In punta di forchetta
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In punta di forchetta

Storie di invenzione in cucina

  1. 350 pagine
  2. Italian
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In punta di forchetta

Storie di invenzione in cucina

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Da qualche anno chef osannati come rockstar, libri di ricette e programmi televisivi hanno conquistato un pubblico sempre più vasto: le cucine "postmoderne" hanno completamente rivoluzionato le nostre pietanze, al punto da stravolgere diete e abitudini che negli ultimi decenni si erano un po' fossilizzate. Eppure, nonostante questa profonda fase di cambiamento, sui nostri fornelli e sulle nostre tavole ci sono cose che, salvo qualche piccola miglioria tecnica, resistono da secoli uguali a se stesse: posate, pentole, bicchieri, piatti… Oggetti in apparenza semplici che sono in realtà il risultato di millenni di evoluzione, di modifiche e ripensamenti indissolubilmente legati alla storia dell'uomo e delle sue abitudini: quando gli antichi Romani inventarono la patella, per esempio, non potevano certo immaginare che avrebbe conservato un posto d'onore nelle nostre credenze. Con la penna leggera e ironica dei grandi divulgatori, Bee Wilson – che è anche gourmande e cuoca sopraffina – racconta la storia del mondo dalla prospettiva inedita delle rivoluzioni tecnologiche che hanno interessato le nostre cucine: dalla scoperta del fuoco all'uso del ghiaccio, dall'invenzione della ciotola alla batterie de cuisine di Julia Child, dalle dimore vittoriane di fine Ottocento alle tormentatissime vicende della forchetta, che dall'essere un'arma appuntita associata con il diavolo è diventata il piè indispensabile attrezzo dell'Occidente. Il risultato è un viaggio millenario fra antropologia e storia del costume attraverso ciò che gli uomini hanno utilizzato per preparare e consumare il loro cibo; una rif lessione su come le piccole rivoluzioni della tavola siano state scatenate da grandi rivoluzioni politiche o, viceversa, mutamenti del modo di nutrirsi siano la causa di avanzamenti impensabili. Una lezione: perché la storia si ripete sempre, e il carosello tra produttori e consumatori è uguale nei secoli; una dichiarazione d'amore per la cucina.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2013
ISBN
9788858660119

1

Pentole e padelle

«Fa’ la pappa, pentolino.»
Fratelli Grimm, La pappa dolce, 1819
«Il bollito è la vita, l’arrosto è la morte.»
Claude Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola, 1968
La pentola che uso più spesso non è nulla di straordinario. L’ho acquistata per posta. Faceva parte di una batteria di dieci pezzi in offerta speciale, di cui ho visto la réclame in un inserto della domenica poco dopo essermi sposata, quando l’idea di avere un set di pentole scintillanti tutte uguali – a differenza dei tegami smaltati, tutti spaiati e sbeccati, dei tempi dell’università – mi ha fatta sentire, per qualche misteriosa ragione, adulta. La batteria era in acciaio inossidabile. «Ordina subito e risparmia. In più riceverai in omaggio un bollilatte!» diceva l’annuncio pubblicitario. E io non ho potuto resistere. Quelle pentole ne hanno viste di cotte e di crude. Abbiamo usato a lungo il bollilatte per i cereali della colazione di mia figlia, anche se purtroppo, non avendo il beccuccio, a volte capitava che il liquido si rovesciasse sul tavolo. Poi, un bel mattino, il manico si è staccato. Nel complesso, tuttavia, si tratta di pentole affidabili: dopo tredici anni non sono riuscita a distruggerne neanche una. Sono sopravvissute a risotti bruciati, arrosti trascurati e caramelli appiccicosi. Forse l’acciaio inossidabile non conduce bene il calore come il rame, non lo trattiene come la ghisa o l’argilla e non è elegante come il ferro smaltato, ma dà piena prova di sé durante il lavaggio.
Illustrazioni
Si è dimostrata particolarmente robusta una pentola di medie dimensioni, dotata di coperchio e di due piccoli manici ad anello. Il termine tecnico, credo, è marmitta, anche se il vocabolo più azzeccato sarebbe il francese fait-tout, perché ci puoi veramente cucinare qualsiasi cosa. Viene messa sul fuoco per il porridge del mattino e per il riso della sera. Ha conosciuto l’innocua morbidezza della crema pasticcera e del budino di riso, l’ardore speziato del curry e zuppe a non finire, dalla vellutata di crescione al minestrone pepato. È la pentola che uso tutti i giorni. Troppo piccola per la pasta o per il brodo, mi serve per preparare le pietanze più semplici. Accendi il bollitore, versa l’acqua nella pentola, aggiungi il sale, butta dentro i broccoli/i fagiolini/le pannocchie; coperchio sì o coperchio no a seconda dell’umore; fa’ bollire per qualche minuto; scola, e il gioco è fatto. Non c’è nulla di stimolante o di innovativo in questo processo. Di solito i francesi scherniscono questo metodo culinario, chiamandolo à l’anglaise, che è un insulto, dato il loro giudizio sul cibo britannico. Uno scienziato transalpino, Hervé This, arriva persino ad accusare questo procedimento di «povertà intellettuale». I cuochi francesi, invece, preferiscono brasare le verdure, come le carote, in pochissima acqua con un po’ di burro, stufarle come nella ratatouille o ancora gratinarle in forno con il brodo o la panna per estrarne appieno la dolcezza: la bollitura è considerata – forse a ragione – il metodo più insulso.
Come forma di tecnologia, però, la bollitura è tutt’altro che ovvia. La pentola trasformò le possibilità di cottura. La capacità di lessare qualcosa – in un liquido che poteva esaltare il sapore del cibo oppure no – fu un grande passo avanti rispetto al semplice fuoco. È difficile immaginare una cucina senza pentole, e dunque anche rendersi conto di quante pietanze dobbiamo a questo utensile elementare. Le pentole permisero di consumare un numero assai maggiore di alimenti: molte piante che prima erano tossiche o almeno indigeribili diventavano commestibili dopo essere state bollite per diverse ore. Le pentole segnano il passaggio dal semplice riscaldamento dei cibi alla gastronomia: la miscelazione calma e ponderata degli ingredienti in un recipiente fabbricato dall’uomo. Il primo metodo di cottura fu quello arrosto o alla griglia, le cui prime tracce risalgono a centinaia di migliaia di anni fa. Le pentole di argilla, invece, comparvero solo nove o diecimila anni orsono. Nella valle di Tehuacán, nell’America centrale, sono state rinvenute anche pentole di pietra datate intorno al 7000 a.C.
La cottura arrosto è un procedimento diretto e inequivocabile: il cibo crudo incontra la fiamma e si trasforma. La bollitura e la frittura sono metodi indiretti che, oltre al fuoco, richiedono un recipiente impermeabile e refrattario. Il cibo assorbe il calore solo attraverso un liquido, l’olio nel caso della frittura e l’acqua in quello della bollitura. È un progresso rispetto al fuoco puro e semplice, specialmente quando si cuoce qualcosa di delicato come un uovo. Quando lo si bolle, ci sono tre elementi che lo proteggono dall’assalto furioso delle fiamme: il guscio, il metallo del tegame e l’acqua gorgogliante. Quest’ultima, tuttavia, non si trova molto spesso in natura.
Le sorgenti geotermiche sono presenti in Islanda, in Giappone e in Nuova Zelanda, ma sono abbastanza rare da meritare il titolo di meraviglie naturali. Nell’epoca preindustriale, vivere vicino a una sorgente calda doveva essere come avere in cortile un samovar delle dimensioni di un lago: un lusso inimmaginabile. I maori neozelandesi che abitavano vicino alle pozze ribollenti di Whakarewarewa erano soliti usarle per cucinare cibi di vario tipo – radici commestibili, carne – che venivano messi in sacchi di lino e lasciati a mollo nell’acqua. Una tecnica analoga è stata utilizzata per millenni nelle regioni geotermiche dell’Islanda. In quel Paese si fa tuttora un pane di segale chiudendo l’impasto in un barattolo e seppellendolo nella terra calda vicino alle sorgenti per cuocerlo a vapore (abitualmente ci vogliono circa ventiquattr’ore).
Le testimonianze archeologiche non sono chiare, ma è ragionevole ipotizzare che i popoli antichi residenti nei dintorni dei geyser provarono per migliaia di anni a immergere gli alimenti crudi nel vapore vorticante, attaccati a un bastone o a una corda che, in teoria, permettesse di tirarli fuori una volta cotti. In teoria, appunto. A meno che i nostri antenati non fossero molto più abili di noi, molte porzioni di ottimo cibo saranno andate smarrite nell’acqua vulcanica, come crostini che precipitano in una pentola di fonduta.
Ciononostante la cottura nei geyser ha molti vantaggi rispetto a quella sul fuoco: richiede meno lavoro, perché si evita la fatica di creare una fonte di calore, ed è anche più delicata con gli ingredienti. Quando si cuoce direttamente sulla fiamma, è difficile evitare che l’alimento venga bruciato fuori e crudo dentro. Il cibo lasciato a mollo nell’acqua bollente, invece, se la prende comoda, perciò qualche minuto in più o in meno non fa alcuna differenza.
La maggior parte delle persone, tuttavia, non vive vicino a una sorgente geotermica. Se conosceste solo l’acqua fredda, come potrebbe venirvi in mente di riscaldarla per cucinare? L’acqua e il fuoco sono opposti, anzi nemici. Se aveste dedicato ore ad accendere il fuoco – raccogliere la legna, strofinare la selce, impilare gli stecchi –, perché dovreste metterlo in pericolo portando l’acqua vicino al prezioso focolare? Per noi, con i nostri fornelli e bollitori elettrici che si possono riaccendere facilmente, la bollitura è un’attività molto prosaica. Noi siamo abituati alle pentole, ma la cottura in acqua calda non sarà sembrata un passo ovvio a chi non l’avesse mai sperimentata.
I primi esempi di bollitura richiesero dunque uno sforzo di inventiva: fabbricare un recipiente per cuocere dove prima non ne erano mai esistiti è un’impresa di enorme creatività. Nella cottura geotermica, benché si possano impiegare sacchi e corde, questi ultimi non sono indispensabili: la stessa terra contenente l’acqua gorgogliante funge da pentola. In mancanza di sorgenti calde, invece, la bollitura impone la presenza di un contenitore sufficientemente robusto da resistere al calore e capace di impedire la fuoriuscita del cibo.
Illustrazioni
Prima che il primo artigiano fabbricasse la prima pentola, certi alimenti si potevano cuocere nei loro stessi recipienti. I crostacei e vari rettili, in particolare le tartarughe, hanno le stoviglie incorporate; le conchiglie vengono tuttora usate come contenitori e utensili. Quando si mangia un piatto fumante di moules marinières, si sceglie innanzitutto un mitilo da utilizzare come comoda pinza per estrarre la carne degli altri molluschi. Analogamente, gli antichi yahgan indigeni della Terra del fuoco usavano le conchiglie dei mitili a mo’ di leccarde, per raccogliere il grasso delle foche mentre arrostivano. Secondo diversi antropologi, il passo da questa consuetudine alla cottura in appositi contenitori fu breve. Le conchiglie sono state considerate spesso una tappa lungo la strada verso l’avvento delle pentole costruite dall’uomo. Ma davvero è così?
Un mitilo non è abbastanza grande per bollire o friggere qualcosa, a parte il suo stesso contenuto: raccogliere gocce di grasso è più la funzione di un cucchiaio che di una pentola. I nativi americani furono tra coloro che utilizzarono le valve delle conchiglie come cucchiai e le conchiglie affilate dei mitili come coltelli per tagliare il pesce, ma a quanto ne sappiamo non le impiegarono come pentole. Un pentola di mitilo perlata – un pensiero allettante, vero? – sarebbe stata abbastanza capiente solo per la cena destinata a un topolino. Ma cosa possiamo dire dei molluschi più grandi e dei rettili? Secondo alcuni, l’esempio della cottura nei gusci di tartaruga – praticata da varie tribù amazzoniche – dimostra che la bollitura era «fattibile» molto prima dell’invenzione del vasellame. Si tratta indubbiamente di un’idea romantica, ma appurare se quei gusci venissero usati per cuocere qualcosa di diverso dalle tartarughe è un altro paio di maniche.
Gusci a parte, esistono candidati più plausibili per il ruolo di primi recipienti di cottura. Varie zucche dalla scorza spessa si trasformarono in comodissime ciotole, bottiglie e pentole preistoriche. Un altro tipo di recipienti vegetali furono gli steli di bambù scavati, diffusi in tutta l’Asia. Il bambù e le zucche, tuttavia, si trovavano solo in certe parti del mondo. Un involucro più universale, quando si scoprì che era possibile cuocere la carne, fu lo stomaco dell’animale ucciso, un contenitore bell’e fatto che era insieme impermeabile e, in certa misura, atermico. L’haggis, il piatto a base di frattaglie di pecora tanto amato dagli scozzesi, è un ritorno all’antica tradizione di lessare il contenuto della pancia dell’animale nel suo stesso stomaco. Nel quinto secolo a.C. lo storico Erodoto riferì che gli Sciti nomadi ricorrevano proprio a questa tecnica: «In questo modo, il bue o qualunque altro animale sacrificale viene costretto a bollire se stesso». Ingegnoso, senza dubbio. Questo metodo dimostra quanto gli esseri umani siano stati bravi a trovare procedimenti efficaci per prepararsi la cena quando non avevano pentole, padelle, Teflon o teglie antiaderenti, e quando le batterie di rame luccicante non penzolavano ancora dai ganci alle pareti delle cucine.
Non c’è metodo più geniale della cottura su pietre calde, praticata in tutto il pianeta a partire da almeno trentamila anni fa. Dopo aver arrostito i cibi direttamente sul fuoco per millenni, gli uomini capirono infine come sfruttare il calore in modo meno diretto. Secondo alcuni, questo cambiamento fu la maggiore innovazione tecnologica nella preparazione alimentare fino ai tempi moderni.
Illustrazioni
Ecco come creare un forno a fossa. Prima scavate una grossa buca nel terreno foderandola di sassi per renderla vagamente impermeabile. Poi riempitela d’acqua. Potete saltare questa fase se scavate sotto la falda freatica, nel qual caso la fossa si colmerà in automatico (in Irlanda ci sono resti di migliaia di vasche analoghe, scolpite nelle torbiere acquose).
In seguito prendete qualche altro sasso, preferibilmente grossi ciottoli fluviali, e riscaldatelo sul fuoco ad altissima temperatura. Nell’antichità, le pietre raggiungevano i cinquecento gradi, diventando più calde di un moderno forno per la pizza. Gettatele nell’acqua della fossa, usando un attrezzo come una pinza di legno per evitare di ustionarvi le mani. Quando ci sono sassi a sufficienza, il liquido comincerà a bollire e sarà possibile immergervi il cibo. Infine coprite con un coperchio isolante di torba, foglie, terra o pelli animali. Man mano che la temperatura dell’acqua scende, continuate ad aggiungere sassi caldi per mantenere l’ebollizione costante finché il pasto è cotto.
Esistevano molte varianti di questa tecnica: a volte le pietre venivano riscaldate direttamente nella fossa anziché su un fuoco separato; c’erano due sezioni adiacenti, una per l’acqua e l’altra per il fuoco e i sassi. In alcune occasioni il cibo veniva cotto a vapore anziché bollito. Le radici commestibili o i pezzi di carne si potevano avvolgere in foglie e disporre a strati nella buca con le pietre ma senza acqua, nel qual caso la fossa somigliava più a un forno che a un bollitore.
Questo metodo di cottura è utilizzato tuttora durante i clambakes, una sorta di picnic in riva al mare tipico del New England, dove gli squisiti molluschi appena raccolti vengono cotti sulla spiaggia e disposti a strati in una fossa rivestita di alghe, sassi caldi e legname galleggiante, che li mantengono succosi. Questo metodo è praticato anche durante i luau hawaiani, in cui un maiale avvolto in foglie di banano o di taro viene sepolto in una fossa calda (imu) per quasi una giornata e infine disseppellito con grandi cerimonie ed esultanza. Nel Vecchio mondo, tuttavia, la bollitura con le pietre non sopravvisse a lungo dopo l’avvento del vasellame.
È facile, dunque, dare per scontato che la cottura con i sassi sia semplicemente una tecnologia inferiore alla bollitura in pentola. Ma è vero? Si tratta sicuramente di una tecnica scomoda e laboriosa per prepararsi un pasto caldo. La fossa sarebbe inutilizzabile per i nostri usi abituali: la pasta, le patate e il riso si perderebbero nel fango, e non varrebbe la pena fare tanta fatica per cuocere le uova o gli asparagi, che richiedono solo qualche minuto.
La cottura con le pietre calde, però, fu una tecnologia perfetta per gli scopi per cui veniva impiegata dai cuochi del passato. Era l’ideale per cucinare animali interi, come dimostra l’esempio del maiale hawaiano. L’altro aspetto interessante di questa pratica fu la possibilità di consumare numerose piante selvatiche che altrimenti sarebbero state più o meno immangiabili. Gli alimenti solitamente cotti nel calore lento e umido di un forno di questo tipo erano perlopiù bulbi e radici tuberose ricche di inulina, un carboidrato che non può essere digerito dallo stomaco umano (è presente nel topinambur, da cui i suoi famigerati effetti flatulenti). La cottura con le pietre calde modificava queste piante attraverso l’idrolisi, un processo che separa il fruttosio digeribile dal carboidrato, anche se in alcuni casi occorreva cuocere le piante fino a sessanta ore affinché avesse luogo. Un piacevole effetto collaterale della cottura prolungata era il sapore dolcissimo che conferiva anche ai bulbi selvatici meno stuzzicanti.
Alcuni popoli erano così affezionati ai forni di terra e alla bollitura in fossa che non considerarono le pentole una tecnologia superiore o addirittura necessaria. I polinesiani della prima età cristiana – coloro che viaggiarono fino alle isole del Pacifico orientale nel primo millennio d.C., raggiungendo le Hawaii, la Nuova Zelanda e l’isola di Pasqua – sono un affascinante esempio di popolo che, pur conoscendo le pentole da migliaia di anni, successivamente le abbandonò. Dall’800 a.C. circa fabbricavano vari tipi di vasellame, perlopiù terraglie cotte a bassa temperatura, fatte di argilla mescolata con sabbia o conchiglie. Tuttavia, quando approdarono sulle isole Marchesi intorno al 100 d.C., smisero improvvisamente di produrlo e decisero di rinunciare ancora una volta alle pentole.
In passato si credeva che il motivo di questa scelta fosse la mancanza di argilla nelle loro nuove patrie insulari, ma si tratta di un’ipotesi sbagliata: questo materiale infatti esisteva, anche se in luoghi piuttosto impervi, ad altitudini elevate. Trent’anni fa, l’antropologa neozelandese Helen M. Leach propose una spiegazione completamente nuova per l’enigma dei polinesiani: cucinavano senza pentole perché non ne vedevano la necessità. Forse le cose sarebbero state diverse se si fossero cibati di riso, ma la loro dieta era ricca di ortaggi amidacei, come igname, taro, patate dolci e frutti dell’albero del pane, che cuocevano meglio con le pietre calde piuttosto che nelle pentole.
Perciò, sì, è possibile bollire senza pentole. Il rifiuto polinesiano del vasellame è un utile promemoria del fatto che anche le tecnologie culinarie apparentemente indispensabili non vengono adottate in tutto il mondo. Alcuni cuochi si rifiutano di tenere in casa una padella (come se la sua presenza costringesse a consumare eccessive quantità di grassi); i crudisti si guardano bene dall’usare il fuoco, e probabilmente da qualche parte c’è qualcuno che preferisce evitare l’impiego dei coltelli (sicuramente esistono ricettari per bambini che propugnano l’utilizzo delle forbici). Io sono l’opposto dei polinesiani. Reputo le pentole e le padelle arnesi insostituibili, divinità domestiche di scarse pretese. Pochi momenti della giornata sono più appaganti di quelli in cui poso una pentola sul fornello, con la certezza che di lì a breve la cena sarà pronta, spandendo un profumino irresistibile in tutta la casa. Non riesco a immaginare di vivere senza.
Illustrazioni
Una volta che le pentole ebbero preso piede, cominciammo a provare forti sentimenti nei loro confronti. Il vasellame è strettamente personale. I dowayo del Camerun, per esempio, usano diversi modelli per persone diverse (la ciotola di un bambino si distingue da quella di una vedova) e hanno dei tabù che impediscono loro di mangiare dal recipiente destinato a un altro.
Molti di noi si affezionano a particolari contenitori, trasformando in feticcio una tazza o un piatto. Posso utilizzare una forchetta qualsiasi e non mi importa se qualcun altro l’ha usata prima di me (purché sia ragionevolmente pulita), ma il vasellame è un’altra questione. Avevo una grossa tazza con le facce dei presidenti americani, che mio marito aveva portato a casa da un viaggio a Washington e in cui bevevo il tè ogni mattina. Non aveva lo stesso sapore nelle altre tazze; era una parte fondamentale del mio rituale mattutino. Poi i volti dei presidenti sono sbiaditi a poco a poco ed è diventato difficile distinguere Chester Arthur da Grover Cleveland. A quel punto, la tazza ha iniziato a piacermi ancora di più. Se la vedevo tra le mani di qualcun altro, in cuor mio avevo la sensazione che quella persona stesse camminando sulla mia tomba. Alla fine è andata in frantumi nella lavastoviglie, il che, in un certo senso, è stato un sollievo. Non l’ho mai rimpiazzata.
I frammenti o «cocci» di ceramica sono spesso le tracce più durevoli lasciat...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Introduzione
  5. 1. Pentole e padelle
  6. 2. Il coltello
  7. 3. Il fuoco
  8. 4. Le dosi
  9. 5. Macinare
  10. 6. Mangiare
  11. 7. Il ghiaccio
  12. 8. La cucina
  13. Bibliografia
  14. Approfondimenti
  15. Ringraziamenti