La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti
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La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti

  1. 456 pagine
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La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti

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'Milioni di persone senza difese nella morsa di due fazioni senza pietà, i partigiani e i fascisti. Nella fase conclusiva del secondo conflitto mondiale, tanti italiani si trovarono scaraventati dentro l'inferno della guerra civile. E scoprirono che non esisteva differenza fra le parti che si scannavano. I partigiani e i fascisti si muovevano nello stesso modo. Alimentando una tempesta di orrori, rappresaglie, esecuzioni, torture, stupri, devastazioni. La guerra sporca descrive il lato oscuro degli anni fra il 1943 e il 1945. Ho voluto narrarlo sfidando quanti strilleranno che il virus del revisionismo mi ha dato alla testa. Eppure che partigiani e fascisti si assomigliassero era una certezza già presente nei racconti di chi aveva vissuto da spettatore inerme un massacro mai visto in casa nostra. Ma questa realtà doveva restare nascosta. La Resistenza era diventata una religione intoccabile." G.P.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858660522
Argomento
History
Categoria
World History

Le sconfitte

(1940-1942)

1

La vendetta di Anne-Marie

«Hai paura quando senti parlare di guerra?» domandò il dottor Evasio al nipote.
Enrico alzò le spalle: «Non lo so, ma penso di no. Dal giorno che ho imparato a leggere, non faccio che incontrare storie di gente che combatte. Nei romanzi di Salgari tutti si scannano. Lo stesso succede nei libri di scuola, a cominciare dalla guerra di Troia. La prof di latino ci ha fatto una testa così con le campagne militari di Giulio Cesare: lui combatteva sempre e poi sterminava chi aveva perso».
«Se tu non fossi mio nipote» ruggì il farmacista, «ti manderei al diavolo! Potresti diventare un perfetto fascista o un comunista fanatico: sempre con un’arma in mano e pronto a tagliare la gola all’avversario. Allora devo ricordarti subito una verità: le guerre che trovi sui libri sono molto diverse da quelle reali. Non puzzano di cadavere, di merda, di cancrena, di carne bruciata, di ferite inguaribili, di gambe e braccia mangiate dal gelo. È questo schifo che dovrebbe farti paura. Ma ti capisco: sei molto giovane, pensi di essere immortale e non hai timore di nulla.
«Tuttavia, ricordati bene» continuò il dottor Evasio, «che gli italiani non la pensano come te. Alla fine degli anni Trenta, non volevano più combattere nessuna guerra. Mussolini, invece, dopo tante indecisioni, si risolse a farne un’altra. Stai attento, Enrico: quando dico gli italiani, non intendo tutti. La maggior parte del paese era contraria a veder partire migliaia di ragazzi per qualche fronte lontano, da dove molti non sarebbero ritornati.»
«Come fai a essere così sicuro?» domandò Enrico che spesso provava a mettere in dubbio le certezze dello zio.
Il farmacista replicò: «Lo sono per una constatazione banale. Dalla fine della prima guerra mondiale, erano passati appena ventidue anni. Il ricordo di quel mattatoio bruciava ancora. I reduci del 1915-1918 erano quasi tutti vivi e vegeti, come lo sono io. I più giovani, quelli delle ultime classi allora chiamate alle armi, avevano appena quarant’anni e anche meno. Nessuno di loro era disposto ad accettare un’altra strage che avrebbe mandato sottoterra un’infinità di italiani».
«Perché il Duce voleva la guerra?» domandò Enrico.
«I motivi sono molti. Te ne dirò soltanto uno. Come succede sempre con i dittatori, non importa di quale colore siano, anche Mussolini aveva bisogno di confermare la propria autorità assoluta. La guerra era il mezzo più adatto a raggiungere questo scopo.
«Nei regimi autoritari» continuò lo zio Evasio, «l’opinione pubblica non esiste. Però Mussolini non era uno sciocco. E sapeva che molti italiani non la pensavano come lui a proposito della guerra. Lo sapeva talmente bene da disprezzarli. Li considerava gente da poco, codarda, vigliacca. E il suo disprezzo era così totale da spingerlo a giudizi aspri che colpivano tutti, tranne i fascisti più fedeli.»
Anni dopo, quando Enrico, diventato adulto, lesse il diario di Galeazzo Ciano, genero del Duce e ministro degli Esteri, vi scoprì molte conferme della pessima opinione che Mussolini aveva del suo popolo.
Nel gennaio 1940, quando l’Italia non era ancora entrata in guerra contro la Francia, il Duce si esprimeva con asprezza rabbiosa su chi non voleva seguirlo sulla strada delle armi: «Se in un popolo prevalgono gli istinti della vita vegetativa, per salvarlo non c’è che l’uso della forza. Gli stessi che ne verranno colpiti te ne saranno grati perché la legnata che li ha tramortiti gli ha impedito di precipitare nell’abisso verso il quale la paura li spingeva».
Lo stesso giorno disse a Ciano: «Hai mai visto l’agnello diventare lupo? La razza italiana è una razza di pecore. Non bastano i diciotto anni trascorsi dalla marcia su Roma e dall’inizio del nostro regime. Ce ne vogliono centottanta. O forse centottanta secoli».
In febbraio, quando iniziavano a mancare le importazioni di carbone dall’Inghilterra, il Duce ribadì il giudizio sprezzante sugli italiani che rischiavano di restare al freddo: «È bene per il nostro popolo essere costretto a prove che ne scuotano la secolare pigrizia mentale. Il popolo bisogna tenerlo inquadrato e in uniforme dalla mattina alla sera. E ci vuole bastone, bastone, bastone!».
Alla fine del marzo 1940, Ciano registrò nel diario che “il popolo, in tutte le sue categorie, non voleva sentir parlare di guerra”. Mussolini pensava che questo atteggiamento derivasse anche dall’influenza del clero cattolico. Lui era sempre stato un anticlericale e aveva ripreso ad attaccare i preti anche sul terreno dell’onestà e della morale personale: «Ho saputo che in numerosi paesi del Meridione la gente impone al parroco di avere una concubina. Soltanto così il prevosto lascia tranquille le mogli degli altri».
In aprile, il Duce disse a Ciano: «Il popolo è una puttana e va con il maschio che vince». Non gli sembravano molto diversi i tedeschi, nonostante la lezione violenta impartita da Hitler: «Il popolo tedesco è un popolo militare, però non guerriero. Date ai tedeschi molta salsiccia, burro, birra, un’automobile utilitaria e non vorranno mai più farsi bucare il ventre».
«Vuoi sapere come la penso?» domandò lo zio Evasio a Enrico. «Mussolini aveva un’altissima considerazione di se stesso, sia come leader politico che come capo militare. Del resto, dopo la fine della prima guerra mondiale, in due anni aveva sconfitto i partiti e si era impadronito dell’Italia. Era convinto di vincere sempre. Anche la conclusione della guerra civile in Spagna gli aveva confermato di poter osare tutto.
«In realtà di Mussolini ne esistevano due. Il primo soffriva di un complesso d’inferiorità nei confronti di Hitler. Il capo nazista era arrivato al potere dieci anni dopo di lui. Ma alla fine degli anni Trenta sembrava pronto a diventare il padrone dell’Europa. E il Duce si sentiva obbligato a imitarlo per non apparire un dittatore di cartapesta.»
«E il secondo Mussolini com’era?»
«Appariva l’opposto del primo. Non sapeva decidersi a iniziare la guerra. Cambiava opinione di continuo. Era volubile. Soffriva di continui sbalzi d’umore. Tanto che il capo della polizia, Arturo Bocchini, disse a Ciano che li riteneva l’effetto della malattia venerea, la sifilide, sofferta da giovane. Bocchini poteva parlare così non soltanto perché era l’uomo che aveva costruito i servizi segreti del regime. Ma perché sapeva come la pensava Ciano.»
«Il genero del Duce voleva la guerra?»
«Per niente. Ciano era diventato ministro degli Esteri a 33 anni. Il Duce lo riteneva uno dei gerarchi più fedeli, ma poi i rapporti fra loro si erano guastati. Il disaccordo più grave riguardava proprio la guerra. Ciano la temeva, conoscendo bene l’impreparazione dell’Italia. Dopo essere stato filotedesco, aveva cambiato opinione, quando aveva conosciuto da vicino il Führer e la sua cerchia stretta.
«Si era venuta a creare una situazione assurda» continuò il dottor Evasio. «Il Duce subiva la personalità folle di Hitler. Invece il suo ministro degli Esteri non poteva soffrirlo. Alla fine del 1939, Ciano scrisse nel diario: “La guerra a fianco della Germania non deve farsi e non si farà mai: sarebbe un crimine e una idiozia”. Ma era troppo tardi. Da mesi Hitler aveva già cominciato a conquistare una parte dell’Europa. E questo primo incendio avrebbe cambiato anche il destino dell’Italia.»
«Quando è successo?» domandò Enrico.
«Poco più di un anno fa. Il 15 marzo 1939 i tedeschi entrarono a Praga, occupando la Cecoslovacchia. Tre settimane dopo, l’Italia invase l’Albania. Il 22 maggio di quell’anno il Duce firmò il Patto d’acciaio con la Germania. Il 1° settembre i tedeschi attaccarono la Polonia. Mussolini, sempre incerto sul da farsi, continuava a dichiarare che l’Italia non sarebbe entrata in guerra. Ma fu costretto ad assistere all’inizio di una serie sbalorditiva di vittorie tedesche.»
«Vedo che lo ricordi bene quell’anno» disse Enrico.
«Sì. Tu eri ancora un bambino e io stavo nella mia farmacia a osservare sgomento l’Europa che andava in fiamme. Avevo 49 anni e nessun obbligo militare, però mi sentivo in guerra anch’io. Succedeva tutto contro la volontà delle persone pacifiche come me. Mi sembrava di impazzire nell’ascoltare alla radio quanto accadeva.
«La Polonia fu invasa anche dall’Armata rossa, poiché i sovietici avevano stretto una provvisoria alleanza con Hitler. Il 27 settembre 1939 Varsavia si arrese. All’inizio del mese, la Gran Bretagna e la Francia dichiararono guerra alla Germania, ma non riuscirono a impedire l’avanzata nazista in Europa.»
«Davvero non poteva essere fermato Hitler?» domandò Enrico.
«No. Dopo una sosta invernale, la guerra tedesca riprese nell’aprile 1940. Hitler invase la Norvegia e la Danimarca. Un mese dopo si scatenò contro il Belgio, l’Olanda e il Lussemburgo. Seguivo quel che accadeva» disse lo zio Evasio, «e mi sembrava di assistere a un film dell’orrore che non si riesce a interrompere.
«Tu non puoi ricordarlo, ma questo orrore venne chiamato dai tedeschi Blitzkrieg, la guerra lampo» spiegò il farmacista. «Le offensive si sviluppavano con la velocità del fulmine, una tattica che affiancava ai carri armati l’intervento dell’aviazione. Le truppe di terra avanzavano con rapidità impressionante, lasciandosi alle spalle migliaia di morti e un’infinità di distruzioni.»
Fu la Polonia a sperimentare per prima la Blitzkrieg. Hitler non intendeva soltanto occuparla: voleva annientarla. Il primo passo fu la scomparsa dell’aviazione polacca: poco più di trecento velivoli da combattimento contro migliaia di aerei tedeschi. Varsavia venne colpita da duemila cacciabombardieri, mentre i reparti della Wehrmacht spargevano il terrore nei territori via via raggiunti.
Ai soldati era stato ordinato di usare la mano dura nei confronti dei civili, a cominciare dagli ebrei. I prigionieri venivano soppressi subito dopo la cattura. Agli ebrei toccava una morte più atroce: impiccati agli alberi o bruciati vivi dentro le case. I sopravvissuti furono rinchiusi nei ghetti, il più grande era quello di Varsavia.
La brutalità più disumana divenne la norma. Nessun polacco fu risparmiato. I tedeschi deportarono in Germania 200 mila bambini da usare come schiavi. Alla fine della guerra ne ritornarono in patria soltanto 20 mila. I pazienti dei manicomi e dei sanatori per tubercolotici vennero soppressi. Gli ebrei imprigionati nei ghetti furono costretti a vivere in condizioni bestiali e molti di loro morirono. Le ragazze ebree diventarono merce per i bordelli militari della Wehrmacht.
Fra il 1939 e il 1941, i tedeschi soppressero 120 mila polacchi. Ma le stragi compiute dai sovietici furono ancora più massicce. Le vittime delle truppe di Stalin risultarono 400 mila. I sovietici uccisero anche 27 mila ufficiali e soldati dell’esercito polacco nei boschi di Katyn e in zone vicine.
L’Armata rossa deportò un milione e 200 mila polacchi in Siberia, nel Kazakistan e in altre regioni dell’Estremo Oriente. Venne vietato o ridotto a zero l’insegnamento della lingua nazionale. E la Polonia sprofondò in quello che fu chiamato “il grande silenzio”.
«Poi venne la volta della Francia» continuò lo zio Evasio, «e Hitler mise a terra anche il suo esercito. La Francia era una grande nazione che sembrava imbattibile. Ma nessuno si aspettava la terribile potenza di fuoco dei tedeschi. L’esercito francese si dissolse in sei giorni, all’inizio di giugno del 1940. E il 14 di quel mese, Hitler occupò Parigi.»
Fu allora che Mussolini ritenne arrivato il momento di partecipare al pranzo del vincitore. Winston Churchill, il capo del governo inglese, fece un ultimo tentativo per dissuaderlo. Il 16 maggio inviò al Duce un messaggio che domandava: “È troppo tardi per evitare che un fiume di sangue scorra separando i popoli della Gran Bretagna e dell’Italia? Vi supplico con tutto l’onore e il rispetto, prima che venga dato il segnale fatale”.
«Mussolini non ascoltò Churchill» continuò il dottor Evasio. «Il 10 giugno 1940 dichiarò guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. Me le rammento bene quelle ore. Era un lunedì. Il giorno precedente Fausto Coppi aveva vinto il suo primo Giro d’Italia. Dal balcone di Palazzo Venezia, Mussolini pronunciò il più celebre e funesto dei suoi discorsi. Erano le sei di sera e sulla piazza si era raccolta una folla sterminata. Ma nessuno si domandò se gli italiani fossero d’accordo o no con il Duce.»
Tuttavia quel breve discorso restò nella memoria di tutti per la frase conclusiva, scandita da Mussolini con voce tonante: «La parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola e accende i cuori dalle Alpi all’Oceano Indiano: vincere! E vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace con giustizia all’Italia, all’Europa e al mondo!».
«E tu che cosa ricordi di quel giorno?» domandò lo zio a Enrico.
«Poco o niente. In gennaio avevo compiuto dieci anni. Ero un alunno di quinta elementare e con la mamma stavamo a cena nella villa di una cliente. Lei era di origine francese: una bella signora sui quarant’anni che si chiamava Anne-Marie. La padrona di casa era angosciata perché riteneva che la Francia fosse finita. Quando ascoltò alla radio la dichiarazione di guerra dell’Italia, scoppiò a piangere. La mamma cercò di consolarla, ma lei ci pregò di andarcene.»
«La conoscevo bene anch’io quella signora» sospirò lo zio Enrico. «Aveva sposato un riccone che poi era morto d’infarto tre anni prima, lasciandole in eredità un patrimonio. Ma tu non sai che cosa accadde dopo la vostra cena. Ti ha detto qualcosa tua madre?»
«No. A volte lei mi tratta ancora come un bambino» mugugnò Enrico.
«Allora te lo racconterò io. Il giorno successivo alla dichiarazione di guerra, vidi Anne-Marie entrare di corsa nella farmacia. Mi assalì urlando: “Adesso siamo nemici, caro dottore. E io sono una sua prigioniera. Che cosa intende fare di me? Mi vuole rinchiudere in un campo di concentramento?”. Cercai di rabbonirla e la invitai a pranzo. Lei rifiutò. E disse: “Adesso me ne andrò da questa Italia di traditori. Ma prima vi farò capire che non voglio più avere nessun rapporto con voi!”.»
«Che cosa fece la signora Anne-Marie?»
«Alla vigilia della partenza per Parigi, pagò qualche contadino perché incendiasse la villa con tutto quello che conteneva. Il fuoco venne appiccato due sere dopo. Nessuno riuscì a soffocare le fiamme. La villa bruciò per un giorno intero. Compresa la bandiera italiana che la signora aveva fatto issare sulla torretta, per sfregio. Quando l’edificio era già tutto un rogo, il tricolore sventolava ancora. Poi finì in cenere.»
«Quella signora era una pazza» osservò Enrico.
«Non lo so. Forse era soltanto sconvolta nel vedere il proprio paese aggredito anche da noi, una nazione che riteneva amica. E si augurava ci toccasse la stessa fine.»
«C’è dell’altro che devi sapere» disse il farmacista. «In quel momento gli italiani erano 45 milioni. Gli iscritti al Partito nazionale fascista potevano essere, a vario titolo, 23 milioni, la metà della popolazione. Nessuno saprà mai spiegarci quanti di loro volevano la guerra.
«Tuttavia gli scontenti del regime cominciavano a essere molti. Iniziavano a scarseggiare non pochi generi alimentari. Il pane, lo zucchero, la carne, l’olio, il burro, il caffè, la pasta, il riso. Mancava anche il ferro e si pensò di requisire molte cancellate, persino nelle case private. La benzina la consegnavano col contagocce.
«Tu non ti sei accorto di nulla perché tua madre era pronta a svenarsi pur di non farti mancare niente. La maggioranza dei contadini era ostile alla guerra. Lo stesso i cattolici convinti, gli operai, la borghesia ricca. A favore del conflitto erano le classi medie e soprattutto i giovani, cresciuti nel regime.
«Per di più la guerra contro i francesi non piaceva alla gente dell’Italia settentrionale, a cominciare dagli abitanti del Piemonte e della Liguria. In Francia vivevano 800 mila nostri emigrati. Lavoravano nell’edilizia, in agricoltura, nelle imprese industriali e nel commercio. Molti si domandavano quale sarebbe stata la loro sorte.»
«Il Duce conosceva quello che mi stai dicendo?» chiese Enrico.
«Certo. E sapeva anche dell’altro» rispose lo zio Evasio. «Per esempio che l’Italia non era...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Trama
  3. Frontespizio
  4. Copyright
  5. Introduzione La pioggia rossa
  6. Prologo La fascista e il partigiano
  7. Le sconfitte (1940-1942)
  8. La resa (1943)
  9. La guerra in casa (1944-1945)
  10. Intermezzo (1945)
  11. L’ultima guerra (1945)
  12. Indice