Armonia celeste e dodecafonia
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Armonia celeste e dodecafonia

Musica e scienza attraverso i secoli

  1. 368 pagine
  2. Italian
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Armonia celeste e dodecafonia

Musica e scienza attraverso i secoli

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Il libro esamina dal punto di vista fisico, biologico e neurale, le possibili cause del grande divario che si è aperto tra il pubblico e i compositori del XX secolo. Si sono sempre fatti, nei millenni, tentativi di individuare basi scientifiche per il sistema tonale classico: dalle fantasie dei filosofi antichi e rinascimentali ai concreti approcci dei fisici a partire dal Seicento. Oggi le neuroscienze indicano che l'armonia classica ha radici nella fisica del suono e nella biologia dell'udito, comune a tutti i popoli. L'allontanamento da questi riferimenti oggettivi ha caratterizzato larga parte delle composizioni del Novecento. La 'nuova musica' ha così assunto caratteri complessi e artificiosi che la rendono apprezzabile solo a una cerchia elitaria. Ne è emblema la musica seriale dodecafonica e post-dodecafonica, che pure ha esercitato una forte influenza sulla produzione musicale del secolo. Abrogando melodia e armonia, e rinunciando alla stimolazione di reazioni fisiche ed emotive - in sostanza privilegiando il nuovo rispetto al bello e al significativo - la dodecafonia si conferma oggi una strada chiusa.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2014
ISBN
9788858631560

1

Ascesa, trasfigurazione e morte dell’armonia tonale

«Volevo delineare i contorni di un’isola, ma ciò
che alla fine ho scoperto erano i confini dell’oceano»
Ludwig Wittgenstein

«Occorre imparare ad amare la musica in sé e per sé»
Igor Stravinskij

Premessa

Troppi di noi cultori della musica «seria» sono refrattari al genere seriale/dodecafonoide perché non si debba preoccuparsene, così come sono sordi, in misura maggiore o minore, ad altra musica di avanguardia e sperimentale del Novecento: puntillismo, microtonalità, musica aleatoria, musica algoritmica, musica concreta, bruitismo, musica gestuale, musica dell’immaginario cosmico, musica politicamente condizionata. 1 Siamo, per così dire, un «pubblico di pietra». Questa refrattarietà si riscontra in misura non minore tra i musicisti, benché sia raro che lo affermino in sede pubblica. Quanto a me, ebbene sì, confesso la mia inettitudine: mal sopporto una composizione che non riesca a farsi apprezzare in modo naturale per l’emozione e per gli stimoli fisici e motori che suscita, che non sia capace di trasmettere messaggi senza che si debbano consultare libretti d’istruzione, documentarsi circa gli intenti del compositore, fare riferimento al testo poetico o alla narrazione cui si accompagna. Con Stravinskij, io ritengo che un brano musicale debba potersi apprezzare in sé e per sé, purché gli sia stato concesso il dovuto numero di ascolti (e oggi, con la molteplicità di fonti di riproduzione disponibili, questo è un problema superato). Andrea Lanza fa notare che «nell’enorme incremento del consumo musicale moderno, l’ascolto della musica... “seria” non si è affatto accresciuto in proporzione ed è venuto anzi a costituire una sorta di area appartata (elitaria o marginale secondo il punto di vista). La “nuova musica” si è trovata così a vivere una condizione paradossale... si è trovata estromessa proprio da quella sfera in cui la moderna tecnologia manifestava maggiormente la sua novità, cioè dai meccanismi di massa della moltiplicazione del consumo».2
Sono oltre cinquant’anni che mi nutro di musica «seria» e posso dire di aver imparato ad apprezzarla pressoché globalmente, quale ne sia la forma o l’epoca di provenienza. Ma quanto alla dodecafonia et similia, no, per questo genere sono rimasto davvero uno straniero. Eppure mi sono imposto reiterate audizioni dei maggiori brani dodecafonici e post-dodecafonici, ben conscio che può occorrere molto tempo e molto impegno per familiarizzarsi con una bellezza insolita e con forme estranee alle nostre abitudini d’ascolto: ho presente l’esperienza fatta mille volte che la sgradevole dissonanza di ieri può diventare il raffinato piacere di oggi. E poiché non sono il solo a incontrare questa difficoltà, ma mi scopro anzi in vasta compagnia, ritengo indispensabile, in vista degli sviluppi futuri della musica, cercare di capirne le ragioni.
Questa è la motivazione del presente libro. Scrivo per l’ascoltatore medio, genere cui appartengo. Come tale, oltre a ritenermi un cliente che legittimamente si aspetta dai musicisti un buon servizio, sento il diritto di esprimere il mio punto di vista di abituale e fedele frequentatore delle sale di musica, ma anche di fisico che ha sempre coltivato interesse per i meccanismi scientifici che stanno alla base dell’acustica e dell’estetica musicale. In questo userò la massima schiettezza, evitando di far ricorso alle formule del politicamente corretto, e parlando come il fanciullo nella favola del re ignudo.



«... non c’è niente da cercare dietro la facciata, nessuna
conclusione da trarre, nessuna conseguenza da dedurre:
l’incanto ha il suo fine,
il suo senso e la sua ragion d’essere in se stesso»
Vladimir Jankélévitch3

A chi spetta giudicare?

Quando apparve il mio trattato Fisica nella musica, pubblicato nel 2000 da Zanichelli, il musicista elettronico Agostino di Scipio mi accusò di «ideologia-revival dell’innatismo armonico» e di «botte da orbi a gran parte della ricerca espressiva del Novecento». Ne fui sorpreso perché avevo scritto il libro con la sola intenzione di individuare quali fossero i pregi scientificamente oggettivabili del «bel suono» musicale secondo la tradizione classica. Una reazione così dura – al di là della consueta diffidenza riservata al mondo scientifico da filosofi, letterati e artisti4 – mi mise in sospetto e mi spinse a indagare. Fu allora che mi convinsi che molta produzione del Novecento risulta incomprensibile o sgradita alla maggioranza del pubblico, non tanto a quello «mostruoso» o «maledetto» aborrito da Adorno, quanto a quello più genuino e colto. Per i musicisti dell’avanguardia, eventuali giustificazioni di un tale rigetto in termini scientifici avrebbero potuto limitare la loro incondizionata libertà di espressione, e confortare gli ascoltatori nelle loro «prevenzioni». Da convinto galileiano quale sono, tuttavia, e dunque fondamentalmente riduzionista, non posso vedere ciò che non vedo né udire ciò che non sento, non posso negare ciò che vedo, eccetera eccetera, e tanto meno posso mentire a me stesso e a chi mi interroga. Sarà quindi inevitabile ch’io ribadisca, anzi corrobori – avendoli approfonditi – i concetti appena delineati in Fisica nella musica. Tra gli altri, quello più aborrito dagli «innovatori» del Novecento, l’innatismo armonico.
Torno un attimo al pubblico, così spesso vituperato. V’è chi sostiene che la bontà di un pezzo musicale può essere giudicata esclusivamente da musicisti, nulla essendovi da imparare da altre categorie di testimoni. Né più né meno – e questo è fuori discussione – come la validità di un esperimento di fisica può essere giudicata soltanto da fisici, e forse, data la grande diversificazione delle competenze, nemmeno da tutti. Tale posizione è ingannevole e apre la porta ad alibi e mistificazioni. Nella scienza, l’uomo comune non è partecipe dei lavori, al di là degli aspetti di divulgazione o degli eventuali prodotti tecnologici di cui può beneficiare. Per belli che possano apparire agli occhi degli addetti ai lavori un certo modello teorico, una dimostrazione matematica o una verifica sperimentale, nessuno ha mai preteso che la scienza possa annoverarsi tra le arti. La scienza è fatta da scienziati per essere seguita da scienziati. Persino i meravigliosi scritti di Galileo, oggi accessibili anche al profano, in pratica non entrano nelle scuole e sono letti da pochissime persone acculturate. Non così deve essere per la musica, che è destinata al consumo dei non esperti e quindi deve sottostare al loro giudizio. La musica che fosse di interesse soltanto in una cerchia elitaria di addetti ai lavori non sarebbe musica: sarebbe in sostanza ricerca, sperimentazione, analisi, qualcosa di più vicino alla scienza, alla tecnica, alla matematica che non alla creazione artistica. Qualcosa, insomma, da non sottoporre al vasto pubblico, come con rara lucidità sosteneva Charles Ives a proposito delle sue esperienze in àmbito microtonale.
Circa il valore del giudizio degli ascoltatori, occorre anche tener conto di un aspetto tutt’altro che trascurabile. Le immagini tomografiche che i neuroscienziati sono oggi in grado di produrre5 documentano che il cervello dei musicisti di professione presenta strutture e funzioni diverse da quelle dell’uomo medio, sia pure assiduo frequentatore della musica «seria»; di più, mostrano che tali strutture possono ulteriormente evolvere in alto grado, specialmente per il fatto che la formazione musicale avviene in età giovanile se non infantile.6 Questa neuroplasticità comprende la rapida messa in opera di connessioni sinaptiche preesistenti e la formazione di nuove, atte a rendere i musicisti capaci di far fronte alle particolari esigenze della loro professione. Come conseguenza, essi vengono a costituire un’élite dotata di capacità percettive del suono che raramente si riscontrano nel normale pubblico che siede in platea, così come gli atleti di professione raggiungono risultati che per l’uomo comune sono inarrivabili.



«Si sa che [oggi] merita l’ingresso della musica
“colta” solo chi accetta il “divieto di piacere”
incombente sulla musica nuova»
Leonetta Bentivoglio7

«... l’avanguardia è ormai guardata come un episodio
storicamente concluso, pur senza aver trovato
la strada della comunicazione col pubblico...»
Andrea Lanza8

Preludio e fuga

Il giorno 12 ottobre 2003 si apre, nel nuovo grande Auditorio del Parco della Musica in Roma, la stagione sinfonica pubblica dell’Accademia di Santa Cecilia. Si rappresenta in versione semiscenica il Wozzeck di Alban Berg, diretto da Daniele Gatti. È la prima di tre serate dedicate all’allievo di Arnold Schoenberg nell’ambito di un piccolo «Berg Festival», una delle ultime volontà del compianto Luciano Berio, Presidente dell’Accademia. Sul programma illustrativo distribuito dall’Accademia si legge: «Wozzeck è il massimo capolavoro del teatro musicale del Novecento. Tratta da una “Ballata tragica” di Georg Büchner, l’opera mette in scena, con una forza drammatica insuperabile, le vicende del soldato Wozzeck. Il genio musicale e drammatico di Alban Berg riesce ad unire in una sintesi suprema temi come l’alienazione dell’individuo e lo spietato sfruttamento operato dal Potere, e luoghi “classici” del teatro di ogni tempo quali l’amore, il tradimento, la morte». L’opera vanta inoltre una benemerenza, come si sa, l’essere stata proibita durante il periodo nazista e l’essere stata attaccata, come del resto la musica atonale in genere, dalla stampa fascista, che la definì «degenerata».
Circa il Concerto per violino detto «Alla memoria di un angelo», che verrà eseguito la terza sera, il programma di sala lo definisce «meraviglioso» e uno dei brani più celebri dell’intero XX secolo, testimonianza della miracolosa sintesi raggiunta da Berg tra rigore formale e appassionato lirismo. Secondo i suoi estimatori, si tratta di una delle composizioni dodecafoniche più dotate di immediata comunicativa, anche per la geniale immissione, nella cornice a dodici toni, di elementi tonali. Dei Tre pezzi per orchestra, previsti per la seconda serata, si dice che sono di «stupefacente novità timbrica, pervasi da un’atmosfera luminosa e irrequieta al tempo stesso». Lodi senza riserve, dunque, anche se dal contenuto alquanto vago.
Ma torniamo al Wozzeck. È previsto che l’esecuzione avvenga dall’inizio alla fine senza intervalli: una scelta tendente a impedire che parte del pubblico possa approfittare della pausa per eclissarsi, come sovente avviene quando nei concerti compaiono composizioni di Schoenberg e seguaci, dodecafoniche o meno che siano,9 o ancor peggio altra musica di natura esplorativa recente o contemporanea che non ha saputo formare una coscienza musicale collettiva attorno alla novità del proprio linguaggio.10 Nondimeno, alla fine non mancano gli applausi, come non mancano nei due concerti successivi, dei quali l’ultimo affianca al concerto per violino, eseguito da Tetzlaff, la suite Lulu, altra lodatissima opera di Berg.
È innegabile che chi da una vita coltiva la musica avverta nei classici una sensazione di deja vu, che suscita l’esigenza del nuovo e del diverso. Si pensi soltanto alle centoquattro sinfonie di Haydn, ai più numerosi ancora concerti di Vivaldi, per non fare nomi di musicisti più grandi, come Mozart. Dunque essenziale è il ruolo del rinnovamento e della sperimentazione, come sempre è stato nella millenaria storia dell’arte dei suoni. E nondimeno il minifestival berghiano desta elementi di allarme. A parte gli specialisti, gli addetti ai lavori, gli estimatori cerebrali di aspetti della composizione che sfuggono ai più, è facile accertare che una parte di coloro che applaudono lo fa per cortesia nei confronti degli esecutori, e che altri si adeguano per conformismo o insicurezza, non possedendo elementi per formulare giudizi in proprio. E come non sospettare che taluni applaudano per eccentricità o per non apparire retro? Gli umani sono maestri nell’ingannare se stessi.
L’indomani un noto critico musicale del quotidiano «la Repubblica» si premura di bacchettare gli scettici parlando del Wozzeck come di «opera immensa e stupenda, rigorosissima eppure capace di avvolgere l’ascoltatore con una facilità di affabulazione che troviamo talvolta solo nei capolavori assoluti...». Leggendo, non posso che provare meraviglia, benché riconosca che Wozzeck si colloca al di sopra della produzione media della scuola viennese e post-viennese. Se non altro, fa leva su una vicenda drammatica11 e offre un’azione scenica che serve a tener viva l’attenzione dello spettatore al di là del contenuto musicale. Il quale contenuto, in aggiunta, è tra i meno algidi e incomunicativi – Berg non è sempre rispettoso delle soffocanti prescrizioni dodecafoniche di Schoenberg – se confrontato a quello di altre composizioni dodecafoniche prive di «canto», o di ritmo, senz’altro di armonia, spesso di tutti questi fattori presi assieme: musica che fatica a parlare all’ascoltatore, che non suscita stati emozionali. Musica che, per semplificare, qui e nel seguito appellerò genericamente musica adiabatica.12
In ogni modo, di fronte alle lodi incondizionate del critico, mi sento confortato dalla lettura delle seguenti considerazioni: «Quanto agli scrittori... arrivano ad amare il musicista per ragioni che non hanno niente a che vedere con la musica» e «La pretenziosa e intollerabile mediocrità di certe chiacchiere sulla musica ha qualcosa di deprimente».13 Il pensiero corre subito a Theodor Adorno, c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Dedica
  4. Ringraziamenti
  5. La dodecafonia tra il cielo di Mozart e l’inferno di Mann
  6. Musica e quantità di informazione
  7. Introduzione
  8. 1 - Ascesa, trasfigurazione e morte dell’armonia tonale
  9. 2 - Dal parlato alla musica
  10. 3 - Le componenti scientifiche della musica
  11. 4 - Gli strumenti musicali e la voce
  12. 5 - Consonanza, dissonanza e scale musicali
  13. Interludio - L’armonia delle sfere celesti
  14. 6 - L’udito e la percezione dell’altezza
  15. 7 - Caratteri fisici, psicologici e musicali del suono
  16. 8 - Le basi naturali dell’armonia classica
  17. Bibliografia citata