Gli eroici furori
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Gli eroici furori

  1. 392 pagine
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Gli eroici furori

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L'entusiasmo e il furore come mezzi per raggiungere la conoscenza della verità. Il sonetto come espediente narrativo per trasmettere suggestioni filosofiche del tutto nuove e rivoluzionarie per l'epoca. Sono solo due aspetti di quest'opera che può esser considerata una testimonianza straordinaria del coraggio intellettuale e dell'originalità teorica di Giordano Bruno. Gli eroici furori rappresentano una tappa fondamentale della "nolana filosofia". Stampati a Londra nel 1585 - in un periodo per molti versi decisivo, in cui Bruno sviluppa in modo organico i motivi centrali della propria ricerca - raccolgono gli esiti di un confronto serrato con la tradizione neoplatonica e aristotelica, e sviluppano una teoria della conoscenza intesa come autentica riforma interiore, per trasformare il destino dell'uomo, strutturalmente limitato e finito, aprendolo all'esperienza della verità infinita.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858660324

Introduzione

IL CANTICO DEI CANTICI TRA IL DE UMBRIS IDEARUM E GLI EROICI FURORI.

1. I dialoghi De gli Eroici furori — composti a Londra nel 1585, pubblicati per i tipi dello stampatore John Charlewood e dedicati a Philip Sidney — rappresentano una tappa fondamentale della «nolana filosofia»: l’opera — estremamente complessa, densa, stratificata — si configura, infatti, come uno straordinario «trattato sull’entusiasmo», che, volta per volta, modula prosa e poesia, e in cui suggestioni schiettamente autobiografiche si intrecciano e si fondono con i temi-cardine della tradizione platonica e neoplatonica.1
Temi e immagini straordinariamente variegati, dunque; e, tuttavia, una in particolare è la fonte cui Bruno si dichiara esplicitamente debitore: «avevo pensato — scrive — di donar a questo libro un titolo simile a quello di Salomone, il quale sotto la scorza d’amori ed affetti ordinarii contiene similmente divini ed Eroici furori, come interpretano gli mistici e cabalistici dottori; volevo, per dirla, chiamarlo Cantica».2
Ricordato in queste pagine come modello — stilistico e concettuale — dei Furori, il Cantico dei Cantici è, senza dubbio, un testo caro al Nolano, che già nel 1582 introduce la prima, importante sezione del De umbris evocando — in toni altamente positivi — l’immagine della bella Sulamita3 e che, pochi anni dopo, arricchisce uno dei passi teoreticamente più interessanti del De monade attraverso una fitta trama di riferimenti al poema del «sapientissimus Hebraeorum».4
Dagli scritti parigini fino ai poemi francofortesi, dunque, il ricordo del poema biblico continua ad agire sulla riflessione di Bruno, assumendo un peso ed un significato diverso all’interno delle varie opere: nel De umbris, i versi di Salomone alludono al vincolo che stringe insieme individuo e verità; nei Furori, esprimono la consapevolezza di una esperienza interiore estrema, celata sotto la «scorza» delle immagini erotiche; nel cuore del De monade — in polemica netta con le dottrine sterili di quanti non hanno colto nell’ombra nient’altro che il «prope nihil» in cui si estenua la pienezza dell’essere — portano in primo piano la centralità dell’ombra, fulcro della comunicazione tra umano e divino. Ma, a ben vedere, è possibile cogliere — nella molteplicità dei toni — un dato costante: nei versi del Cantico dei Cantici, Bruno individua lo strumento più efficace per esprimere la sovrabbondanza del principio divino, che si lascia riafferrare solo attraverso il velo dei simboli; inoltre, il poema biblico si segnala per la forza con cui riesce a trasfigurare i moduli tradizionali delle vicende amorose, raffigurando in modo icastico le tappe del percorso — lento, difficile e mai perfettamente concluso — che consente all’uomo di riafferrare, sia pure in forme umbratili, il «primo vero e bene».
Nel recupero, costante e meditato, delle battute di Salomone è dunque possibile scorgere uno tra i più vistosi elementi di continuità tra De umbris idearum e gli Eroici furori: due testi apparentemente lontani sia per ispirazione sia per epoca di composizione, ma in realtà uniti da una ricca tessitura di riferimenti, su cui numerosi studi hanno posto l’accento, muovendo da prospettive diverse.
Il poema del «sapientissimo tra gli Ebrei» offre così un punto di vista privilegiato e consente di individuare con sufficiente chiarezza i modi in cui Bruno, negli Eroici furori, recupera e problematizza concetti già abbozzati nel trattato parigino, all’interno di una finissima, lucida analisi del doppio limite — ontologico e gnoseologico — in cui si muove l’uomo e del processo di affinamento che può, invece, trasformare una vicenda «accidentale» e transeunte in una esperienza della verità suprema.
Non si tratta, certamente, di materiale teorico originale: a partire da Origene, questi temi sono variamente presenti nei commenti patristici al Cantico dei Cantici, dove il motto pronunciato dalla Sulamita — «sub umbra sedi» — si carica, fin dall’inizio, di una ambiguità radicale.. Secondo una linea interpretativa che fa capo al celebre brano della Repubblica di Platone,5 l’immagine dell’ombra in cui siede la sposa viene infatti declinata in chiave «esistenziale», fino a diventare metafora della condizione di miseria in cui versa l’uomo nel corso dell’esistenza terrena. Ma la «sessio» della Sulamita, emblema di un rapporto complesso, in cui la sproporzione tra temporale ed eterno si attenua, senza tuttavia annullarsi completamente, è ugualmente interpretata come figura dell’Incarnazione e posta a sigillo del momento di massima comunione tra divino e umano. Da Origene a Gregorio di Nissa, a Gregorio Magno, da Bernardo di Clairvaux e Guglielmo di Saint-Thierry,6 l’esegesi del Cantico dei Cantici si intreccia così, ininterrottamente, con il grande motivo — platonico e neoplatonico — dell’ombra.
Una tradizione ben nota: gli stessi commenti origeniani al Cantico dei Cantici — pubblicati da Erasmo a Basilea nel 1536 — erano stati più volte ristampati tra il 1545 e il 1571, e compaiono anche in una seconda edizione degli scritti esegetici di Origene, curata da Gilbert Genebrard e uscita a Parigi nel 1574.7
Non stupisce, dunque, che il ragionamento svolto da Bruno nel De umbris si arricchisca di termini e concetti ricorrenti nell’esegesi di un testo così fortunato; più importante, invece, è notare come, tra le numerose suggestioni offerte dal poema biblico, una in particolare sia l’immagine che si impone in questa prima testimonianza della «musa nolana». Fin dalle prime battute, l’attenzione dell’autore si rivolge a un solo, significativo, versetto: «sub umbra eius quem desideraveram sedi». È dunque a partire da quest’unico spunto — destinato a tornare, a distanza di poche pagine, in passi di grande rilievo speculativo — che Bruno elabora il doppio motivo dell’ombra quale limite costitutivo dell’uomo e, allo stesso tempo, quale luogo di una esperienza privilegiata. Si tratta di passi estremamente meditati: nell’intentio prima del De umbris, il quadro teorico delineato dal motto dell’Ecclesiaste — «omnia vanitas» — sembra confermato anche dalle parole della Sulamita. Prigioniero nell’orizzonte della «vanitas», l’uomo non può accedere senza mediazioni al «campum veritatis», né può accostarsi direttamente alla luce divina: la forma più alta di felicità consiste pertanto nel «sedersi» «sub umbra veri bonique». E tuttavia, pur muovendo dalla messa a fuoco del limite opposto all’uomo, il ragionamento di Bruno introduce subito una precisazione importante: «non dico — scrive — all’ombra del vero e del bene naturale e razionale (da qui infatti si direbbe falso e male), ma del vero e del bene metafisico, ideale e soprasostanziale».8
Attraverso un lessico di chiara matrice neoplatonica e dionisiana, Bruno definisce e distingue due livelli dissimili dell’essere. Da un lato, la dimensione del vero e del bene «naturale» e «razionale», dove l’ombra richiama l’intreccio inestricabile di vero e di falso: per questo motivo, appunto, il vero e il bene secondo natura e ragione diventano necessariamente il luogo in cui si esprimono anche il «falsum» e il «malum». Opposta è la situazione se si guarda alla dimensione del vero e del bene «metafisico, ideale e soprasostanziale», rispetto al quale l’ombra non si dà più come un limite, ma rappresenta, invece, la via privilegiata della comunicazione.
Riecheggiano, in queste pagine di Bruno, motivi precisi dell’esegesi tradizionale: accanto agli spunti origeniani,9 si impongono suggestioni tratte da Bernardo di Clairvaux che proprio nella «sessio sub umbra» aveva colto il segno di un privilegio rarissimo, grazie al quale alcune anime elette possono sottrarsi all’ombra naturale e porsi nell’ombra che promana — direttamente — dalla verità divina.10 Nel De umbris, tuttavia, il ragionamento si sviluppa secondo linee del tutto indipendenti dalla fonte cui si ispira: innestata sul solo vigore della mente umana, la capacità di conquistare l’immagine umbratile del «primo vero e bene» non è una «grazia» concessa a pochi, ma scaturisce da uno sforzo di concentrazione che non tutti, né sempre, sono in grado di realizzare.
È un punto teorico che si impone immediatamente, e lo dimostrano i lemmi impiegati per descrivere la «sessio sub umbra». «Adeptio», la definisce Bruno, quasi a sottolineare che la perfezione non è né uno stato naturale, né un beneficio divino ma costituisce, all’opposto, una «conquista», termine e premio di un processo di affinamento che coinvolge tutte le potenze cognitive superiori, E ancora, precisando ulteriormente la propria posizione, aggiunge che la «sessio» della Sulamita germina da un «appulsus», da una tensione, cioè, che proietta l’uomo oltre l’orizzonte naturale dell’ombra e lo avvicina alla traccia del vero e del bene assoluti custoditi nella mente.
Richiamandosi alla dottrina dell’«appulsus in mentem»11 l’autore evoca un concetto importante, soprattutto alla luce della riflessione svolta — pochi anni dopo — negli Eroici furori.
Nell’ultimo dialogo londinese, infatti, la dottrina dell’«appulso» torna continuamente, e si intreccia con l’analisi delle tappe che segnano l’ascesa dell’uomo verso «il mondo intelligibile»: un processo squisitamente interiore, che — come Bruno sottolinea in toni espliciti — si determina «non per raggione ed ordine di moto locale, ma solamente per appulso d’una e d’un’altra potenza e facultade». Nei Furori, così come nel De umbris, l’esperienza della verità — segnata da una concentrazione sempre più intensa, per cui «il senso monta a l’imaginazione, I’imaginazione a la raggione, la raggione a l’intelletto, l’intelletto a la mente» — trova il suo compimento nella mente, quando «l’anima tutta si converte in Dio e abita il mondo intelligibile».12
«Appulso» verso la mente, tensione ad «abitare» il «mondo intelligibile»: questa pagina dei Furori è tutta tramata da riferimenti lessicali che ricordano da vicino la dottrina dell’«appulsus» e del «campus veritatis» abbozzata nel De umbris. In entrambe le opere, dunque, viene ribadito un elemento teorico centrale: frutto di una rinnovata conoscenza di sé e di uno straordinario affinamento della ragione, la perfezione dell’uomo non germina da un dono gratuito della divinità che attrae a sé l’uomo e si comunica senza veli. L’impresa «eroica» descritta prima attraverso le battute della Sulamita, poi, nei Furori, attraverso il doppio registro del Cantico dei Cantici e della vicenda di Atteone rimane del tutto estranea a qualsiasi suggestione misticheggiante.
E così, sebbene il Cantico dei Cantici — a partire dal Medioevo e oltre — abbia offerto ai suoi interpreti il lessico più adeguato per cantare l’unione dell’anima con Dio, né il De umbris, né i Furori prospettano una conclusione simile. Nel trattato mnemonico composto a Parigi, l’«appulsus» con cui l’uomo si concentra nella mente non culmina nella contemplazione del divino, ma si arresta a un suo riflesso umbratile e offuscato — un «quid imaginis», come nota Bruno —. E non diversamente, nella seconda parte dei Furori, Atteone non può in alcun modo vedere «l’universale Apolline e luce assoluta», ma solo «la sua ombra, la sua Diana, il mondo, l’universo, la natura».13
Lo sforzo cognitivo dell’uomo appare dunque delimitato da termini insuperabili: eppure, Bruno insiste continuamente sulla possibilità — e sulla necessità — di stabilire un rapporto più profondo con la verità assoluta. E pertanto — nel De umbris e nei Furori — l’ombra «naturale» viene costantemente distinta e contrapposta all’ombra che promana direttamente dalla luce divina, poiché proprio su questa...

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