Mossad
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Le guerre segrete di Israele

  1. 672 pagine
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Le guerre segrete di Israele

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Non esiste, con ogni probabilità, una nazione sulla Terra che, in rapporto alla sua estensione e popolazione, produca, analizzi e consumi tante informazioni militari quanto Israele." Muovendo da questo spunto, Benny Morris e Ian Black hanno tracciato la storia dei servizi segreti israeliani dalla loro nascita negli anni Trenta, prima ancora della fondazione dello Stato ebraico, alla guerra del Golfo. Articolata nei tre servizi di sicurezza interna (Shin Bet), militare (Aman) e internazionale (Mossad), l'intelligence ha ricoperto un ruolo di primo piano nella guerra che da oltre mezzo secolo Israele combatte contro i suoi numerosi nemici, alternando strepitosi successi a clamorosi errori. Avvalendosi di un ricco apparato di fonti – documenti, giornali, diari privati, memoranda – e di interviste rilasciate da ex agenti dell'intelligence, gli autori hanno sfidato le rigide leggi di Israele in materia di censura militare, dando vita alla più equilibrata, approfondita e obiettiva indagine sui servizi segreti di quel Paese.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858657133

CAPITOLO 1

Le origini: 1936-46

L’attacco degli arabi e l’insuccesso del servizio segreto dell’Haganah

LA SERA DI MERCOLEDÌ 15 aprile 1936 numerosi palestinesi armati bloccarono la stretta strada fra il piccolo villaggio di Anabta e il campo di detenzione britannico di Nur Shams, una zona solitaria esclusivamente araba all’estremità occidentale dell’altopiano collinoso della Samaria, e fermarono una ventina di veicoli esigendo denaro per l’acquisto di armi e munizioni. Uno di questi, un autocarro carico di stie di polli destinati a Tel Aviv, era guidato da un ebreo, Zvi Danenberg, e aveva a bordo un passeggero ebreo sulla settantina di nome Yisrael Hazan, immigrato da poco da Salonicco che lavorava in un allevamento di polli. Un terzo ebreo viaggiava a bordo di un altro automezzo. I banditi arabi li prelevarono tutti e tre e li fucilarono. Hazan morì subito, gli altri due furono feriti e Danenberg in seguito non riuscì a sopravvivere.
Il giorno seguente, 16 aprile, due ebrei, e fu facile identificarli come tali in quanto erano a capo scoperto e indossavano calzoncini corti khaki, raggiunsero in auto una baracca metallica lungo la strada fra Petah-Tikva e Sharona, nella fertile piana costiera palestinese a est di Tel Aviv. I due, che facevano parte di un gruppo dissidente della milizia sionista chiamato Irgun Bet, abbatterono la porta e aprirono il fuoco all’interno, uccidendo un arabo e ferendone in modo grave un altro. Prima di morire, quest’ultimo riuscì a descrivere i suoi assalitori alla polizia britannica. Sia gli agenti sia gli arabi ritennero subito che l’attacco fosse in risposta all’incidente del giorno precedente in Samaria. «Se quelli che lo commisero si immaginavano che avrebbero così posto fine allo spargimento di sangue in Palestina», commentò in seguito uno storico del movimento sionista, «sarebbero ben presto rimasti delusi.»1
Yisrael Hazan fu sepolto a Tel Aviv venerdì 17 aprile e il suo funerale si trasformò ben presto in una violenta dimostrazione contro gli inglesi e gli arabi: elementi della comunità ebraica locale reclamarono attacchi di rappresaglia contro gli arabi della vicina Jaffa. I negozi lungo la via Allenby, la principale arteria commerciale, furono costretti ad abbassare le saracinesche al passaggio del feretro di Hazan, ricoperto dalla bandiera, mentre un corteo di migliaia di persone si snodava dall’ospedale Hadassah fino al cimitero vecchio della città. La polizia fece uso degli sfollagente e sparò in aria per tenere sotto controllo la folla che aumentava di numero. Un passante arabo fu duramente malmenato, e la stessa sorte toccò a un agente di polizia intervenuto in suo aiuto.
L’indomani ci furono altri disordini, anche se era sabato, giorno festivo per gli ebrei. Venditori ambulanti e ragazzi lustrascarpe arabi furono bastonati da esponenti ebrei, ma verso sera tornò la calma. Le truppe britanniche fatte intervenire dalla vicina Ramle in appoggio alla polizia di Tel Aviv troppo impegnata furono fatte rientrare nelle caserme e il comando della milizia ebraica dell’Haganah annullò lo stato di allarme generale proclamato alcuni giorni prima.
Soltanto domenica 19 aprile, quattro giorni dopo l’imboscata presso Nur Shams, la vita nella zona di Tel Aviv tornò alla normalità. Centinaia di ebrei raggiunsero i loro uffici e centri di affari a Jaffa, altri i dipartimenti governativi nel Porto Vecchio e nella zona adiacente sotto la torre dell’orologio. I disordini ripresero quando si sparse una voce, risultata poi falsa, che tre operai siriani e una donna araba del posto erano stati uccisi a Tel Aviv. Per le 9 di quella mattina di primavera una grossa folla di arabi si era radunata davanti agli uffici del governo nel vecchio edificio del Serraglio turco, reclamando le salme delle «vittime». Decine di ebrei furono accoltellati o bastonati, anche se molti trovarono rifugio in casa di arabi fino a quando i tumulti si placarono. Altri fuggirono attraverso il porto e ripararono a Tel Aviv. Un agente di polizia britannico sparò a due arabi che assalivano un’auto ebraica e li uccise. L’esercito venne fatto intervenire di nuovo da Ramle e nel pomeriggio le autorità avevano ripreso il controllo della situazione. Nelle due zone di Jaffa e di Tel Aviv fu imposto il coprifuoco e lo stato di emergenza fu proclamato in tutto il Paese. Nove ebrei erano rimasti uccisi e i feriti erano quasi 60.
Paragonati ai conflitti precedenti e successivi nel Medio Oriente in generale e in Palestina in particolare, il fatto di sangue a Jaffa di quella domenica era d’importanza relativamente modesta. Ma nella primavera del 1936 la Terra Santa era in equilibrio instabile sul bordo di un cratere, e la sua calma e la sua prosperità erano precarie. E in seguito non sarebbero più tornate come prima.
Dopo la precedente ondata di disordini del 1929, scatenata dagli scontri sul diritto alla preghiera davanti al Muro del Pianto nella Città Vecchia di Gerusalemme e il timore diffuso da parte araba in merito alla natura espansionistica dell’iniziativa sionista, la Palestina era rimasta in una quiete relativa per quasi sette anni. Truppe britanniche avevano represso con facilità nel 1933 una ribellione locale nella zona di Haifa; il suo capo, il carismatico sceicco ‘Izzal-edin al-Qassem, rimase ucciso in un’imboscata britannica nel novembre del 1935 e diventò il venerato martire di una causa che sembrava andare spegnendosi rapidamente.
Da parte sionista continuarono gli acquisti di terra e, nonostante le proteste verbali, ci fu una scarsa opposizione da parte araba al massiccio afflusso di immigranti ebrei iniziato poco dopo l’ascesa di Hitler al potere come cancelliere. Nel 1935 entrarono in Palestina 62.000 ebrei, la cifra più elevata in un anno dal 1920, quando cominciò il Mandato britannico sul territorio conquistato ai turchi ottomani nel corso della Prima guerra mondiale. Nel 1936 nel Paese c’erano 400.000 ebrei, poco meno di un terzo del totale della popolazione. E il 40 per cento degli ebrei, circa 150.000, vi si trovava da cinque anni o meno.
L’alto commissario britannico, sir Arthur Grenfell Wauchope, era molto popolare presso i sionisti e l’Yishuv, la comunità ebraica in Palestina, prosperava in campo economico grazie anche alla sua coesione sociale, nonostante l’astiosità e gli sporadici episodi di violenza fra il movimento laburista dominato dal Mapai e i sionisti revisionisti di destra di svariate sfumature. Le istituzioni della Palestina ebraica erano moderne, ben strutturate e fiduciose.
L’Agenzia Ebraica, fondata nel 1929, effettuava una specie di amministrazione parallela nei confronti del governo britannico, coordinava l’immigrazione e le attività degli insediamenti e il suo dipartimento politico aveva una funzione di base nel seguire gli sviluppi nel settore arabo e nel mantenere i contatti con i dirigenti arabi all’interno e al di fuori della Palestina. La milizia dell’Haganah, in stretto collegamento con la potente federazione sindacale Histadrut, era già bene sviluppata e organizzata su base territoriale, nonostante dovesse operare in condizioni di semi clandestinità.
Il lungo dibattito sull’istituzione di un Consiglio legislativo era stato archiviato, grazie a una classica combinazione di titubanza inglese, opposizione sionista e mancanza di unità araba. Ma verso la fine del 1935 l’insicurezza economica e la crescente instabilità politica nel Mediterraneo orientale portarono a una brusca fine del tempo delle vacche grasse per la Palestina. L’invasione dell’Etiopia da parte di Mussolini aveva gravemente compromesso il prestigio britannico nella zona e molti arabi guardavano verso l’Italia fascista e la Germania nazista nella speranza di venire liberati dal loro giogo coloniale e dal Mandato. Il crollo degli investimenti nel redditizio settore degli agrumi portò al licenziamento di personale sia ebreo sia arabo, mentre manifestazioni di protesta e promesse di cambiamenti costituzionali in Egitto e in Siria, seguiti con attenzione dai palestinesi, furono un sinistro presagio di disordini sempre più vicini.
È opinione abbastanza diffusa che lo scoppio dei tumulti a Jaffa abbia colto di sprovvista l’Yishuv, e forse questa fu la prima delle molte occasioni nella storia del sionismo e di Israele in cui gli ebrei furono sorpresi dalla tempestività o dalla violenza dell’opposizione araba. E anche dopo aver contato e aver sepolto i morti, ci volle del tempo prima che il problema venisse compreso nella sua piena gravità. Il 17 aprile, osservando i movimenti attorno alla moschea principale di Jaffa, gli agenti dei servizi d’informazione dell’Haganah non avevano ragione di riferire che ci fosse qualcosa di irregolare.2
Alla direzione dell’Agenzia Ebraica di Rehavia, alla periferia di Gerusalemme, che assomigliava a una fortezza, gli esperti arabi aggregati al dipartimento politico non erano, in quella prima fase, troppo preoccupati. Un funzionario riferì, il 22 aprile: «L’impressione generale in questo ufficio, e in particolare anche in quello della divisione araba, è che, mentre non risulta possibile escludere del tutto la possibilità di qualche disordine nella giornata di domani, non vi sono elementi per ritenere che si possano notare avvisaglie di gravi turbamenti della pace».3 Si trattava di una valutazione quanto mai errata. Soltanto tre giorni dopo i capi di tre diversi partiti politici arabi misero da parte le loro divergenze e istituirono l’Alto Comitato Arabo (Arab Higher Committee, AHC), sotto la presidenza del più potente leader del Paese, il Mufti di Gerusalemme, Hajj Amin al-Husseini. La sua prima decisione fu di proseguire lo sciopero generale già proclamato in modo spontaneo e simultaneo dai «comitati nazionali» di recente costituzione, organizzazioni locali sul modello della coalizione nazionale dell’AHC a Jaffa, Nablus e altre località.
In un certo senso, lo sciopero arabo fece il gioco degli ebrei. La paralisi degli scaricatori del porto di Jaffa portò alla richiesta di un porto ebraico a Tel Aviv. Personale ebreo, spesso sotto la scorta degli inglesi, fu introdotto in settori economici in precedenza monopolizzati dagli arabi. I contadini, che costituivano la grande maggioranza della popolazione araba, continuarono a raccogliere le messi di primavera. Ma gli ebrei cominciarono ben presto a boicottare i prodotti agricoli arabi, sfruttando in modo deliberato lo sciopero e i disordini che ne derivavano come strumento con cui galvanizzare lo Yishuv verso un più pronunciato spirito nazionalista. «Manodopera ebraica» e «produzione ebraica», argomenti di prolungate e spesso aspre discussioni fra il movimento laburista e il settore dell’agricoltura ebraica gestito da privati, fecero in questo periodo passi da gigante. Dove fino a quel momento aveva lavorato mano d’opera araba a buon mercato e non organizzata, intervenne ora personale ebreo. Moshe Shertok, capo del dipartimento politico, fu informato della reazione a questo inserimento di «manodopera ebraica» nei vecchi insediamenti per la produzione di vino di Atlit e della vicina Zikhron Ya’akov. «Un agricoltore ha calcolato che l’uva ebraica gli costava soltanto 3 mils (pochi centesimi) per tonnellata più di quella araba», annotò Shertok nel suo diario, «e che per di più ci guadagna in salute in quanto non se ne deve stare tutto il giorno sotto il sole a gridare “yallah, yallah” (forza, avanti!) alle donne arabe.»4
Ma esisteva anche un pericolo serio. Subito dopo i disordini di Jaffa gli ebrei furono aggrediti dagli arabi in tutto il Paese, sia nelle città principali sia nelle zone isolate, dove le fattorie furono saccheggiate e i raccolti distrutti. Per vari mesi il principale sforzo sionista contro i palestinesi fu politico e diplomatico, nell’intento di convincere gli inglesi della necessità di intervenire in modo duro contro i crimini e gli scioperi arabi, di persuadere il governo palestinese che si trovava di fronte a criminali e teppisti e non a una ribellione d’ispirazione politica contro il Mandato e l’iniziativa sionista. A metà maggio, per esempio, il dottor Chaim Weizmann, l’anglofilo nato in Russia che aveva diretto il movimento sionista fin da prima della Dichiarazione Balfour del 1917, comunicò al primo ministro britannico Stanley Baldwin che «l’insoddisfazione araba non aveva in realtà radici profonde: la mano d’opera agricola araba non era interessata, ma era stata messa in agitazione con metodi terroristici».5

Ezra Danin: conoscere il nemico

VIOLENZE E SCIOPERI però continuarono e la sicurezza diventò ben presto il problema principale. Ezra Danin, nato a Jaffa e che lavorava come coltivatore di agrumi e agronomo a Hadera, a mezza strada fra Haifa e Tel Aviv, era già stato contattato dal comandante locale dell’Haganah, che gli aveva chiesto di sfruttare i suoi numerosi contatti con gli arabi per cercare di risolvere il caso dell’assassinio di due ebrei, uccisi in imboscate sulla strada fra Haifa e Qalilya.6 Danin, che aveva allora trentatré anni, reclutò un giovane arabo del villaggio di Khirbet Manshieh, presso i kibbutz Ein Hahoresh e Givat Haim. La famiglia dell’arabo, caso tipico, era stata coinvolta nella vendita di terre agli ebrei. Danin si incontrò in modo regolare con l’arabo e cominciò a fornire rapporti scritti all’Haganah e a un giovane funzionario dell’Agenzia Ebraica, Reuven Zaslani, che era uno degli esperti del dipartimento politico per la sicurezza e gli affari arabi. «Con l’andar del tempo», scrisse Danin nella sua autobiografia, «i miei sensi diventarono sempre più acuti e da coltivatore a tempo pieno che non aveva mai pensato prima a problemi di politica e di sicurezza, cominciai a dedicarmi soprattutto alla raccolta d’informazioni.»7
Da questo modesto e casuale successo all’inizio dell’estate del 1936 Ezra Danin giunse a occupare una posizione leggendaria negli annali del sionismo e del servizio segreto israeliano. Fu lui a gettare le basi della raccolta, dell’interpretazione e dell’uso dei dati informativi sugli arabi negli anni cruciali della lotta per la Palestina. E più di mezzo secolo dopo le sue idee in merito a «conoscere il nemico» si possono ritrovare nella politica di Israele nei confronti dei palestinesi.
Josh Palmon, che diventò suo intimo amico e prezioso collega, ha tributato in seguito un caloroso omaggio a Danin:
Negli anni fra il 1936 e il 1940 parlavamo tutti del nemico con l’articolo determinativo. Ezra diceva: «Noi non stiamo affrontando gli arabi, ma un arabo ben preciso. Noi dobbiamo sapere chi è. Un ragazzo spara appostato dalla cima di una collina o in fondo a una vallata e tutti noi ci mettiamo a gridare e saltiamo in preda al panico nelle trincee, mentre in realtà tutto ciò di cui stiamo parlando non è che un Alì o Mohammed qualunque. Noi dobbiamo essere in grado di identificarlo e di agire contro di lui».
Ezra affermò anche che noi dobbiamo analizzare ogni fatto e ogni incidente, dobbiamo osservare gli eventi in profondità e non prendere come oro tutto quello che luccica. Questo fu il suo contributo decisivo. Il suo fu un approccio critico, scientifico, non qualcosa che si accontentava di impressioni superficiali. Soltanto così, sosteneva Ezra, saremo in grado di distinguere fra un alleato e un nemico... Così Ezra pose le basi del nostro lavoro di spionaggio nel Medio Oriente.8
Danin non era l’unico ebreo impegnato nello spionaggio in questo primo periodo, anche se venne presto riconosciuto come il principale esperto per quanto riguardava gli arabi. Ephraim Krasner, della polizia britannica di Tel Aviv, aveva importanti contatti nell’organizzazione. A Haifa, Emmanuel Wilensky, un architetto e ingegnere nato in Ucraina, aveva lavorato per l’Haganah e per l’Agenzia Ebraica fin dal 1933, raccogliendo informazioni su inglesi, ebrei e arabi. Wilensky era un esperto archeologo convinto che il lavoro d’intelligence avrebbe dovuto essere svolto con principi scientifici analoghi e disapprovava la tendenza di Danin ad «abbellire» i propri rapporti in modo drammatico allo scopo di convincere i suoi «clienti» della loro esattezza. Wilensky si lamentava spesso che il suo stile asciutto e concreto nei rapporti non poteva competere con le «gustose lettere» di Danin. Abbandonò l’attività nel servizio informazioni nel 1939.9
L’informatore di Danin da Khirbet Manshieh fu il primo di molti altri agenti. Mentre gli episodi di violenza continuavano, in quell’estate, Danin cominciò ad ampliare la sua rete, reclutando non solo altri arabi ma anche ebrei, sia negli insediamenti rurali sia nelle città, che facessero da «raccoglitori» permanenti. In quei primi giorni vennero reclutati un caporale ebreo della stazione della polizia britannica di Kfar Saba e un altro elemento in contatto con macellai ebrei che acquistavano bestiame dagli arabi. Il comandante dell’Haganah, Elihau Golomb, assegnò a Danin un fondo mensile di 6 sterline, ma non era sufficiente. Durante tutto il periodo dall’aprile all’ottobre del 1936, quando ebbe termine lo sciopero degli arabi, Danin sborsava 15 sterline al mese di tasca propria in conto spese e pagamenti agli informatori. Nel 1939 il bilancio mensile era salito a 45 sterline.
Come scrisse in seguito Danin:
Gli informatori arabi ottenevano in cambio favori, e soltanto di rado denaro, poiché la ragione principale della loro collaborazione con noi non era una ricompensa in valuta. Quasi tutti erano perseguitati dai loro confratelli per i legami commerciali o per questioni di terre con gli ebrei, oppure a causa di conflitti interni e di conseguenza avevano forti motivi personali per voler contrastare, neutralizzare o, addirittura, eliminare i loro persecutori. Temevano tutti per la loro vita e volevano essere in grado di rifugiarsi presso di noi nei momenti dei disordini, oppure di difendere i loro villaggi. Noi cercavamo di sfruttare questa situazione e ci sforzavamo di individuare gli arabi che avevano bisogno di assistenza.10
I rapporti informativi di Danin erano di vario valore e tendevano, è inevitabile, a concentrarsi sulle informazioni locali, ma andavano anche oltre...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. NOTA DELL'AUTORE
  4. RINGRAZIAMENTI
  5. GLOSSARIO
  6. INTRODUZIONE
  7. CAPITOLO 1 - Le origini: 1936-46
  8. CAPITOLO 2 - La prova del fuoco: 1947-49
  9. CAPITOLO 3 - Le doglie del parto: 1948-51
  10. CAPITOLO 4 - Di guerra in guerra: 1949-56
  11. CAPITOLO 5 - I nemici all'interno: 1948-67
  12. CAPITOLO 6 - Grandi balzi in avanti: 1956-67
  13. CAPITOLO 7 - I sei giorni di giugno: 1967
  14. CAPITOLO 8 - Le sfide della Palestina: 1967-73
  15. CAPITOLO 9 - Mehdal: 1973
  16. CAPITOLO 10 - Interregno di pace: 1974-80
  17. CAPITOLO 11 - Impantanati nel Libano: 1978-85
  18. CAPITOLO 12 - I rischi del mestiere: 1984-87
  19. CAPITOLO 13 - Intifada: 1987-90
  20. CONCLUSIONE
  21. APPENDICE - Israele, l'intelligence e la guerra del Golfo
  22. NOTE
  23. BIBLIOGRAFIA