I giorni del potere
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I giorni del potere

  1. 896 pagine
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I giorni del potere

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Informazioni sul libro

A Roma, durante gli ultimi anni della Repubblica, si respira un clima politico incerto e oscuro. Tra lotte sociali e guerre civili, alleanze e nuovi complotti, iniziano a brillare le figure dei due grandi generali Mario e Silla. Due uomini eccezionali, diversi per censo e personalità, ma accomunati da una divorante ambizione: conquistare il potere assoluto a Roma, mentre il mondo sta cedendo sotto i colpi delle sue legioni. Un romanzo entusiasmante su uno dei periodi più decisivi della storia romana, che riporta alla vita lo sfarzo, la dissolutezza, le virtù morali e le passioni politiche della Roma repubblicana.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858649732

Il settimo anno (104 a.C.)

DURANTE IL CONSOLATO DI
CAIO MARIO (II)
E
CAIO FLAVIO FIMBRIA
L’ottavo anno (103 a.C.)


DURANTE IL CONSOLATO DI
CAIO MARIO (III)
E AURELIO ORESTE
Il nono anno (102 a.C.)


DURANTE IL CONSOLATO DI
CAIO MARIO (IV)
E
QUINTO LUTAZIO CATULO CESARE
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PUBLIO RUTILIO RUFO
PUBLIO RUTILIO RUFO
Il compito di organizzare il corteo trionfale di Mario era stato affidato a Silla; il quale eseguì scrupolosamente gli ordini ricevuti.
«Desidero che il trionfo sia una faccenda rapida e sbrigativa» gli aveva detto Mario, non appena erano sbarcati a Pozzuoli dall’Africa. «Salita al Campidoglio entro l’ora sesta al massimo e, subito dopo, la cerimonia dell’insediamento e la convocazione in seduta del Senato. Il tutto nel modo più rapido possibile, perché ho deciso che la cosa memorabile dovrà essere il banchetto. Dopotutto, festeggio due volte: trionfo come generale e anche come nuovo primo console. Quindi, voglio un festino di prim’ordine, Lucio Cornelio! Niente uova sode e formaggi scadenti, mi hai capito? Vivande della migliore e più costosa qualità, vasellame d’oro e giacigli di porpora.»
Silla aveva ascoltato tutto questo sentendosi stringere il cuore. “Non sarà mai altro che un contadino con velleità di scalata sociale” pensò. “Lo sbrigativo corteo e le frettolose cerimonie consolari, seguiti da un banchetto come quello che mi ha ordinato, denotano scarsa conoscenza dell’etichetta. Soprattutto quel festino volgarmente fastoso!”
Tuttavia, seguì le istruzioni alla lettera. Carretti carichi di vasche d’argilla rivestite di cera all’interno per renderle impermeabili trasportarono a Roma bacinelle di ostriche di Baia e di gamberi campani d’acqua dolce e di gamberetti della Baia del Cratere, mentre altri carretti attrezzati allo stesso modo trasportarono anguille e lucci e persici d’acqua dolce dall’alta valle del Tevere; una squadra di esperti pescatori di persici si appostò agli sbocchi delle fogne di Roma; ingrassati con mangime a base di focacce al miele tuffate nel vino, capponi e anitre, porcellini e capretti, fagiani e cerbiatti furono consegnati agli approvvigionatori per essere arrostiti e imbottiti, farciti e lardellati; un grosso quantitativo di lumache giganti era arrivato dall’Africa assieme a Mario e a Silla, gentile omaggio di Publio Vagiennio, il quale desiderava essere informato delle reazioni dei ghiottoni romani.
Così il corteo trionfale di Mario tenne occupato e impegnato Silla, il quale pensava tra sé e sé che quando fosse giunto il momento del suo trionfo, l’avrebbe organizzato in modo tale che ci sarebbero voluti tre giorni per percorrere l’antico tragitto, proprio come era accaduto nel caso di Paolo Emilio. Consacrare tempo e splendore a un trionfo, infatti, era il marchio dell’aristocratico, desideroso di rendere partecipe dei festeggiamenti l’intera popolazione; laddove consacrare tempo e splendore al banchetto nel tempio di Giove Ottimo Massimo, che faceva seguito al trionfo, era il marchio del contadino, desideroso di far colpo su pochi eletti.
Ciononostante, Silla riuscì a rendere memorabile il corteo trionfale. C’erano carri da sfilata che illustravano tutti i fatti salienti delle campagne d’Africa, dalle lumache del Moulouya alla sorprendente Martha, la profetessa siriaca; era lei la stella della parata, distesa su un giaciglio di porpora e d’oro in cima a un enorme carro concepito in modo da fingere la sala del trono del principe Gauda nell’antica Cartagine, con un attore che impersonava Caio Mario e un altro nei panni del re numida. Su un carro senza sponde sontuosamente adorno, Silla aveva fatto disporre tutte le decorazioni militari di Mario. E c’erano grandi carri carichi di spoglie di guerra, carri di trofei consistenti in armi e armature prese al nemico, carri di importanti reperti, tutti quanti sistemati in modo che gli spettatori potessero vederli e lanciare esclamazioni di meraviglia a ogni singolo oggetto, e ancora carri recanti gabbie di leoni e scimmie e bizzarri scimmiotti, nonché due dozzine di elefanti che avanzavano agitando gli enormi orecchi. Le sei legioni dell’esercito d’Africa avrebbero sfilato al gran completo, ma private di lance e daghe e spade, recando al loro posto bastoni inghirlandati con l’alloro della vittoria.
«E alzate i tacchi e marciate, puttane!» intimò Mario ai suoi soldati sull’accidentata distesa erbosa della Villa Publica mentre la sfilata stava per iniziare. «Devo essere sul Campidoglio entro l’ora sesta, così non sarò in grado di tenervi d’occhio. Ma nessun dio vi sarà d’aiuto se mi fate fare brutta figura... mi sentite, coglioni?»
Ai legionari piaceva moltissimo quando si rivolgeva loro usando termini osceni; d’altra parte, rifletté Silla, lo amavano, in qualsiasi modo si rivolgesse loro.

Sfilò anche Giugurta, nelle sue vesti di porpora regale, la testa fasciata per l’ultima volta col nastro bianco adorno di nappine detto diadema, tutte le sue collane e gli anelli e i bracciali d’oro tempestati di pietre preziose scintillanti al primo sole, poiché era una radiosa giornata invernale, né troppo fredda né troppo ventosa. Giugurta era accompagnato dai suoi due figli, anch’essi in vesti di porpora.
Quando Mario l’aveva rimandato a Roma, Giugurta stentava a crederci, tale era stata la sua sicurezza, allorché lui e Bomilcare avevano lasciato Roma, che non ci sarebbe più, mai più, tornato. La città di terracotta dai colori brillanti: colonne dipinte, muri a tinte vivide, e dovunque statue che sembravano così reali da far credere a chi le osservava che si sarebbero messe a parlare o a lottare o a galoppare o a piangere. Nessuna traccia del candore africano a Roma, dove non si costruiva più molto con mattoni di fango e non s’intonacavano mai i muri di bianco, ma invece li si dipingeva. I colli e i dirupi, gli spiazzi alberati, le guglie dei cipressi e gli ombrelli dei pini, gli imponenti templi sui loro alti podii con le Vittorie alate alla guida di quadrighe sulla sommità dei timpani, la cicatrice del grande incendio che un po’ alla volta andava ricoprendosi di verde sul Viminale e la parte superiore dell’Esquilino. Roma, la città in vendita. Ed era una tragedia che lui non fosse riuscito a scovare il denaro per comprarla! Le cose avrebbero potuto andare in modo assai diverso, se l’avesse trovato.
Quinto Cecilio Metello Numidico l’aveva accolto come l’ospite d’onore, cui tuttavia non era consentito metter piede fuori casa. Era buio quando ce l’avevano introdotto furtivamente, e ci era rimasto per mesi, col divieto di spostarsi sulla loggia che si affacciava sul Foro Romano e il Campidoglio, limitandosi a passeggiare su e giù nel peristilio come un leone in gabbia, cosa che esattamente si sentiva. L’orgoglio gli impediva di lasciarsi andare; ogni giorno saltellava a ritmo di corsa, si piegava fino a toccarsi la punta dei piedi, tirava pugni contro un avversario inesistente, si sollevava sino a sfiorare col mento il ramo che aveva scelto come sbarra. Desiderava, infatti, che, quando avrebbe sfilato nel corteo trionfale di Caio Mario, lo ammirassero, quei rozzi Romani... voleva esser certo che lo considerassero un avversario formidabile, non un flaccido sovrano orientale.
Nei confronti di Metello Numidico aveva mantenuto un atteggiamento altero, rifiutandosi di ingraziarsi l’ego di un romano a spese di quello di un altro: con profondo disappunto del suo anfitrione, si rese subito conto. Il Numidico aveva sperato di raccogliere prove del fatto che Mario aveva abusato della sua posizione di proconsole. Il fatto che, invece, il Numidico non ne ricavasse nulla, sotto sotto procurava piacere a Giugurta, il quale sapeva bene quale romano aveva temuto e da quale romano era stato lieto di essere sconfitto. Certamente, il Numidico era un gran signore e possedeva una propria integrità, ma come uomo e come soldato non era degno di allacciare i calzari a Caio Mario. Per quanto riguardava Metello Numidico, naturalmente, Caio Mario era poco più di un bastardo; così Giugurta, che in fatto di bastardume sapeva tutto quel che c’era da sapere, rimaneva legato a Caio Mario da un bizzarro e crudele cameratismo.
La sera che precedeva il giorno in cui Caio Mario sarebbe entrato a Roma in trionfo e in veste di console eletto per la seconda volta, Metello Numidico e il figlio quasi privo della favella invitarono a cena Giugurta e i suoi due figli. C’era solo un altro commensale, Publio Rutilio Rufo, per espresso desiderio del re numida. Di coloro i quali aveva combattuto assieme a Numanzia agli ordini di Scipione l’Emiliano, mancava soltanto Caio Mario.
Fu una serata molta strana. Metello Numidico aveva fatto tutto il possibile per organizzare un festino sontuoso: come ebbe a dire, infatti, non aveva la minima intenzione di mangiare a spese di Caio Mario dopo la seduta inaugurale del Senato nel tempio di Giove Ottimo Massimo.
«Ma non si trova più un gambero o un’ostrica o una lumaca in vendita, né alcun’altra pietanza rara» disse il Numidico mentre stavano per mettersi a tavola. «Mario ha ripulito i mercati.»
«Puoi fargliene una colpa?» domandò Giugurta, visto che non lo faceva Rutilio Rufo.
«Io do la colpa di tutto, a Caio Mario» disse il Numidico.
«Non dovresti. Se il vostro intento di farlo uscire dai ranghi dell’alta nobiltà fosse andato a buon fine, Quinto Cecilio, sarebbe tutto a posto. Ma non ci siete riusciti. È stata Roma a produrre Caio Mario. E non intendo la città di Roma o la nazione di Roma... intendo Roma, la dea immortale, il genio della città, lo spirito motore. Quando c’è bisogno di un uomo, quell’uomo si trova» disse Giugurta di Numidia.
«Esistono uomini fra di noi, più qualificati per nascita e famiglia, che avrebbero saputo fare ciò che ha fatto Caio Mario» ribatté il Numidico con cocciutaggine. «In effetti, avrei dovuto esserci io al suo posto. Caio Mario mi ha sottratto l’imperium, e domani si prenderà la mia ricompensa.» La fuggevole espressione d’incredulità sul viso di Giugurta lo irritò, per cui soggiunse, un po’ stizzito: «Tanto per fare un esempio, in realtà non è stato Caio Mario a catturare te, re. Chi ti ha catturato era qualificato per nascita e virtù ataviche... Lucio Cornelio Silla. Si potrebbe dire, in forma di valido sillogismo!... che è stato Lucio Cornelio a porre fine alla guerra, non Caio Mario». Tirò il fiato e sacrificò le proprie pretese alla preminenza sul più logico altare aristocratico di Lucio Cornelio Silla. «Il effetti, Lucio Cornelio possiede tutte le caratteristiche di un Caio Mario giudizioso, adeguatamente romano.»
«No!» sbottò beffardo Giugurta, consapevole che Rutilio Rufo lo stava fissando. «È un felino maculato in modo diverso, quello. Caio Mario è più retto, non so se mi spiego.»
«Non ho la più pallida idea di ciò che intendi dire» fece rigidamente il Numidico.
«Io, invece, comprendo perfettamente ciò che intendi dire» fece Rutilio Rufo, sorridendo felice.
Giugurta rivolse a Rutilio Rufo il sorrisetto ironico dei tempi di Numanzia. «Caio Mario è un fenomeno,» disse «il frutto perfetto di un albero comune e trascurato, cresciuto appena al di là della cinta del frutteto. Uomini del genere non si possono fermare o piegare, mio caro Quinto Cecilio. Possiedono il cuore, il fegato, il cervello e quel tocco d’immortalità per superare fin l’ultimo ostacolo che intralci loro il cammino. Sono amati dagli dèi! Su di loro gli dèi riversano tutti i doni della Fortuna. Così, un Caio Mario tira diritto per la sua strada, e anche quando è costretto a compiere una deviazione, il suo cammino è pur sempre diritto.»
«Hai perfettamente ragione!» gli fece eco Rutilio Rufo.
«Lu-Lu-Lucio Cor-Cor-Cornelio è mi-mi-migliore!» farfugliò rabbiosamente Metello il Porcellino.
«No!» ribatté Giugurta, scuotendo la testa con veemenza. «Il nostro amico Lucio Cornelio possiede il cervello... e il fegato... e magari anche il cuore... ma non credo abbia quel tocco d’immortalità nella sua mente. A lui la via tortuosa pare del tutto naturale; la considera la più retta. Non c’è nulla di un elefante da guerra in un uomo che si trova più a suo agio in groppa a un mulo. Oh, coraggioso come un toro! In battaglia, non c’è chi sia più rapido di lui a guidare una carica, o a formare una colonna di soccorso, o a insinuarsi in una breccia, o a radunare una centuria in fuga. Ma Lucio Cornelio non ode la voce di Marte. Laddove a Caio Mario non accade mai di non udirla. A proposito, suppongo che “Mario” sia una deformazione latina di “Marte” o no? Il figlio di Marte, forse? Non lo sai? E neppure desideri saperlo, Quinto Cecilio, sospetto! Peccato. È una lingua dal suono oltremodo potente, il latino. Molto secca, eppure fluida.»
«Parlami ancora di Lucio Cornelio Silla» propose Rutilio Rufo, scegliendo un pezzo di pane bianco fresco e l’uovo dall’aria meno arzigogolata.
Giugurta s’ingozzava di lumache, non avendone più gustata una dall’inizio dell’esilio. «Che altro c’è da dire? È un prodotto della sua classe. Tutto quel che fa, lo fa bene. Così bene, che nove testimoni su dieci non riusciranno mai a stabilire se segue una linea logica in ciò che fa, o se si tratta soltanto di un intelligentissimo e ben assimilato artifizio. Ma durante il tempo che ho passato con lui, non gli ho mai strappato una scintilla capace di suggerirmi quale fosse la sua inclinazione naturale, o magari la sfera in cui operava. Oh, vincerà guerre e governerà territori, su questo non ho dubbi... ma mai con le doti dello spirito.» L’ospite d’onore aveva tutto il mento unto di salsa all’aglio e olio; Giugurta smise di parlare mentre un servo sfregava e detergeva le parti rasate e barbute del suo viso, poi emise un gran rutto e proseguì: «Opterà sempre per la soluzione più conveniente, perché gli manca l’indefessa costanza che soltanto quel tocco mentale d’immortalità può conferire a un uomo. Se a Lucio Cornelio si offre la possibilità di scegliere fra due soluzioni, lui opterà per quella che, a suo modo di vedere, gli consentirà di arrivare dove desidera con la minima spesa. Semplicemente, non è integro come Caio Mario... né altrettanto perspicace, sospetto».
«Co-co-co-come f-f-fai a sapere ta-ta-ta-tante cose di Lu-Lu-Lu-Lucio Cornelio?» domandò Metello il Porcellino.
«Ho cavalcato con lui in circostanze straordinarie, una volta» rispose Giugurta, meditabondo, usando uno stuzzicadenti. «E poi abbiamo viaggiato insieme lungo la costa africana, da Algeri a Utica. Ci siamo frequentati parecchio.» E il tono in cui lo disse indusse tutti gli altri a domandarsi quanti significati contenesse. Ma nessuno fece domande.
Furono servite le insalate, e poi gli arrosti. Metello Numidico e i suoi ospiti riattaccarono a mangiare, e con gran gusto, eccezion fatta per i due giovani principi, Iampsas e Oxyntas.
«Vogliono morire con me» spiegò Giugurta a Rutilio Rufo.
«Non sarebbe consentito» disse Rutilio Rufo.
«È quel che ho detto loro.»
«Sanno dove andranno?»
«Oxyntas nella città di Venusia, dovunque si trovi, e Iampsas ad Ascoli Piceno, altra misteriosa località.»
«Venusia si trova a sud della Campania, sulla strada per Brindisi, e Ascoli Piceno è a nord-est di Roma, sull’altro versante degli Appennini. Ci si troveranno abbastanza bene.»
«Quanto durerà la loro detenzione?» domandò Giugurta.
Rutilio Rufo ci pensò su, poi si strinse nelle spalle. «Difficile dirlo. Qualche anno, certamente. Finché il magistrato locale non inoltrerà un rapporto al Senato per informarlo che, avendo completamente assimilato la dottrina di Roma, non rappresenteranno più un pericolo per Roma, se saranno rimandati in patria.»
«Allora ci rimarranno vita natural durante, temo. Sarebbe meglio che morissero assieme a me, Publio Rutilio!»
«No, Giugurta, non puoi affermarlo con sicurezza. Chi può dire che cos’abbia in serbo il futuro per loro?»
«Vero.»
Il banchetto proseguì con altri arrosti e insalate e fu concluso da marzapane, pasticcini, confetture al miele, formaggi, la poca frutta di stagione e frutta secca. Soltanto Iampsas e Oxyntas non fecero onore al cibo.
«Dimmi, Quinto Cecilio,» domandò Giugurta a Metello Numidico quando i resti delle vivande furono portati via e fu servito vino puro della migliore annata «che farai se un giorno dovesse comparire un altro Caio Mario... solo, questa volta, con tutte le doti e il vigore e la perspicacia di Caio Mario... e anche quel tocco mentale d’immortalità!... ma nei panni di un patrizio di Roma?»
Il Numidico ammiccò. «Non capisco dove vuoi arrivare, re» disse. «Caio Mario è Caio Mario.»
«Non è necessariamente unico nel suo genere» ribatté Giugurta. «Che faresti, in presenza di un Caio Mario di origini patrizie?»
«Non sarebbe possibile» disse il Numidico.
«Sciocchezze, certo che è possibile» fece Giugurta, mentre degustava lo squisito vino di Chio.
«A mio parere, Giugurta, ciò che Quinto Cecilio sta cercando di dire è che Caio Mario è un prodotto della sua classe» s’intromise gentilmente Rutilio Rufo.
«Un Caio Mario può appartenere a qualsiasi classe» insistette Giugurta.
Ora tutti i Romani presenti facevano segno di no con la testa come un sol uomo. «No» disse Rutilio Rufo, parlando a nome del gruppo. «Ciò che stai dicendo può esser vero per la Numidia, o per qualsiasi altra parte del mondo. Ma non lo sarà mai per Roma. Nessun patrizio romano potrebbe mai pensare o agire come Caio Mario.»
E questo era quanto. Dopo qualche altra coppa di vino la riunione si sciolse, Publio Rutilio Rufo se ne andò a dormire a casa sua, e gli inquilini della c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. NOTA DELL'AUTORE
  4. Dedica
  5. PERSONAGGI PRINCIPALI
  6. Il primo anno (110 a.C.) - DURANTE IL CONSOLATO DI MARCO MINUCIO RUFO E SPURIO POSTUMIO ALBINO
  7. Il secondo anno (109 a.C.) - DURANTE IL CONSOLATO DI QUINTO CECILIO METELLO E MARCO GIUNIO SILANO
  8. Il terzo anno (108 a.C.) - DURANTE IL CONSOLATO DI SERVIO SULPICIO GALBA E QUINTO ORTENSIO
  9. Il quarto anno (107 a.C.) - DURANTE IL CONSOLATO DI LUCIO CASSIO LONGINO E CAIO MARIO (I)
  10. Il quinto anno (106 a.C.) - DURANTE IL CONSOLATO DI QUINTO SERVILIO CEPIONE E CAIO ATTILIO SERRANO
  11. Il sesto anno (105 a.C.) - DURANTE IL CONSOLATO DI PUBLIO RUTILIO RUFO E GNEO MALLIO MASSIMO
  12. Il settimo anno (104 a.C.)
  13. Il decimo anno (101 a.C.) - DURANTE IL CONSOLATO DI CAIO MARIO (V) E MANIO AQUILIO