L'arte di vivere
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L'arte di vivere

  1. 144 pagine
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L'arte di vivere

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Informazioni sul libro

Un viaggio nelle più profonde pieghe dell'animo umano attraverso le lettere che il filosofo romano scrive all'amico Lucilio. Un fine esploratore che disegna una mappa senza tempo del paesaggio interiore di ognuno. Per riappropriarsi della vita, delle passioni, dei luoghi. Per riscoprire l'autenticità dei sentimenti, il valore dell'amicizia, la semplicità degli affetti.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858657393

LETTERA 1

L’uso del tempo

Fa’ così, caro Lucilio: renditi veramente padrone di te e custodisci con ogni cura quel tempo che finora ti era portato via, o ti sfuggiva. Persuaditi che le cose stanno come io ti scrivo: alcune ore ci vengono sottratte da vane occupazioni, altre ci scappano quasi di mano; ma la perdita per noi più vergognosa è quella che avviene per nostra negligenza. Se badi bene, una gran parte della vita ci sfugge nel fare il male, la maggior parte nel non fare nulla, tutta quanta nel fare altro da quello che dovremmo. Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo e alla sua giornata, e che si renda conto com’egli muoia giorno per giorno? In questo c’inganniamo, nel vedere la morte avanti a noi, come un avvenimento futuro, mentre gran parte di essa è già alle nostre spalle. Ogni ora del nostro passato appartiene al dominio della morte. Dunque, caro Lucilio, fa’ ciò che mi scrivi; fa’ tesoro di tutto il tempo che hai. Sarai meno schiavo del domani, se ti sarai reso padrone dell’oggi. Mentre rinviamo i nostri impegni, la vita passa. Tutto, o Lucilio, dipende dagli altri; solo il tempo è nostro. Abbiamo avuto dalla natura il possesso di questo solo bene sommamente fuggevole, ma ce lo lasciamo togliere dal primo venuto. E l’uomo è tanto stolto che, quando acquista beni di nessun valore, e in ogni caso compensabili, accetta che gli vengano messi in conto; ma nessuno, che abbia cagionato perdita di tempo agli altri, pensa di essere debitore di qualcosa, mentre è questo l’unico bene che l’uomo non può restituire, neppure con tutta la sua buona volontà.
Mi domanderai forse come mi comporti io che ti dò questi consigli. Te lo dirò francamente: il mio caso è quello di un uomo che spende con liberalità, ma tiene in ordine la sua amministrazione; anch’io tengo i conti esatti della spesa. Non posso dire che nulla vada perduto, ma sono in grado di dire quanto tempo perdo, perché e come lo perdo; posso cioè spiegare i motivi della mia povertà. Capita anche a me, come alla maggior parte della gente caduta in miseria senza sua colpa: tutti sono disposti a scusare, ma nessuno viene in aiuto. E che dunque? Per me non è povero del tutto colui che, per quanto poco gli resti, se lo fa bastare. Ma tu, fin d’ora, serba gelosamente tutto quello che possiedi; e avrai cominciato a buon punto, poiché – ci ammoniscono i nostri vecchi – «è troppo tardi per risparmiare il vino, quando si è giunti alla feccia». Nel fondo del vaso resta non solo la parte più scarsa, ma anche la peggiore. Addio.

LETTERA 2

La lettura che giova

Quello che mi scrivi, come quello che sento dire, mi fa bene sperare di te. Tu non vai qua e là, né ti agiti cambiando continuamente luogo. Quest’irrequietezza è propria di uno spirito malato; ed io considero come primo indizio di un animo equilibrato il sapere restar fermo e raccolto in se stesso. Bada inoltre che, in codesta lettura di molti autori e di libri di ogni genere, tu non vada vagando dall’uno all’altro. Devi acquistare dimestichezza con autori scelti e nutrirti di essi, se vuoi trarne qualcosa che rimanga stabilmente nell’animo. Chi vuol essere da per tutto, non sta in nessun luogo. Chi passa la vita in un continuo vagabondaggio, troverà molti ospiti, ma nessun vero amico. Così è necessario che capiti a chi non si applica con assiduità allo studio di nessun autore ma tutti li scorre in fretta. Non giova, né si assimila, il cibo rigettato appena preso. Niente impedisce tanto la guarigione quanto il cambiare spesso i rimedi. Non arriva a cicatrizzarsi la ferita, se si provano varie medicature. Non cresce vigoroso l’albero che è spesso trapiantato. Nessuna cosa, per quanto utile, reca giovamento in un fuggevole contatto. Troppi libri producono dissipazione: perciò, se non ti è possibile leggere tutti i libri che potresti avere, basta che tu abbia i libri che puoi leggere. «Ma» tu dici «a me piace sfogliare ora questo volume, ora quello.» Assaggiare qua e là è proprio di uno stomaco viziato e troppi cibi diversi non nutrono, ma rovinano l’organismo. Perciò leggi sempre i migliori autori e, se talvolta vuoi passare ad altri, torna poi ai primi. Cerca ogni giorno nella lettura un aiuto per sopportare la povertà e per affrontare la morte e tutte le altre sventure umane. Dopo aver letto molto, scegli un pensiero che tu possa assimilare in quel giorno. Anch’io faccio così: del molto che leggo, prendo sempre qualcosa. Questa, ad esempio, è la massima di oggi, che ho trovato in Epicuro (ho, infatti, l’abitudine di passare in campo altrui, ma come esploratore, non come disertore1): «E una bella cosa» egli dice «la povertà accettata con animo lieto». Ma, se è bene accolta, non è più povertà. È povero non chi possiede poco, ma chi brama avere di più. Che conta quanto uno abbia nella cassaforte o nei granai, quanti armenti abbia al pascolo o quanto gli rendano i crediti, se pensa sempre alla ricchezza altrui e fa calcoli, non su quello che possiede, ma su quello che vorrebbe acquistare? Mi chiedi quale sia il giusto limite della ricchezza. Avere anzitutto l’indispensabile, poi ciò che basta. Addio.
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LETTERA 5

Invito alla semplicità

Tu, tralasciando ogni altra preoccupazione, attendi costantemente solo a renderti ogni giorno migliore; ed io ti lodo e me ne rallegro, e non solamente ti esorto, ma ti prego di perseverare. Tuttavia bada a non essere troppo stravagante nella foggia del vestire o nel modo di vivere, come fanno coloro che bramano, non di progredire spiritualmente, ma di farsi notare. Evita gli abiti rozzi, i capelli lunghi, la barba arruffata, l’odio dichiarato all’argenteria, il giaciglio posto per terra e, in genere, gli atteggiamenti di chi, per false vie, cerca di distinguersi. Il nome di filosofia, anche se usato con moderazione, è già abbastanza odioso: che avverrà se cominceremo ad estraniarci dalle comuni usanze? Nel nostro intimo tutto sia diverso dagli altri, ma nell’aspetto esteriore dobbiamo adattarci ai gusti della gente. Le vesti non siano splendenti, ma neppure sporche. Non cerchiamo vasi d’argento con cesellature d’oro massiccio, ma neppure dobbiamo considerare segno di frugalità la mancanza di ogni oggetto prezioso. Preoccupiamoci che la nostra vita sia, non contraria, ma migliore di quella del volgo; altrimenti respingeremo e terremo lontani da noi quelli che vogliamo correggere. E otterremo anche questo risultato, che non vorranno imitare nulla di noi, dato che temono di dover imitare tutto. La filosofia, partendo dal senso comune, promette socievolezza e cordialità umana: se assumeremo modi stravaganti, non potremo realizzare questi propositi. Badiamo piuttosto che gli atteggiamenti attraverso i quali vogliamo ottenere ammirazione, non siano ridicoli e odiosi. Noi ci proponiamo di vivere secondo natura: ed è contro natura torturare il proprio corpo, odiare una normale pulizia, desiderare il sudiciume e nutrirsi di cibi non solo vili, ma disgustosi e ripugnanti. Come è indizio di mollezza cercare vivande delicate, così è irragionevole rifiutare quelle usuali, procurabili a poco prezzo. La filosofia esige frugalità, non sofferenza, e ci può essere una frugalità non priva di decoro. Ecco le regole di condotta che preferisco: la nostra vita sia ordinata secondo costumi onesti e accettati da tutti; tutti la ammirino, ma siano anche in grado di riconoscerne i pregi. «E allora,» mi dirai «ci comporteremo come gli altri? Non ci sarà nessuna differenza tra noi e loro?» Risponderò: anzi, grandissima. Chi ci osserverà meglio, comprenderà che noi siamo ben diversi dal volgo; ed entrando nella nostra casa, dovrà ammirare noi, e non la suppellettile. È grande colui che usa vasi d’argilla come se fossero d’argento, ma non è da meno chi usa vasi d’argento come se fossero d’argilla. Un animo debole non sa sopportare la ricchezza.
Ma, per farti partecipe anche del mio piccolo guadagno di oggi, ti dirò che presso il nostro Ecatone ho letto che il sopprimere i desideri è anche un utile rimedio contro la paura. «Non avrai più paura» egli dice «se avrai cessato di sperare.» Obietterai: «Come possono stare insieme due sentimenti così diversi?» Eppure è così, caro Lucilio: sono strettamente congiunti, anche se sembrano fra loro in contrasto. Come la stessa catena unisce il prigioniero e la guardia, così codesti sentimenti tanto dissimili vanno insieme: la paura tiene dietro alla speranza. Né ciò mi meraviglia: l’una e l’altra tengono l’animo sospeso, l’una e l’altra lo rendono ansioso nell’attesa del futuro. L’una e l’altra scaturiscono dal fatto che non ci adattiamo al presente, ma proiettiamo i nostri pensieri nel futuro. Perciò la facoltà di prevedere l’avvenire, che è una delle più nobili doti dell’uomo, si rivolge in suo danno. Le bestie fuggono i pericoli che vedono, ma, una volta che li hanno evitati, stanno tranquille. Noi siamo in ansia sia per il futuro che per il passato. Molte nostre qualità possono nuocerci: la memoria infatti ci rinnova il tormento della passata paura e ce lo anticipa la nostra attitudine a prevedere il futuro. Nessuno è infelice solo per il presente. Addio.
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LETTERA 7

La folla e gli spettacoli immorali

Mi chiedi che cosa tu debba specialmente evitare. Rispondo: la folla. Non puoi ancora affidarti ad essa senza pericolo. Ti confesserò questa mia debolezza: non torno mai a casa quale ne ero uscito; qualcosa si turba di quell’ordine che avevo posto nel mio spirito, e riappare qualche difetto di cui mi ero liberato. Ciò che capita a coloro che, per essere stati a lungo ammalati, sono così deboli da non potersi più muovere senza danno, capita anche al mio spirito, che si sta rimettendo dopo una lunga malattia. La compagnia della moltitudine è dannosa: c’è sempre qualcuno che ci rende gradevole un vizio o, senza che ce ne accorgiamo, ce lo trasmette in tutto o in parte. Più sono le persone con cui viviamo, maggiore è il pericolo. Nulla è tanto nocivo ai buoni costumi quanto assistere oziosi a certi spettacoli. Allora, infatti, mediante le attrattive del piacere, i vizi si insinuano più facilmente. Comprendi ciò che voglio dire? Ritorno più avaro, più ambizioso, più lascivo? Addirittura più crudele e più inumano, proprio perché sono stato in mezzo agli uomini. Capitai per caso ad uno spettacolo sul mezzogiorno,1 aspettandomi qualche scenetta comica che potesse distrarre la mente e far riposare gli occhi dalla vista del sangue umano. È avvenuto proprio il contrario: le lotte precedenti erano state atti di bontà in confronto; ora non più finti combattimenti, ma veri e propri omicidi. Non hanno armi di difesa: esposti in tutto il corpo ai colpi, non ne allungano mai uno invano. E la maggior parte degli spettatori preferisce queste scene alle coppie ordinarie di gladiatori e a quelle straordinarie, concesse a richiesta del pubblico. E perché non dovrebbero preferirle? Contro i colpi di spada non c’è né elmo né scudo. A che le difese? A che le schermaglie? Servono solo a ritardare la morte. Al mattino gli uomini sono dati in pasto ai leoni e agli orsi, dopo il mezzogiorno ai loro spettatori. Coloro che hanno già ucciso devono affrontare altri che li uccideranno e il vincitore viene serbato per essere ucciso a sua volta. La morte è la tragica conclusione a cui i combattenti vengono spinti col ferro e col fuoco.2 E tutto ciò avviene nell’intervallo del mezzogiorno! «Ma» si dirà «costui è un brigante, un assassino. » E che perciò? Perché ha ucciso, egli ha meritato questa pena; tu, o sciagurato, quale delitto hai commesso per dover assistere a un simile spettacolo? «Uccidi, flagella, brucia! Perché quello va incontro alle armi con tanta paura? Perché non ha il coraggio di uccidere? Perché non è disposto a morire volentieri? Lo si spinga al combattimento a nerbate; l’uno e l’altro espongano i petti nudi ai reciproci colpi.» Lo spettacolo è sospeso. «Intanto non si stia senza far niente, si sgozzi qualcuno!» Ma non capite che i cattivi esempi ricadono su coloro che li danno? Ringraziate gli dei immortali, se quello a cui insegnate la crudeltà non impara.3
Bisogna sottrarre alla folla le anime deboli e poco salde nel bene: è facile cedere ai gusti della maggioranza. Anche Socrate, Catone e Lelio, in mezzo a un popolo di costumi corrotti, avrebbero potuto perdere la loro dirittura morale. Tanto meno noi, proprio ora che stiamo educando il nostro carattere, potremmo resistere all’assalto di tanti vizi. Un solo esempio di dissolutezza e di avarizia può provocare un gran male; un amico dedito ai piaceri a poco a poco ci snerva e ci rende fiacchi; la vicinanza di un ricco suscita la brama di ricchezza; un compagno cattivo attacca la sua ruggine anche all’uomo più candido e schietto. E che cosa accadrà a colui che è circondato da una moltitudine corrotta? È spinto o ad imitarla o ad odiarla. Ma occorre che tu eviti l’uno e l’altro estremo: non devi essere simile ai malvagi solo perché sono molti, né ostile ai molti perché sono dissimili da te. Raccogliti in te stesso, per quanto puoi; vivi con quelli che possono renderti migliore e che tu puoi rendere migliori. C’è un vantaggio reciproco, perché gli uomini, mentre insegnano, imparano. L’ambizione di mettere in mostra il tuo ingegno non ti spinga in mezzo alla folla a fare pubbliche letture o conferenze. Te lo consiglierei se tu avessi una merce adatta ai gusti popolari, ma fra questa moltitudine nessuno ti comprenderebbe. Te ne capiterà forse qualcuno, uno o due, e tu dovrai prima formarlo ed educarlo, perché possa comprenderti. «Ma allora» mi dirai «per chi ho appreso tutte queste cose?» Nessun timore di aver faticato invano, se le hai apprese per te.
Ma perché quello che ho imparato non serva solo a me, ti metterò a parte di tre belle sentenze sullo stesso argomento, che mi sono capitate sotto gli occhi. Una di queste sentenze è il tributo che ti debbo per la lettera odierna, le altre due accettale come anticipo. Dice Democrito: «Per me una persona vale come tutto un popolo, e tutto un popolo come una persona». Bello è anche il motto di quest’altro, chiunque sia stato (infatti ne ignoriamo il nome). Gli era stato chiesto perché mettesse tanto impegno in una disciplina che pochissimi avrebbero compresa; ed egli rispose: «Mi bastano pochi, mi basta uno, mi basta nessuno». E acuto è questo terzo pensiero che Epicuro espresse in una lettera a un suo compagno di studi: «Ti scrivo questo non per la moltitudine, ma per te; siamo infatti l’un per l’altro un teatro abbastanza grande». Questi pensieri, o mio Lucilio, imprimili nell’animo, per disprezzare il piacere che deriva dall’approvazione dei molti. Molti ti lodano; che motivo hai di compiacerti di te stesso, se poni la tua soddisfazione solo nel fatto che la moltitudine riconosce i tuoi meriti? È alle intime soddisfazioni che devi aspirare. Addio.

LETTERA 9

Il saggio sente profondamente gli affetti umani

Epicuro, in una sua lettera, riprova chi afferma che il saggio è pago di se stesso e perciò non ha bisogno di amici; e tu desideri sapere se ha ragione. Epicuro fa questo rimprovero a Stilbone1 e a coloro per i quali il sommo bene consiste nella completa insensibilità dell’animo. Di necessità si cade nell’equivoco se vogliamo esprimere il vocabolo greco con una sola parola e traduciamo ἀπάυεια con «impassibilità». Si potrà infatti intendere il contrario di quello che vogliamo dire. Noi ci riferiamo a colui che non si lascia turbare dalla sensazione del male; c’è chi, invece, si riferisce a colui che non può sopportare alcun male. Conviene perciò distinguere, parlando di un animo invulnerabile oppure di un animo del tutto incapace di soffrire. Fra noi e loro c’è questa differenza: il saggio, secondo noi, sente ogni contrarietà, ma la vince; secondo loro, non la sente neppure. Noi e loro abbiamo in comune la convinzione che il saggio è pago di se stesso; ma, per quanto basti a se stesso, desidera avere amici, vicini di casa, compagni di studio. Vedi in che senso egli è pago di sé: talvolta gli basta una sola parte di sé. Se, ad esempio, a causa di una malattia o di una violenza nemica, ha perduto una mano, se per qualche disgrazia gli è stato cavato un occhio, o entrambi gli occhi, quella parte di sé che gli rimane gli basterà, e col corpo indebolito e mutilato sarà lieto come quando aveva il corpo sano e integro: ma se non rimpiange la perduta integrità fisica, ciò non significa che preferisce la sua minorazione. Così il saggio basta a se stesso, non nel senso che vuole vivere senza amici, ma che lo può. E quando dico «può», voglio intendere che il saggio sopporta serenamente la perdita di un amico; ma non sarà mai senza amici, perché è in suo potere contrarre subito una nuova amicizia. Se Fidia avesse perso una statua, subito ne avrebbe fatta un’altra; così questo artefice di amicizie, se perde un amico, lo sostituirà con un altro. Tu mi chiedi: «Come potrà subito trovare un amico?» Te lo dirò, se mi consenti di pagarti ora il mio debito; e così, per questa lettera, siamo pari. Dice Ecatone: «Ti rivelerò un filtro amoroso, senza unguenti, senza erbe, senza formule magiche: se vuoi essere amato, ama». Perché non è soltanto la consuetudine di un’amicizia antica e sicura che dà grande piacere, ma anche il momento iniziale e l’acquisizione di un’amicizia nuova. Fra colui che ha già un amico e chi lo sta cercando passa la stessa differenza che c’è fra il mietitore e il seminatore. Il filosofo Attalo2 soleva dire che dà più piacere farsi un amico che averlo, «come al pittore dà più soddisfazione dipingere un quadro che averlo già fatto». L’ansia e l’impegno nel lavoro procurano per se stessi un grande diletto. Non ne prova uno simile chi ha terminato di dare l’ultima mano all’opera sua: ora si gode il frutto della sua arte; quando dipingeva, si godeva la sua stessa arte. I figli già grandicelli ci sono più utili, ma quando erano ancora fanciulli ci davano gioie più pure.
Ma torniamo al nostro argomento. Il saggio, anche se basta a se stesso, vuole tuttavia avere un amico, se non altro per esercitare l’amicizia, perché una virtù così bella non sia trascurata. E non al fine, a cui mira Epicuro in questa stessa lettera, cioè «perché uno abbia chi lo assista nelle malattie o gli venga in aiuto se è prigioniero o bisognoso», ma, al contrario, perché uno abbia qualcuno da assistere se è malato, o da riscattare, se è stato fatto prigioniero dal nemico. Chi pensa solo a sé e a questo scopo stringe amicizia è in grave errore. Come fu l’inizio, tale sarà la fine: si è fatto un amico che lo soccorresse nella prigionia, ma questi lo abbandonerà al primo rumore di catene. Sono queste le amicizie dette comunemente di circostanza: le amicizie fatte per opportunismo saranno gradite finché saranno utili. Una folla di amici ti circonda nella buona fortuna; ma, se cadi in disgrazia, rimani solo, poiché tutti son fuggiti nell’ora della prova. Così vediamo tanti esempi di uomini scellerati che per paura abbandonano l’amico, di altri che per paura lo tradiscono. Necessariamente l’amicizia finisce come è cominciata. Chi ha stretto un rapporto di amicizia per interesse, lo romperà per lo stesso motivo: farà il suo interesse anche contro l’amicizia, se in essa vede solo l’aspetto utilitario. «A qual fine ti fai un amico?» Per avere una persona per cui io possa morire, che io possa seguire nell’esilio e salvare dalla morte, a prezzo di qualunque sacrificio. Invece codesta che tu mi descrivi non è amicizia, ma un affare che mira solo all’utile da conseguire. Certo qualcosa di simile all’amicizia è nell’amore, che si potrebbe chiamare una folle amicizia. È mai possibile amare per avern...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. INTRODUZIONE
  4. CRONOLOGIA
  5. LETTERA 1 - L'uso del tempo
  6. LETTERA 2 - La lettura che giova
  7. LETTERA 5 - Invito alla semplicità
  8. LETTERA 7 - La folla e gli spettacoli immorali
  9. LETTERA 9 - Il saggio sente profondamente gli affetti umani
  10. LETTERA 12 - Anche la vecchiaia ha le sue gioie
  11. LETTERA 16 - La nostra vita deve essere regolata dalla filosofia
  12. LETTERA 18 - Elogio della povertà
  13. LETTERA 20 - I fatti devono andare d'accordo con le parole
  14. LETTERA 23 - La vera gioia
  15. LETTERA 24 - Come si deve affrontare la morte
  16. LETTERA 28 - È l'animo che devi cambiare, non il cielo sotto cui vivi
  17. LETTERA 31 - Il vero bene è strettamente congiunto alla virtù
  18. LETTERA 39 - Bisogna dominare le passioni
  19. LETTERA 41 - La presenza di dio in noi e nella natura
  20. LETTERA 44 - La vera nobiltà
  21. LETTERA 45 - Bisogna cercare la verità, ma senza cavillose sottigliezze
  22. LETTERA 47 - Anche gli schiavi sono uomini
  23. LETTERA 49 - La vita è breve: non sprechiamola in cose vane
  24. LETTERA 51 - I luoghi di soggiorno più adatti al saggio
  25. LETTERA 56 - Non il silenzio esterno, ma il placarsi delle passioni dà la vera quiete
  26. LETTERA 59 - Differenza tra il piacere volgare e la gioia del sapiente
  27. LETTERA 60 - I nostri desideri devono corrispondere alle semplici esigenze naturali
  28. LETTERA 69 - Bisogna lottare contro le tentazioni
  29. LETTERA 70 - Considerazioni sul suicidio
  30. LETTERA 72 - Dobbiamo preferire la ricerca della saggezza a ogni altra occupazione
  31. LETTERA 80 - Bisogna esercitare lo spirito più che il corpo
  32. LETTERA 86 - La villa di Scipione e la semplicità degli antichi Romani
  33. LETTERA 91 - Considerazioni dopo l'incendio di Lione
  34. LETTERA 98 - La fortuna non può farci né bene né male
  35. LETTERA 101 - La vita è breve: evitiamo, dunque, programmi troppo estesi
  36. LETTERA 116 - Bisogna cacciar via le passioni
  37. LETTERA 118 - In che consiste il vero bene
  38. LETTERA 119 - Chi sa limitare i propri desideri è veramente ricco
  39. LETTERA 120 - Il bene e l'onesto. Definizione dei due termini
  40. REPERTORIO DEI NOMI