Teatro antico
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Teatro antico

  1. 352 pagine
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Teatro antico

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Poeta e teorico della poesia, romanziere e studioso, intellettuale e uomo di teatro: tutto questo è Edoardo Sanguineti, un maestro del nostro tempo, che in questo volume ricorda le proprie esperienze di drammaturgo e di traduttore, in continuo dialogo con i protagonisti del teatro contemporaneo attraverso le grandi figure del teatro antico. Eschilo (Le Coefore, I Sette contro Tebe), Sofocle (Edipo tiranno), Euripide (Le Baccanti, Le Troiane), Aristofane (La festa delle donne) e Seneca (Fedra): classici che le traduzioni di Edoardo Sanguineti – qui riunite per la prima volta – avvicinano e distanziano, in perpetuo straniamento. A corredo dei testi e dell'Introduzione di Edoardo Sanguineti, due ampie postfazioni, una bibliografia aggiornata e una ricca teatrografia.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858657188

SOFOCLE

Edipo tiranno (1980)

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Sono giunto alle ultime battute, ormai, di quell’ Edipo tiranno che sto traducendo per Benno Besson, e che andrà in scena, prodotto dall’ATER, in giugno, a Spoleto. E provo, guardando al risultato di questo lavoro, in sede di bilancio provvisorio, un sentimento singolare, che confina con lo stupore. Perché è come se il meccanismo dell’interpretazione, in qualche modo, mi fosse stato suggerito, e quasi imposto, da una realtà che sta al di sotto di ogni concreto particolare della scrittura originaria, che si occulta come un procedimento più radicale e più profondo. Posso naturalmente sbagliare, ma la grande invenzione di Sofocle, mi pare che possa essere descritta, alla fine di questo mio percorso, come l’adozione, in questa tragedia tutta fondata sopra la decifrazione e la verifica di un oracolo, e che si apre con l’attesa di una sentenza divina, e che sopra l’attesa di una sentenza divina, inconclusa, viene a concludersi, di un perpetuo stile oracolare. I personaggi, ignari, pronunciano perpetui enigmi, carichi di sensi che li trascendono, e che sono come glosse profetali al vaticinio primario e centrale. Una tragedia sfingea, insomma, collocata sotto il segno della Sfinge, della «cantatrice di enigmi», come sotto una costellazione implacabile. Per dirla come si dice oggi, i personaggi, dunque, più che parlare, sono parlati, e sono parlati dall’oracolo, e sono parlati in oracolese. Sono attraversati e gestiti dai significati parziali di una profezia, di varie profezie, che essi rifrangono di continuo, nelle proprie parole, e da cui sono come oscuramente illuminati. La struttura del testo, nettamente processuale, è percorsa, e in certo modo distorta, ad ogni istante, più che da una ossessiva polisemia, da un fatale intenebrarsi del discorso e del dialogo, per cui Tiresia e Creonte, i Messi e il Coro, dicono sempre qualche cosa di più, e qualche cosa di meno, ad un tempo, e qualche cosa di diverso, in ogni caso, di quello che le loro parole contengono, in una specie di scarto misterico di sensi. Certamente, l’equivocità premeditata, che esige la complicità dello spettatore, ha un suo ruolo dominante, governa lo sviluppo della vicenda. Che Giocasta parli, con Edipo, anziché in mogliese, come dovrebbe, in maternese, come fa in effetti, è cosa fatta apposta. Ma i salti nell’uso, da una battuta all’altra, dei dimostrativi, mostruosamente abbondanti e non regolati, e l’impiego massiccio di indefiniti neutri, e le plurivalenze delle designazioni parentali, tanto per fare qualche esempio, non sono messi in opera onde ottenere interpretazioni alternative e incrociate, al servizio della trama soltanto. Al di là della strategia dell’intreccio, o per meglio dire suo vero nucleo, è poi questo profetese, piuttosto, come forma essenziale del discorso, come regime portante dell’espressione, che contagia ogni dettaglio, anche quello più apparentemente marginale, e che è come la vera peste divina, che investe la città.

Discorrendo con Besson, tempo fa, a Bologna, su un punto eravamo subito concordi: questa tragedia di Sofocle non è, stilisticamente parlando, né degna né decorosa. È indecente, anzi, a livello espressivo. Non volevamo dire, ovviamente, che ha poco a che fare con la cristallizzata idea rettorica di una classicità tradizionalmente intesa, che è cosa di banale evidenza, ormai. Volevamo dire che la sua tragicità è obliqua, secondo l’obliquità apollinea del dio Obliquo. Si capisce, allora, che la sola grande versione moderna, di questo testo, sia stata prodotta da Hölderlin, e che, in qualche modo, da allora, non sia possibile raggiungere Sofocle se non con la sua mediazione. Fu il solo poeta capace di ritrovare, per una volta, la lingua dell’ombelico della terra, la pronuncia enigmatica degli oracoli, la forma oscuramente informe del vaticinio.

Esce, in questi giorni, una silloge di scritti di Hölderlin, Sul tragico, che contiene anche le sue Note all’«Edipo». Nel saggio introduttivo, Remo Bodei ricorda, tra l’altro: «le sue traduzioni dell’Edipo re e dell’Antigone di Sofocle, che ancor oggi sono considerate irraggiungibili nella loro potenza espressiva, provocano le risa di Schelling e le perplessità di Voss, sino a far sospettare che siano una parodia delle cattive traduzioni». Ma l’Edipo è, in qualche modo, per sé, una tragedia tragicamente parodica, nel senso neutro che questo aggettivo può possedere, designando una scrittura di secondo grado. Perché è impostata sopra un codice già dato, e sopra questo codice specula allusivamente: l’oracolese.

E. S.
Genova, 25 marzo 1980

PERSONAGGI

EDIPO
SACERDOTE
CREONTE
CORO DEI VECCHI TEBANI
TIRESIA
GIOCASTA
1° MESSAGGIERO
SCHIAVO DI LAIO
2° MESSAGGIERO
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(EDIPO, SACERDOTE)
EDIPO O figli, giovane generazione di Cadmo l’antico,
sopra quali seggi mi state seduti, qui, voi,
incoronati nei vostri supplici rami?
E la città, intanto, è piena di incensi,
piena di litanie e di lamentazioni.
E queste cose, io che ritengo giusto ascoltarle, o figli,
e non da estranei messaggieri, così sono venuto, io,
che sono chiamato, a tutti famoso, il Piedone.
Ma dimmi, o vecchio, che sei quello che ci vuole, qui,
a parlare per questi, come mai mi state così,
presi da timori, o presi da desideri? Voglio, infatti,
soccorrervi in tutto, io che sono insensibile,
se non ho la compassione di questa vostra seduta.
SACERDOTE Ma tu, o Piedone, che domini la mia regione,
ci vedi, noi, a che età che ci siamo accostati
ai tuoi altari? Alcuni che non hanno ancora la forza
di volare lontano, altri aggravati con la vecchiaia,
e sacerdoti, e io di Zeus, e questi che tra gli adolescenti
sono i migliori, e il resto del popolo, incoronato,
che siede nelle piazze, e presso il doppio tempio
di Pallade, e sopra la cenere profetica dell’Ismeno.
Perché la città, come tu te la vedi, trema
già troppo, e ancora non è in grado di sollevare
la sua testa dagli abissi, e dalla marea sanguinosa,
corrompendosi nei germi fruttuosi della terra,
corrompendosi negli armenti pascolanti, e nei parti
sterili delle donne: e il dio che porta il fuoco,
avventandosi, percuote, pessima peste, la città.
Così è svuotata la casa di Cadmo, e il nero
Inferno si arricchisce di lamenti e di gemiti.
E così stiamo seduti presso questo focolare,
e te, non uguale agli dèi, né io né questi ragazzi,
ma il primo tra gli uomini, nelle sventure della vita,
ti giudichiamo, e nelle relazioni con i dèmoni:
tu che l’hai sciolta, venendo, la cittadella di Cadmo,
dal tributo della dura cantatrice, che noi fornivamo,
e tutto questo, da noi non sapendo, non imparando
niente di più, ma per il soccorso del dio
si dice e si pensa che tu ci hai restaurato la vita.
E così, o potentissima per tutti testa di Piedone,
te tutti ti supplichiamo, noi, qui, prostrati,
di trovarci una forza, per noi, ascoltando la voce
di uno tra gli dèi, o anche imparando da un uomo:
perché, per gli esperti, anche i risultati
delle deliberazioni vedo che sono sommamente vivi.
Avanti, ottimo tra i mortali, risolleva la città:
avanti, e in guardia: perché te, questa terra,
ti chiama il suo salvatore, per il tuo zelo di un tempo:
e del tuo regno non ci toccherà, così, di ricordarci, mai,
che stavamo su, diritti, e che siamo caduti, dopo:
ma risollevala nella sicurezza, questa città.
Con un felice uccello augurale, ci hai procurato la fortuna,
allora, e devi diventarci il medesimo uomo, tu, adesso.
Perché, se governerai questa terra, come la dòmini,
è più bello dominarla con gli uomini, piuttosto che vuota.
Perché una torre non è niente, non è niente una nave
deserta, quando non ci abitano insieme, dentro, gli uomini.
EDIPO O ragazzi che fate compassione, siete venuti desiderando
cose a me note, e non ignote. Perché lo so bene, io,
che siete ammalati, tutti, e che, essendo ammalati,
non ce n’è uno, di voi, come me, che sta ammalato così.
Perché il vostro dolore muove verso uno solo,
verso sé stesso solo, e verso un altro, nessuno: e la mia vita,
invece, geme, insieme, per la città, e per me, e per te.
Così, non mi risvegliate, voi, me addormentato nel sonno,
ma d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. INTRODUZIONE
  4. NOTA DEI CURATORI
  5. EURIPIDE - Le Baccanti (1968)
  6. SENECA - Fedra (1969)
  7. EURIPIDE - Le Troiane (1974)
  8. ESCHILO - Le Coefore (1978)
  9. ARISTOFANE - La festa delle donne (1979)
  10. SOFOCLE - Edipo tiranno (1980)
  11. ESCHILO - I Sette contro Tebe (1992)
  12. IL «FANTASMA DELLA TRADUZIONE»: SANGUINETI E IL TEATRO ANTICO
  13. SANGUINETI TRADUTTORE: DRAMATURG O DRAMMATURGO?
  14. BIBLIOGRAFIA E TEATROGRAFIA