L'aquila e la farfalla
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L'aquila e la farfalla

perché il XXI secolo sarà ancora americano

  1. 171 pagine
  2. Italian
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L'aquila e la farfalla

perché il XXI secolo sarà ancora americano

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Nonostante i tanti dibattiti sul suo presunto declino, l'America dà segni di grande vitalità e si avvia a guidare il nuovo secolo. Dopo aver superato la più grave crisi economica degli ultimi decenni, gli Usa si stanno infatti confermando la più brillante e prolifica fucina di innovazione e di idee del pianeta, un laboratorio formidabile in grado di creare ricchezza in ogni ambito: con l'economia digitale targata Silicon Valley, che ha traghettato l'industria dalla realtà fisica a quella virtuale; con lo sfruttamento dello shale gas, che li renderà presto indipendenti dal petrolio degli sceicchi; con il nuovo welfare di Obama, erede culturale del New Deal rooseveltiano e della Nuova Frontiera kennediana che tassa le ricchezze per riequilibrare le disuguaglianze del Paese. Ma anche attraverso significative riforme nel mondo del lavoro e dell'istruzione passando per la legalizzazione dei clandestini e i diritti civili dei gay fino all'implementazione della democrazia digitale, il fattore chiave che tanta parte avrà nelle ragioni della pace e della guerra future. Che significato ha questo per noi europei? Quali sono le implicazioni per l'Italia, in parte arretrata e ancora alle prese con gli odii etnici e razziali del Novecento? L'autore, da oltre un decennio corrispondente da New York, ci spiega perché tutto ciò ci riguarda, e grazie a queste vere e proprie "cartoline dal futuro" ci introduce con sorprendente chiarezza nell'avvincente, grande rivoluzione a stelle e strisce. Una cronaca dei cambiamenti epocali ancora in atto, talvolta contraddittori e problematici, il cui filo conduttore è una grande visione che affonda le sue radici nella leggendaria resilienza del popolo americano, nella sua capacità di reinventarsi e nel suo ancora intatto spirito pionieristico.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2013
ISBN
9788858661406
Argomento
History
Categoria
World History

1

Welfare state: la condivisione della ricchezza

Sharing economy

Sulla carta Frederic Larson è solo un numero nelle statistiche del governo sui dipendenti sottopagati e sulle decine di fabbriche alle prese con una crescita che stenta, ma in realtà il sessantatreenne fotografo padre di due figli, entrambi al college, è l’esempio di un’America rivoluzionaria, dove la ricchezza si condivide. Larson insegna all’Academy of Art, con rare puntate negli atenei delle Hawaii, ma poiché quanto guadagna non gli basta per vivere, né tantomeno per pagare le rette degli studi dei figli, ha trovato soluzioni alternative: per dodici giorni al mese affitta la sua casa nella Marin County, in California, attraverso il sito web Airbnb.com per 100 dollari a notte, dei quali gliene vengono in tasca 97; e per altri quattro giorni al mese trasforma la sua Prius in un taxi attraverso il sito Lyft.com incassando altri 100 dollari a notte. Non si tratta certo di lavori gratificanti, dal momento che quando affitta la casa è costretto a dormire in uno stanzino senza neanche la doccia, ma il risultato è un aumento del reddito, che raggiunge i 3000 dollari mensili.
Il metodo di condividere un bene di proprietà per generare reddito – la sharing economy – si è trasformato nella sua àncora di salvezza, consentendogli di raddoppiare le entrate, e funziona a tal punto da spingerlo a cercare altre proprietà da condividere, a cominciare dall’attrezzatura fotografica professionale. È attorno a questo fenomeno che fioriscono siti Internet come TaskRabbit.com, Exec.com e Mechanical Turk.com, dove si incontrano persone determinate a trasformare in capitale beni che possiedono ma che sono desiderati anche da altri. Dal 2009 sono oltre cento le aziende americane nate con l’intento di offrire a proprietari di «oggetti da condividere» redditi minimi ma sicuri.
Joe Kraus, partner di Google Venture, definisce la sharing economy un «vero trend» e vi ha investito, sostenendo i siti RelayRides.com e Sidecar.com dove si condividono automobili. «È un modo per far coincidere necessità di arrotondare il reddito, rispetto per l’ambiente e volontà di avere uno stile di vita diverso» spiega Kraus, secondo il quale si tratta del superamento del tradizionale individualismo americano perché «se finora l’automobile era intesa come uno dei beni personali irrinunciabili ora invece è un mezzo per ottenere altro». La conseguenza è creare dei mercati da beni che finora non erano considerati di valore: un piccolo garage può produrre reddito grazie a ParkingPanda.com, una stanza di casa può diventare l’accogliente residenza temporanea di un animale domestico cliccando su DogVacay.com o la propria bicicletta usata può rendere 20 dollari al giorno grazie a Liquid-bikes.com. Shervin Pishevar, investitore di capitali a rischio, ritiene che le start up grazie alle quali si possono condividere beni e servizi «avranno un grande impatto sull’economia delle città».
La stima del magazine «Forbes» è che nel 2013 le entrate della sharing economy toccheranno i 3,5 miliardi di dollari, con una crescita del 25 per cento rispetto all’anno precedente e la prospettiva di ulteriori incrementi, perché grazie a Facebook si può conoscere il profilo della persona con cui si condivide un bene e usando gli smartphone le condivisioni possono avvenire ovunque. «È l’inizio della transizione da un mondo fondato sulla proprietà a uno organizzato sulla base dell’accesso di beni» assicura Lisa Gansky, fondatrice di Ofoto.com, per lo sharing delle fotografie, che ha venduto a Eastman Kodak.
Tutto è iniziato nel 2008 a San Francisco, quando Brian Chesky e Joe Gebbia, entrambi laureati alla Rhode Island School of Design, crearono il sito Airbedandbreakfast.com per affittare dei letti ad aria compressa da posizionare sul pavimento della loro abitazione. Il successo fu tale che poco dopo, assieme a Nathan Blecharczyk, diedero vita a Airbnb.com, un portale che mette in comunicazione chi ha dello spazio in più da affittare con chi è in cerca di un alloggio, riuscendo a ottenere dal fondo Sequoia Capital investimenti per 600 mila dollari grazie ai quali nel 2011 hanno tagliato il traguardo dei 2 milioni di notti prenotate, fino ad arrivare ai 12 milioni del 2012. Sebbene si tratti di numeri di molto inferiori al miliardo di notti vendute dal settore alberghiero fra gennaio e novembre 2012, si tratta comunque di un’espansione significativa, che porta Greg McAdoo, investitore nel fondo Sequoia, a prevedere che «fra vent’anni il consumo in collaborazione» coinvolgerà centinaia di milioni di persone.1

Il welfare state di Obama

Se la sharing economy è un fenomeno che nasce dalle esigenze dei singoli di superare i tempi di crisi, la ricetta della condivisione della ricchezza è, a livello strategico, il timone dell’amministrazione Obama per soccorrere, rafforzare e rilanciare la classe media che è stata tartassata dalla crisi finanziaria iniziata nel settembre 2008. Da quando si è insediato alla Casa Bianca il 20 gennaio del 2009, il 44° presidente si batte per una redistribuzione della ricchezza nazionale. Una battaglia che ruota attorno a una scelta: aumentare le imposte all’1 per cento dei contribuenti – la fascia più alta – per sfruttare le risorse ottenute al fine di investire a favore della classe media creando posti di lavoro, borse di studio per i college, migliori servizi sanitari e assicurando la sopravvivenza della Social Security, la Previdenza sociale. Le risorse a cui attingere per Obama sono i beni di quella minoranza di americani con redditi oltre il milione di dollari tutelati dagli sgravi fiscali varati da George W. Bush nel 2001 e nel 2003.
In una nazione da sempre ostile all’aumento delle tasse, questo approccio riesce a imporsi, garantendo a Obama la rielezione, perché l’impoverimento causato da crisi e recessione ha dimensioni molto vaste. Per Michael Walzer, anima critica della sinistra liberale e direttore della rivista «Dissent», la riconferma di Obama offre così la possibilità di «completare la costruzione del welfare state in America» iniziata da Franklin Delano Roosevelt che, all’indomani della Grande Depressione del 1929, varò la Social Security, gettando le basi della Previdenza collettiva nell’ambito del New Deal.
Il primo passo di Obama verso il «nuovo New Deal» arriva nel marzo 2010 con la riforma della Sanità che obbliga ogni cittadino ad avere un’assicurazione sanitaria. Tuttavia Walzer ritiene che sia il forte sostegno popolare all’aumento delle tasse per i ricchi a costituire un mandato per procedere verso le prossime tappe: «Occupazione ed educazione», ovvero impiegare il denaro del governo nella creazione di posti di lavoro per i disoccupati e nel facilitare l’accesso alle università per i figli delle famiglie meno abbienti. Obama dimostra di voler andare in questa direzione perché crede in un maggior ruolo del governo federale nell’economia da quando era community organizer a Chicago e, impegnato nel porta a porta nei quartieri più poveri, toccava con mano la necessità di aiuti pubblici per le famiglie disagiate. Questo spiega perché il giornalista Michael Grunwald per descrivere il progetto di Obama di ricostruzione dell’America «dal di dentro» sceglie la formula «The New New Deal»,2 sottolineando una continuità con l’eredità di Roosevelt e di Lyndon B. Johnson che nel 1965 promulgò le leggi su Medicare e Medicaid, l’assistenza sanitaria per gli over 65 e per i più poveri.
Se Obama, nel febbraio 2009, prova a rimettere in moto l’economia con un pacchetto di stimoli fiscali, è perché ritiene che a dover crescere sia il ruolo dello Stato nell’economia. Ma non si tratta di una semplice riproposizione del pensiero di John Maynard Keynes – l’economista britannico teorizzatore dell’importanza del ruolo del governo nell’economia per superare una recessione –, perché l’idea di condivisione della ricchezza di Obama non si limita a una ricetta per rimettere in moto il Pil, ma punta a ricostruire la società dall’interno. L’esempio da seguire che Obama ha in mente non viene dagli studi di Keynes, ma dalle battaglie e dai sacrifici di Abramo Lincoln e Martin Luther King, ovvero i due leader capaci di identificare e sanare, ognuno nel proprio tempo, le ferite storiche più profonde della nazione: la guerra civile e la segregazione dei neri. Completare il New Deal per Obama significa continuare l’opera iniziata da Lincoln e Luther King per creare «una casa comune più unita» rifacendosi sempre al dettato della Costituzione, redatta dai padri fondatori dell’Unione e da lui considerata un documento vivo, capace di adattarsi alle esigenze di ogni tempo. Obama vede così nel governo federale lo strumento per rafforzare la società americana lì dove è più debole, perché «vi sono delle cose che non possiamo fare da soli ma spetta al governo realizzare». Ecco perché le risorse frutto dell’aumento delle imposte per i più ricchi – ottenute con il negoziato sul fiscal cliff che ha portato alla fine del 2012 ad abbattere progressivamente gli sgravi fiscali per singoli con redditi oltre i 400 mila dollari e famiglie oltre i 450 mila dollari – sono il tassello di un mosaico che va oltre l’intenzione di ricostruire le infrastrutture. L’obiettivo è di creare una banca ad hoc, portando nelle scuole i figli delle famiglie meno abbienti, investendo in programmi più ambiziosi come il rafforzamento dei diritti delle donne e dei gay, il processo di legalizzazione dei clandestini e l’impegno per una maggiore coesione familiare, che riguardi soprattutto la comunità afroamericana, a causa dei tanti padri che abbandonano i figli. Quando Obama parla di «ricostruzione della classe media» intende un progetto generazionale che per avere successo ha bisogno di un più alto livello di solidarietà collettiva. È a questo che pensa quando, nel primo discorso sullo Stato dell’Unione dopo la rielezione,3 parla dell’importanza dell’idea di «cittadinanza» intesa come impegno attivo di chi risiede in America al fine di rafforzare la nazione nel suo complesso. Per Obama la «cittadinanza» può essere cementata intervenendo lì dove i diritti dei suoi componenti sono indeboliti, aggrediti, a rischio: dalla riforma del sistema di voto, per garantire a tutti di poter votare, alla riduzione della violenza causata dalle armi da fuoco, per proteggere anzitutto la sicurezza delle giovani generazioni.

Da poveri a consumatori: un nuovo patto sociale

La combinazione fra redistribuzione della ricchezza e superamento delle lacerazioni sociali descrive la volontà di Obama di dare più spazio alla solidarietà in una società che resta fondata sull’individualismo. È una conseguenza dell’impatto della crisi finanziaria del 2008, che ha creato 15 milioni di nuovi poveri e spinto il livello della disoccupazione alle soglie del 10 per cento, indebolendo nella classe media la convinzione che l’economia da sola sia in grado di garantire l’avverarsi dell’American Dream. Le elezioni del 2012 mettono in evidenza la genesi di un nuovo patto sociale alla base della coalizione che rielegge Obama: il presidente si impegna a usare più denaro pubblico per sostenere il benessere dei più poveri e questi aumentano la partecipazione alla vita nazionale, archiviando per esempio la tradizionale ritrosia a votare. È interessante notare, a tale riguardo, come la campagna «Obama for America» sia riuscita con migliaia di volontari a contattare e mobilitare – in Stati come la Pennsylvania e l’Ohio – un gran numero di elettori talmente poveri da non avere neanche la tv o il telefono in casa. Le politiche di Obama sono mirate a rigenerare i ceti meno abbienti assegnando loro più potenzialità: portarli alle urne è solo il primo passo di un processo che punta a farne dei consumatori di beni primari, per aiutare in questa maniera l’industria alimentare e manifatturiera a riprendersi dalle fondamenta.
Lo stadio di Cincinnati, in Ohio, dove Obama pronuncia uno degli ultimi comizi della campagna per la rielezione, è gremito da elettori insoliti: afroamericani da poco maggiorenni, anziani che raramente escono di casa, casalinghe abbandonate dai mariti e con la prioritaria occupazione di crescere i figli. In gran parte si tratta di afroamericani e ispanici provenienti da distretti elettorali dove anche nel 2008 l’affluenza al voto è stata bassa. È un’America ferita dalla povertà, con alle spalle emarginazione e basso livello di educazione, nella quale Obama vede il più prezioso serbatoio della nazione perché riuscendo a motivarla, offrendole le stesse possibilità di successo di ogni altro cittadino, può trasformarsi in un motore di formidabile crescita. Allargando di milioni di consumatori la base del ceto medio. È questa ricetta per trasformare i poveri in consumatori che, puntando ad allargare la base del ceto medio, distingue l’America dalla Cina, dove invece è in atto un processo opposto che vede la crescente divaricazione fra ricchi e poveri, fra metropoli della costa e campagne dell’entroterra. Se in Cina la crescita economica del primo decennio del XXI secolo ha prodotto divaricazioni sociali dalle conseguenze imprevedibili, negli Stati Uniti la crisi finanziaria del 2008 ha innescato invece un processo di consolidamento della classe media.

La rinascita dei centri urbani

Una delle conseguenze del rafforzamento della classe media è quanto sta avvenendo nei centri urbani dove, secondo un censimento del 2010, la popolazione è raddoppiata negli ultimi dieci anni, con una tendenza all’accelerazione. Se nella seconda metà del XX secolo i sobborghi si erano imposti come meta preferita delle famiglie che, vedendo il loro reddito aumentare, cercavano condizioni di vita più agevoli, ora la necessità di lavorare di più spinge single e famiglie giovani a restare nelle città, per non affrontare lunghi trasferimenti in auto che fanno perdere tempo e risorse. A restare in città sono poi i single che hanno perso lavoro e vogliono ritrovarlo, le famiglie che vogliono restare in affitto perché non hanno i mezzi per acquistare una casa nei sobborghi, i professionisti spaventati dal rischio di investimenti immobiliari importanti in aree flagellate dalla crisi dei mutui subprime e, più in generale, tutti coloro che in tempo di difficoltà economiche preferiscono non isolarsi in periferia, forse anche per restare più anonimi. L’età della svolta, suggeriscono le statistiche, sono i quarantun anni: è il momento che nelle ultime due generazioni ha coinciso con la fuga dalle metropoli e che ora invece sempre più spesso vede compiere la scelta opposta.
È stato l’abbandono delle città da parte dei quarantenni a impoverire i centri urbani del Midwest, ma ora la nuova tendenza può portare a una loro rinascita. Per osservare questo fenomeno basta recarsi a Battery Park, a Manhattan, o nell’area di City Hall a Los Angeles, dove l’aumento della popolazione delle famiglie con figli ha portato a migliorare la qualità dei condomini, delle scuole e dei servizi pubblici. Oklahoma City si ispira a tali precedenti nella decisione di ristrutturare settanta scuole del centro urbano per andare incontro a una crescita dei residenti del 24 per cento dal 2010. Fra le conseguenze, da Anaheim in California, a Denver, Colorado, e Dallas, Texas, c’è la genesi di un nuovo tipo di edilizia: se prima nei centri urbani si costruivano in gran parte micro appartamenti per single e coppie ora invece l’offerta riguarda sempre più condomini con abitazioni più grandi, con due o tre camere da letto. Con il proliferare, nei pressi di tali edifici, di negozi di alimentari, spazi pubblici e attività ricreative per bambini. Si tratta di una trasformazione demografica che crea le premesse per una rinascita dei centri urbani, che in alcune regioni dell’entroterra sono divenute delle vere e proprie ghost-town, città fantasma.

La riforma che non può attendere

Sulla strada della condivisione della ricchezza e del rafforzamento del welfare state l’ostacolo maggiore viene dal rischio di un caos fiscale dovuto al debito federale, il cui tetto viene alzato ogni anno dal Congresso attraverso aspri negoziati che hanno portato nel 2011 alla prima riduzione del rating finanziario degli Stati Uniti. Il debito americano è aumentato da 6 trilioni di dolla...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Dedica
  4. Introduzione
  5. 1. Welfare state: la condivisione della ricchezza
  6. 2. Information Technology: il motore della crescita
  7. 3. Shale gas e petrolio: l'indipendenza energetica
  8. 4. Democrazia digitale e Big Data
  9. 5. Libertà su Internet: la sfida ai dittatori
  10. 6. Guerre segrete e armi spaziali per la supremazia strategica
  11. 7. Il modello post-razziale
  12. 8. Immigrazione: legalizzare i clandestini
  13. 9. Il rispetto per i gay: nuova frontiera dei diritti civili
  14. 10. Proteggere il clima e riorganizzare le metropoli
  15. Conclusione
  16. Note
  17. Indice