e il tono delle sue parole è sempre mite e indulgente. Ai due vengono offerti tè e caramelle al latte; i loro discorsi sono un equivoco continuo.
“È meglio per te se risolviamo la faccenda qui, tra di noi, anziché davanti alla polizia vera e propria”, dice il padrone di casa rivolto al falegname.
Lui china lo sguardo, decide di togliersi un peso dallo stomaco e balbettando confessa, non a Sultan, ma a Mirdzjan: “Ne ho prese forse cinquecento. Ma le ho a casa, le restituirò tutte quante. Non le ho toccate”.
“Ecco fatto”, dice il poliziotto.
Ma a Sultan questa confessione di Jalaluddin non basta: “Sono sicuro che ne hai prese molte di più. Avanti, su! A chi le hai vendute?”
“È meglio per te se confessi tutto adesso”, ammonisce Mirdzjan. “Se dovessi subire un interrogatorio di polizia, sta sicuro che sarebbe ben diverso da com’è qui. Non ti offrirebbero certo tè e caramelle al latte”, aggiunge con aria piuttosto criptica squadrandolo in volto.
“Ma è la verità! Non le ho rivendute! Per Allah, lo giuro!” dichiara spostando lo sguardo dall’uno all’altro. Sultan non demorde, riprendono i discorsi di prima, arriva il momento di andare. Si avvicina il coprifuoco – scatta alle dieci – e il libraio deve anche riaccompagnare il falegname prima di tornare a casa. Chiunque venga sorpreso a guidare durante il coprifuoco viene arrestato. Alcuni sono stati addirittura uccisi dai soldati che si sentivano minacciati da queste automobili di passaggio.
Si siedono silenziosi in macchina. Rasul scongiura il falegname di dire tutta la verità. “Altrimenti la faccenda non farà che trascinarsi, non te ne libererai più”, gli dice. Giunti davanti alla sua abitazione, Jalaluddin va a prendere le cartoline. Ne esce subito dopo con un piccolo fagotto. Le cartoline sono state avvolte in un foulard arancione e verde a disegni. Sultan le tira fuori e contempla le immagini che sono tornate nelle mani del legittimo proprietario e presto saranno di nuovo sugli scaffali. Ma prima vuole usarle come prove. Rasul riparte per riaccompagnare il libraio. Il falegname rimane fermo, con aria mortificata, all’angolo da cui si diparte il sentiero che conduce a casa sua.
Quattrocentottanta cartoline. Eqbal e Aimal se ne stanno seduti sulla stuoia a contare. Sultan calcola quante ne può aver rubate il falegname. Ci sono diversi generi di illustrazioni. Nel magazzino sono confezionate in pacchi da cento. “Se manca un intero pacchetto, risulta difficile accorgersene, ma se manca una decina di cartoline da diversi pacchetti è possibile che lui abbia solamente aperto qualche pacchetto togliendo da ognuno alcune cartoline”, riflette il libraio. “Domani faremo i conti...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione
  4. Proposta di matrimonio
  5. Falò di libri
  6. Crimine e punizione
  7. Suicidio e canto
  8. Viaggio d’affari
  9. E vuoi essere tu la causa della mia tristezza?
  10. Nessuna possibilità di andare in paradiso
  11. Ondeggiante, frusciante, avvolgente
  12. Nozze di terza classe
  13. La matriarca
  14. Tentazioni
  15. La chiamata di Alì
  16. Odore di polvere
  17. Tentativo
  18. Dio può morire?
  19. La stanza triste
  20. Il falegname
  21. Mia madre, Osama
  22. Cuore infranto
  23. Postfazione
  24. Indice