Seren la Celta
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Seren la Celta

Giallo alla corte di Nerone

  1. 333 pagine
  2. Italian
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Seren la Celta

Giallo alla corte di Nerone

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Informazioni sul libro

Una grande frustata a sangue e le due giovanissime figlie stuprate. Per vendicarsi del vile atto terroristico la principessa Seren intreccia la sua vita con quella mostruosa di Nerone e di un serial-killer storico. Dopo sbalorditive vicende e un tormentato amore, qualcosa di imprevedibile placherà il Moloc assetato di sangue cui gli uomini periodicamente si immolano. Ambientato nella Britannia romana e nella fastosa e corrotta Roma imperiale, impeccabile quanto ai dettagli storici, Seren la Celta è un thriller di irresistibile potenza e diabolica suspense che aggiunge sostanza e profondità al genere.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858659380

PARTE SESTA

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52

Il turista che oggi dal Foro romano levasse gli occhi alle grandiose rovine del Palatino noterebbe una serie di archi sovrapposti, sotto i quali scure caverne fanno pensare alle orbite di teschi mostruosi.
Venti secoli e la violenza degli uomini hanno depredato le residenze imperiali dei marmi e delle statue, sino alle nude strutture e alle fondamenta. Ma dai giorni della “Roma quadrata” di Romolo sino alla caduta dell’impero romano d’occidente, quei resti ormai muti sono stati testimoni degli intrighi e degli eventi memorabili, della gloria e della piaggeria, delle cruente lotte di famiglia e degli oscuri drammi internazionali che hanno rappresentato per millenni la storia della nostra civiltà.
Dopo che l’imperatore aveva lasciato il “novello sposo” Doriforo per raggiungere la moglie Ottavia, Seren era rimasta sola nella stanza del connubio.
Era ancora sconcertata dalla saga del leone e sconvolta al pensiero dell’Egiziano cui l’imperatore intendeva fornire una porzione giornaliera di carne umana, quando nella stanza aveva fatto irruzione il pretoriano armato: «Seguimi!»
La guardia l’aveva condotta in una cella in soffitta: «Stanotte dormirai qui. Domani l’imperatore deciderà cosa fare di te».
Le aveva indicato un pezzo di pane sulla paglia del giaciglio, la brocca con l’acqua e il secchio sanitario.
«Comportati bene e avrai tutto da guadagnare!»
Seren aveva notato delle scritte sbiadite sui muri, ma il carceriere, uscendo, si era tirato appresso la porta, togliendole la luce necessaria a leggerle. Così era rimasta immobile nel mezzo della minuscola cella, come se una mano di ferro l’avesse inchiodata al suolo. Poi si era inginocchiata e aveva invocato la protezione di Andraste.
Non capiva perché fosse lì, e che volesse da lei l’imperatore.
Agrippina le aveva detto che Nerone era indebitato sino al collo, e avrebbe quindi mostrato molto interesse per il tesoro di Anglesey. Invece, senza una sola parola di spiegazione, anzi, prima ancora di averla incontrata, l’aveva fatta rinchiudere.
L’imperatore non era comparso né il mattino né il pomeriggio successivi, e anche i graffiti, scritti in lingue a lei sconosciute, erano rimasti muti.
A quella solitudine, Seren avrebbe preferito una cella comune. Per quanto odiosi i loro rapporti e angoscianti gli eterni complotti di fuga, i vagabondi, i banditi e gli assassini godevano almeno del vantaggio di qualche presenza umana. Persino gli schiavi che trascinavano le proprie catene nei campi stavano meglio di lei.
Almeno potevano respirare aria fresca, guardare il cielo e scambiare qualche parola coi compagni.
Che era accaduto a sua madre e a sua sorella? E a Duncan? L’avrebbe mai riabbracciato, riascoltato mentre tesseva i suoi piani entusiastici e azzardati?
Quanto a lei, non le erano interlocutori, ormai, che il suo breve passato, il fosco presente e il buio futuro.
Diciassette anni di vita, per poi finirla rimuginando sulla notte eterna.
Perché certo, se era lì, quale che fosse la ragione, le cose si mettevano male.
Forse al peggio.
«“Una nox dormienda”» mormorò.
Sì, il poeta Catullo aveva ragione, una lunga notte senza risveglio.
Ma forse, chissà, forse è meglio così. Meglio che librarsi sulle ali della speranza, come dicono, per poi finire come un’aquila in gabbia.

Nerone si fece vivo tre notti dopo.
I suoi passi risuonarono pesanti nel corridoio, poi la porta fu spalancata da una guardia.
Dalla soglia, tozzo e un po’ ansimante, l’imperatore la osservò.
La luce della lampada nel corridoio lo investiva, modellandone la pelle lattiginosa e il collo flaccido e rifrangendosi cupamente nel suo sguardo senza luce.
«Barbadirame» si presentò con voce flebile e acuta. «È così che mi chiamano.»
Ma invece di indicare il proprio petto, Nerone indicò un’alta protuberanza sotto la cappa rosa, all’altezza dell’inguine.
Dalla punta intormentita delle dita al labbro inferiore tremante, la principessa avvertì una sensazione di gelida estraneità.
L’imperatore rimase immobile e silenzioso, gli occhi fissi in quelli di lei, e le parve a un tratto che nulla avesse più un senso.
Ciononostante, piantandosi le unghie nelle palme, Seren si sforzò di mantenere viva la conversazione: «Ave, Cesare! Sono la tua schiava britannica. Ma anche una tua suddita fedele, che per consiglio dell’augusta tua madre ha cercato di incontrarti, sperando di poterti raccontare...»
Nerone la interruppe con voce chioccia: «Fammi indovinare! Per caso, per puro caso, ciò che mi vuoi dire ha qualcosa a che vedere col tuo tesoro?»
L’imperatore sghignazzava, e Seren non capiva perché. Tuttavia, un inaspettato luccichio negli occhi piombigni le lasciò intendere che la sua visita non era casuale. «Dunque è vero, Cesare, ciò che dice tua madre» mormorò. «Fra tante altre cose, sei anche un cacciatore di tesori.»
«Quello che hai tra le gambe» sghignazzò l’imperatore. «Sa di montone, e mi incuriosisce.»
Seren lo guardò sconvolta, cercando di convincersi che avrebbe comunque dovuto approfittare della sua presenza, perché non ci sarebbe stata altra occasione.
«Non ti sto chiedendo di credermi sulla parola, Cesare» disse, ignorando la pesante e aggressiva allusione.
Da una tasca segreta della tunica trasse la cartelletta di pelle che si era portata appresso da Caister-by Norwich, ne tolse una pergamena e la offrì a Nerone, che però non la prese.
L’imperatore era infatti concentrato sulla sua terrificante erezione e su qualcosa che andava intanto mormorando a se stesso a proposito di lana vergine della Britannia.
Con movimenti rapidi e becchettanti del capo, cercò di attirare l’attenzione di Seren sul proprio fallo turgido, quasi si trattasse di un oggetto di culto propiziatorio, di un idolo che implorava di essere adorato.
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Ma, come un idolo, il fallo imperiale, cui Nerone si rivolgeva chiamandolo Barbadirame, comunicava a Seren solo nausea e disperazione.
L’imperatore indicò l’inguine di lei: «Mostramelo subito, quel tuo tesoro! Dell’altro, parleremo domani».
Senza raccogliere l’invito, Seren lo fissò immobile.
Di colpo, lasciandola interdetta, Nerone si coprì l’erezione con una mano, si volse e si allontanò a passetti veloci, continuando a mormorare qualcosa.
All’alba, dopo una notte che Seren passò nel modo che il lettore può immaginare, la porta si spalancò con un calcio.
Era il carceriere, e istintivamente Seren gli guardò le mani, certa che fosse giunta la fine. L’uomo invece si limitò a ingiungerle di seguirla, e si avviò giù per le scale.
A pianterreno attraversarono un magazzino pieno di vecchi mobili accatastati. Poi, alla luce di una torcia, discesero altre scale, più strette e molto ripide, finendo in un budello umido e scuro.
Il carceriere aprì una spessa porta borchiata e ingiunse a Seren di entrare.
Seren mosse il primo passo, ma la bloccò un colpo di tosse da una cella vicina. Le sembrava una tosse nota. Ma il carceriere la spintonò oltre la soglia e non poté udire più nulla.

La sua nuova e tetra prigione sotterranea era debolmente illuminata da una fetida lampada a olio.
Ciononostante era stata spazzata con molta cura, fornita di un letto matrimoniale e addobbata di arazzi, forse per ovviare allo squallore dei muri, che le parvero fradici di un vapore di lacrime.
Per farsi coraggio, la principessa mormorò:
Se filari vuoi crescere di grano,
spandici sopra quintali di guano.
A preoccuparla più di ogni altra cosa era la pervicacia di Nerone. Quel suo sguardo opaco le ricordava un intrattabile vasaio di Caister-by-Norwich che senza mai nutrire l’ombra di un dubbio su se stesso guardava torvo chiunque avesse di fronte, del tutto indifferente a qualsiasi saggio ragionamento.
Persone come queste – i Greci hanno una parola per la loro malattia, paranoia – si contorcono senza soluzione sul letto di Procuste. E quando alla fine si ammazzano, lo fanno lasciando una nota in cui spiegano di aver portato con sé agli inferi la moglie per il suo bene.
Sino a ora l’imperatore non aveva ucciso che il fratello e diversi parenti, ma c’erano prove inequivocabili di paranoia.
Era come... come se la sua mente si fissasse solo su certi ossessivi pensieri.
E io che ho sempre cercato di resistere alla forza bruta. Ma il ragionamento bruto mi annienta, privandomi della parola. Se la mente di Barbadirame è davvero malata quanto ho ragione di credere, la situazione in cui mi trovo è senza speranza.
Volse ancora una volta lo sguardo in giro per la segreta.
Che possono significare un letto matrimoniale e tutti quei drappeggi nel mondo degli scarafaggi e dei sorci, se non che Nerone intende abusare di me? Ma perché, poi, se, stando ad Agrippina, il suo principale interesse in questo momento è il tesoro di Anglesey? Che intenda... che intenda esercitare su di me il suo fascino perverso, o magari usarmi violenza per rendermi più malleabile, o addirittura succube ai suoi voleri? Certo, se diventerà aggressivo, lo farà con tutta la raffinata e protratta crudeltà che gli è propria e...
Seren era rigida di terrore, a malapena in grado di muoversi.
Questa volta, però, si rifiutò di implorare Andraste. Espulse invece aria dai polmoni, inalò per rilassarsi, poi cominciò a canticchiare:
Ci saran gli elfi e le fate, altroché,
ma sol se t’aiuti è Andraste con te.
Era un altro dei proverbi della sua tribù. Sua madre ne aveva fatto una ninnananna per lei bambina, e ne usava tuttora una versione stringata per spronare gli adulti in difficoltà: «E allora» chiedeva a bruciapelo «che decidi di fare, al proposito?»
Che decidi tu, in effetti? Non lo sai ancora, ma certo lo startene qui a rimuginare per ore non ti aiuterà neppure ad ammazzare un topo.
La metafora non era casuale. Da qualche istante, infatti, dal muro della cella proveniva il sordo raspio di un roditore.
Per non perdere le forze, Seren mangiò qualche boccone del pane che il carceriere aveva buttato sul tavolaccio, e cercò di concentrarsi sull’immediato futuro. I piccioni viaggiatori, certo. Re Carataco aveva promesso di prendersene cura. Ma prima che potesse far volare il prossimo, lei avrebbe dovuto scoprire perché l’imperatore tardasse tanto a discutere il tesoro dei druidi.
Non è proprio quello il principale motivo per cui mi ha invitata a palazzo?
Certo, poteva darsi che del tesoro Nerone avesse già iniziato a occuparsi in segreto, e quindi non avesse più bisogno di lei. Ma, se così era, qualcuno, Agrippina magari, avrebbe dovuto scoprirlo prima che fosse troppo tardi.
Ma io, io come potrei esserne informata? Attendere che il mistero si risolva da sé, o che l’Augusta si faccia viva di persona, non è certo la più celere e sagace delle scelte.
Il carceriere, forse?
Forse. Ma riuscirei a corromperlo? E anche supponendo di sì, dovrei attendere che mi porti la prossima pagnotta. Due giorni almeno.
Anche quell’insistente raschiare, come dell’unghia di un grosso gatto, la metteva a disagio, senza però che riuscisse a concentrarvisi.
La risposta giusta,...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Dedica
  4. PREFAZIONE
  5. PARTE PRIMA
  6. PARTE SECONDA
  7. PARTE TERZA
  8. PARTE QUARTA
  9. PARTE QUINTA
  10. PARTE SESTA
  11. TRENT’ANNI DOPO - Venerdì, 25 dicembre 89 d.C.
  12. NOTA DELL’AUTORE