La psicoeconomia di Charlie Brown
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La psicoeconomia di Charlie Brown

Strategie per una società più felice

  1. 272 pagine
  2. Italian
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La psicoeconomia di Charlie Brown

Strategie per una società più felice

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Nessuno vorrebbe essere stressato, inefficiente o con i conti in rosso. Ma a volte lo siamo. E anche se nelle nostre scelte ci illudiamo di essere razionali, in realtà siamo più simili ai… Peanuts: insicuri come Charlie Brown, umorali come Lucy, egocentrici come Snoopy. Eppure esiste il modo per spingerci nella direzione giusta. Quale? Ce lo spiega Matteo Motterlini in questo libro che, prendendo spunto dai mitici personaggi di Schulz, mostra come creare un ambiente in grado di cambiare in meglio i nostri comportamenti e anche il Paese in cui viviamo: dalla trasparenza delle istituzioni all'accessibilità delle informazioni, fino all'uso dell'enorme quantità di dati a nostra disposizione, Motterlini si muove tra esperimenti sul campo e nuovi modelli di governo applicati in diversi Paesi del mondo, per spiegare come possiamo prendere le decisioni migliori per il nostro portafoglio e il nostro benessere. Perché, soprattutto oggi, "abbiamo bisogno di ricondurre al mondo reale i modelli economici su cui abbiamo costruito un sistema di vita che sta collassando. Solo così potremo trovare nuovi strumenti per risolvere i problemi anziché complicarli".

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2015
ISBN
9788858682449
Argomento
Business

1

Un’economia a misura di Peanuts

L’economista inutile (o dannoso)

«Questa crisi era per gli economisti l’occasione di giustificare la loro ragione di essere, per noi scribacchini accademici era il momento di mostrare cosa sanno fare i nostri modelli e le nostre analisi» ha scritto Paul Krugman, premio Nobel per l’economia.1 Se è così, l’occasione è stata clamorosamente perduta: nessuno ha visto arrivare la crisi, nessuno ha saputo come affrontarla, e dopo diversi anni – e molte tragedie personali e collettive, con la disoccupazione alle stelle e la recessione sempre in agguato – possiamo a buon diritto ripetere la domanda che dava il titolo al suo articolo: come hanno fatto gli economisti a sbagliare in modo così grossolano?
Sgomberiamo subito il campo da un malinteso: il torto degli economisti non è non avere previsto l’anno della crisi o la prima grande società che sarebbe fallita. Sarebbe ingiusto e nello stesso tempo ingenuo attribuire loro questa colpa. Anche perché ne hanno una ben peggiore: non aver saputo adempiere alla loro funzione sociale una volta che la crisi ci ha fulminati. Non aver potuto giustificare la propria ragione d’essere portando soluzioni valide per reagire. Il sistema economico è gravemente malato, ma loro non hanno la cura. Perché hanno scambiato la bellezza, il rigore formale e l’esattezza matematica delle loro teorie per verità. Si sono lasciati sedurre dalla visione di mercati perfetti, senza bachi e attriti, e dalla grande unità formale della teoria che ne «spiega» il funzionamento. Abbiamo dovuto scoprire a nostre spese che questa grandiosa teoria «esplicativa» non è sufficiente; anzi, ottenebra.
Oggi sappiamo che anche le migliori teorie scientifiche della fisica e della biologia forniscono predizioni accurate soltanto in contesti determinati, in condizioni privilegiate, sotto idealizzazioni plausibili ma pur sempre arbitrarie, e soprattutto grazie a un duro lavoro sperimentale, che spesso impone correttivi ad hoc. Ansiosi di vedere riconosciuta la propria «scientificità», gli economisti hanno matematizzato rapidamente il proprio linguaggio, dimenticando però che il rigore formale conta poco o nulla se divaricato dalla realtà.
Dunque, oltre a mettere in discussione il sistema finanziario internazionale, la crisi ha scosso alle fondamenta molte delle teorie su cui esso si regge. L’ha riconosciuto, seppur tardivamente, anche Alan Greenspan, l’ex presidente della Federal Reserve. Nel suo articolo dal titolo eloquente, Non l’ho vista arrivare. Perché la crisi ha colto gli economisti di sorpresa, scrive: «La crisi finanziaria ha rappresentato una crisi esistenziale per le previsioni economiche; i convenzionali metodi predittivi della scienza economica hanno fallito proprio quando ne avremmo avuto più bisogno».2 Che cosa è andato storto? Per Greenspan, «gran parte della risposta […] è racchiusa in una vecchia idea di Keynes: gli animal spirits» – la componente istintiva, spontanea e passionale che influenza il comportamento umano e imprenditoriale –, e gran parte della responsabilità è da attribuirsi al fatto che «per decenni, la maggior parte degli economisti, me compreso, ha pensato che i fattori irrazionali non potessero essere inclusi in alcun affidabile modello di previsione». Al contrario, tali comportamenti «possono essere misurati e dovrebbero costituire una parte integrante delle politiche economiche». Grazie ai risultati «di una disciplina relativamente nuova come l’economia comportamentale potremo incorporare nei nostri modelli una versione del comportamento umano più realistica rispetto a quella dell’homo oeconomicus usata così a lungo».
Quando arriva il momento della politica economica, infatti, c’è sempre una soluzione formale, netta, pulita, plausibile e… sbagliata. Perseverare nell’idea che sia quella giusta solo perché è quella astrattamente e matematicamente migliore è la strada verso il disastro. Se ciò che vogliamo è cercare soluzioni alla crisi anche solo «vagamente corrette» e abbandonare quelle «esattamente false» dovremo sporcarci le mani.3 Sperimentare nuove ipotesi che funzionino per i problemi di questo mondo, e che tengano realisticamente conto delle nostre capacità cognitive e dei limiti della nostra razionalità. Un’economia a misura d’uomo o, ancora meglio, a misura di Peanuts, perché come loro psicologicamente consapevole e raffinata. Insomma, una psicoeconomia di Charlie Brown.

The times they are a-changin’

Forse i tempi stanno per cambiare se anche gli studenti di economia di Harvard mettono in discussione le teorie proposte nei loro manuali. In una lettera aperta a uno dei docenti più influenti, infatti, denunciano il dogmatismo dei modelli economici che apprendono all’università. Il professore in questione è Greg Mankiw, autore di un paio di manuali su cui si sono formate intere generazioni (chi scrive si è sorbito i suoi Principles of Macroeconomics da studente alla London School of Economics), e in passato consigliere economico per l’amministrazione di George W. Bush. Il suo corso (Ec 10) è frequentato da oltre settecento matricole ogni anno. Ma ora queste stesse matricole hanno detto pubblicamente basta all’indottrinamento: «Riteniamo che il corso esponga una visione specifica e limitata della teoria economica» si legge nella lettera aperta.4 «Non c’è nessuna giustificazione nel presentare la teoria di Adam Smith come più fondamentale di quella di Keynes. […] Lo studio dell’economia dovrebbe legittimamente includere una discussione critica dei singoli, semplicistici modelli economici in modo da tener conto sia dei loro vantaggi sia dei loro difetti. […] Ma nella nostra classe abbiamo pochissimo accesso a differenti approcci economici. E in un corso introduttivo, è ancora più importante presentare una prospettiva non pregiudiziale.»
I ragazzi rivendicano un approccio meno paradigmatico, più pragmatico e pluralista. Condivisibile? Ovviamente. Lungimirante? Non c’è dubbio. Ma addirittura esaltante per i motivi che ispirano quest’appello: il punto di vista che viene insegnato «perpetua problematici e inefficienti sistemi di economia dell’ineguaglianza nella nostra società». Tanto più che «gli studenti di Harvard giocano un ruolo centrale nelle istituzioni finanziarie e nell’indirizzo della politica economica in tutto il mondo».
Anni fa, in pieno Sessantotto, il filosofo della scienza Paul Feyerabend asseriva dall’Università di Berkeley che mettere a tacere punti di vista differenti da quelli dominanti è un furto vero e proprio. Significa derubare il genere umano della possibilità di avvicinarsi alla verità. La scienza dovrebbe continuamente generare alternative, rendere feconde le anomalie e stimolare la controversia. Lui lo chiama principio di proliferazione: «Inventa, ed elabora teorie in contraddizione con il punto di vista dominante, anche se questo è generalmente accettato e ben confermato».5 Non c’è niente da temere dalla competizione tra idee: quello che deve fare paura sono il conformismo e la stagnazione. Non solo nella scienza come prassi, ma anche più in generale nelle istituzioni scientifiche e secondo Feyerabend nella società intera.
È bello che sia un gruppo di studenti a ricordarcelo: agli allievi di Harvard si sono presto aggiunti quelli di Cambridge e ora sono oltre centocinquanta le università aderenti all’associazione International Student Initiative for Pluralism in Economics. La protesta ha così assunto una dimensione globale.6
Eppure, l’analisi teorica gode ancora oggi in economia di un prestigio sproporzionato, rispetto a qualunque altro campo di ricerca scientifica avanzata. La scienza in generale, e l’economia in particolare, non può limitarsi a un’elegante «rappresentazione» della natura: deve essere anche in grado di intervenire su di essa e dimostrare pragmaticamente la propria efficacia.
Quella di riequilibrare il rapporto tra teoria ed evidenza nelle scienze sociali non è solo un’esigenza avvertita da filosofi della scienza,7 studenti di Harvard e cittadini comuni; ma anche da chi le mani sulle leve della politica monetaria le ha o le ha avute per davvero. Jean-Claude Trichet, per esempio, poco prima di lasciare la presidenza della Banca centrale europea per consegnarla a Mario Draghi, auspicò che la scienza economica s’ispirasse maggiormente alle altre discipline, psicologia, biologia e fisica in particolare: «Come responsabile delle politiche in tempo di crisi, ho visto che i modelli a mia disposizione offrivano un aiuto limitato. Anzi, vado oltre: affrontando la crisi, ci siamo sentiti abbandonati dagli strumenti convenzionali».8
Sulla stessa lunghezza d’onda è Ben Bernanke, ex chairman della Federal Reserve, che intervenendo a un convegno sul tema degli indicatori economici (quelli veri, non quelli dei lettori dell’«Economist») ha chiesto «un maggiore riconoscimento da parte degli economisti ai contributi delle scienze cognitive e in particolare della psicologia della decisione: un campo aperto e percorso fruttuosamente da pionieri come il premio Nobel 2002 Daniel Kahneman».9

Con la spinta giusta

Ad alcuni potrà sembrare strano che un presidente impegnato a fronteggiare disoccupazione, riforma sanitaria e terrorismo internazionale prenda parte a un dibattito accademico. Ma è quello che ha fatto Barack Obama, già dalla prima campagna elettorale e subito dopo l’elezione. Il dibattito accademico in questione riguardava quella corrente di studio nota come nudge philosophy, la rivoluzionaria teoria della «Spinta gentile». Potremmo tradurre il termine nudge in modo letterale con «spintarella», se nel nostro Paese ciò non ci rimandasse immediatamente alla pratica poco virtuosa della «raccomandazione». Un nudge, per intenderci meglio, è un pungolo e dunque un’imbeccata, un aiutino, uno stimolo, un indizio, un sostegno, ma anche uno sprone o un incoraggiamento che ci orienta (più o meno) intenzionalmente a prendere alcune decisioni invece che altre.
Si sa che certe idee possono cambiare il mondo. Soprattutto se è il presidente americano ad abbracciarle. L’adesione alla nudge revolution ha avuto conseguenze notevoli per la definizione di politiche governative: dai piani fiscali al welfare state, dalla politica ambientale a quella sanitaria, dalla regolamentazione di Wall Street alla riforma del sistema scolastico e della ricerca.
Di che cosa si tratta? In breve, di un approccio offerto ai governi e alle pubbliche amministrazioni nella loro interazione quotidiana con i cittadini. Sfruttando la conoscenza dei meccanismi con cui le persone prendono effettivamente le loro decisioni (anziché seguire teorie su come dovrebbero farlo), è possibile mettere gli individui nelle condizioni migliori perché optino per la soluzione più vantaggiosa per loro. Progettando «ambienti di scelta» più ecologici, a misura di «razionalità limitata», è possibile indurre i cittadini a prendere decisioni virtuose per i singoli e la collettività.
È questa una posizione che i suoi stessi fautori designano con l’apparente ossimoro di «paternalismo libertario».10 Paternalista perché ritiene legittimo influenzare decisioni che rendano le nostre vite «più lunghe, sane e felici». Libertaria perché siamo aiutati a scegliere l’opzione migliore ma non siamo obbligati a farlo. Resta a nostra disposizione l’intero ventaglio delle scelte, ma è come se ci venisse aperto con un piccolo suggerimento sull’opzione da scegliere.
A questo punto qualcuno potrebbe insospettirsi. Sally, la sorellina di Charlie Brown, sarebbe diffidente, come lo è quando le viene spiegato che in biblioteca può prendere tutti i libri che vuole in prestito, gratis. «Paga tutto il Comune» la rassicura suo fratello. E Sally, indignata: «AHA! Stanno cercando di controllare quello che leggiamo!». Certo, è un modo di vedere le cose. C’è sempre «qualcosa sotto». Vero. Ma non deve essere per forza un male.
L’economia è un campo privilegiato di azione, in questo senso. Non è un caso che tra i consiglieri di Obama in ruoli chiave vi siano stati Austan Goolsbee, il più giovane Chairman of the Council of Economic Advisers, già allievo di Richard Thaler, padre della finanza comportamentale; e Cass Sunstein, coautore con lo stesso Thaler dell’influente saggio Nudge (tradotto in italiano con La spinta gentile), e per tre anni (2009-2012) direttore dell’Office of Information and Regulatory Affairs (OIRA). Un ente dal nome un po’ oscuro ma molto potente, perché ogni decisione presa dal governo deve passare da lì per tradursi in legge e pertanto essere «messa a terra».11 Forse è ancora meno casuale se la campagna elettorale (vittoriosa) di Obama si è avvalsa della consulenza di quello che è stato battezzato un Behavioral Dream Team di ventidue economisti comportamentali, tra cui lo stesso Daniel Kahneman.12
In verità, mentre ne parliamo, le «spinte gentili» sono ovunque, là fuori. Influenzano così tanti aspetti della nostra vita che non riusciamo nemmeno a riconoscerle. Sono presenti in tutti quei casi in cui siamo dilettanti allo sbaraglio chiamati ad affrontare un esercito di professionisti che cercano di piazzare i loro prodotti (bancari, promotori finanziari, assicuratori, agenti immobiliari, politici, aziende, negozianti, pubblicitari eccetera). Sono in agguato all’edicola in cui Charlie Brown sperpera un patrimonio in pacchetti di figurine per poter avere l’unica che non troverà, quella del mitico Joe Shlabotnik. L’«architettura delle scelte», buona o cattiva che sia, è dilagante e inevitabile, e influenza le nostre decisioni. E c’è sempre un architetto dietro. Si è sempre spinti, più o meno gentilmente, a fare qualcosa. Come la struttura di un edificio pone vincoli fisici alla possibilità di muoversi e interagire con esso, così il modo in cui è predisposto lo spazio (mentale) delle scelte influisce su come ci orientiamo al suo interno e pertanto sull’esito delle nostre decisioni.
Non possiamo disfarci di quell’architettura. Ma possiamo renderla trasparente e funzionale al nostro benessere.

Da consumatori a cittadini

Chi ha capito molto bene le potenzialità del nostro essere Peanuts sono gli uffici marketing delle grandi aziende, capaci di sfruttare abilmente i consumatori proprio per i loro «limiti» di razionalità. È per questa ragione che nei supermercati le caramelle e i cioccolatini sono alla cassa e gli scaffali sono pieni di offerte «tre per due». E gli esempi sono molteplici.
Come osservano Sunstein e Thaler, se i consumatori hanno convinzioni non perfettamente razionali, spesso le imprese hanno un maggiore incentivo ad assecondare tali convinzioni piuttosto che a cercare di sradicarle. Quando molte persone avevano ancora paura di volare, era frequente trovare negli aeroporti assicurazioni sui viaggi aerei vendute a prezzi esorbitanti; ma non c’erano chioschi che vendessero il consiglio di non comprarle.13
Dunque, siamo alle solite con il controllo sociale, l’indottrinamento, i persuasori occulti? Con l’inganno dei professionisti della seduzione commerciale o politica?
No: altrimenti che rivoluzione sarebbe quella del nudge? Il paternalismo libertario non definisce né impone le scelte «migliori», ma responsabilizza a creare migliori ambienti di scelta, più semplici, amichevoli, funzionali, ecologici, sostenibili e quindi potenzialmente vantaggiosi per tutti. Una delle differenze fondamentali è che questo tipo di approccio non richiede un cittadino passivo, come accade con i vari tipi di «lavaggio del cervello», coadiuvati dalla continua ripetizione del messaggio (che proprio per questo finisce per sembrare vero) da parte di media tradizionali e di nuova generazione, ma un cittadino assai attivo. E lo aiuta a esserlo valorizzando (anche) la sua irrazionalità, e non sfruttandola.
È ovvio che se gli esseri umani fossero perfettamente razionali, le spinte gentili (buone o cattive che siano) non avrebbero alcuna influenza.14 Invece sono straordinariamente efficaci. Possono indirizzare le nostre decisioni sulla salute, l’educazione, il risparmio; ma anche le nostre scelte politiche e di consumo. Funzionano bene soprattutto quando il problema che impone la scelta è complesso e per affrontarlo disponiamo di esperienza e informazioni limitate, senza un feedback immediato che ci consenta di «imparare facendo».
Esempio: l’acquisto di una casa e la sottoscrizione di un ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Introduzione
  6. 1. Un’economia a misura di Peanuts
  7. 2. Yes we nudge
  8. 3. Le regole sociali di Charlie Brown
  9. 4. Felici di default
  10. 5. Nudge-ocracy
  11. Conclusione. Più Peanuts per tutti
  12. Note