Carta straccia (VINTAGE)
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Carta straccia (VINTAGE)

Il potere inutile dei giornalisti italiani

  1. 399 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Carta straccia (VINTAGE)

Il potere inutile dei giornalisti italiani

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La faziosità politica. Gli errori a raffica. Le interviste ruffiane. Le vendette tra colleghi. Lo schierarsi in campi contrapposti, divisi da un'ostilità profonda. Dopo cinquant'anni trascorsi nei giornali, lavorando in molte testate con incarichi diversi, Giampaolo Pansa fa di quel mondo un racconto all'arma bianca, implacabile, che non fa sconti a nessuno. Tra passato e presente, mette in scena una quantità di personaggi, tutti attori di una recita spesso ingannevole e deviata: l'informazione stampata e televisiva, di volta in volta commedia o tragedia.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
ISBN
9788858620502
Carta straccia
Parte prima
1
Perché Carta straccia
Una domenica del gennaio 2011 telefonai a Livia Bianchi. I miei lettori si ricorderanno certo di lei: la bibliotecaria di Firenze che mi aveva affiancato nella ricerca per i libri sulla guerra civile. A cominciare dal primo, Il sangue dei vinti, fino all’ultimo uscito nel 2010, I vinti non dimenticano. Livia conosceva tutto di me, tranne l’impresa che avevo appena concluso.
Le chiesi: «Cara Livia, prima di tutto come sta?».
«Molto bene» rispose, allegra. «Ma non credo che lei mi abbia telefonato per sapere come sto. Non lo vedo il Pansa che mi cerca senza un secondo fine. Ha in mente qualche altro libro da scrivere e vuole di nuovo il mio aiuto?»
«No, non ho in programma nessun libro. Per il semplice motivo che l’ho già scritto. E da solo.»
Livia restò di sasso per la sorpresa: «Un nuovo libro sulla guerra civile? Scritto senza dirmi nulla e, soprattutto, senza chiedermi di darle una mano?».
Mi misi a ridere, come facevo da ragazzino, quando consegnavo il compito in classe prima del tempo fissato dall’insegnante. Poi le spiegai: «Questa volta non è un libro sulla guerra civile. È un lavoro del tutto diverso, dedicato a un’altra questione che penso di conoscere bene».
Livia mi sembrò perplessa. Ma a vincere fu la sua curiosità: «E quale sarebbe quest’altra questione?».
«Non glielo dirò. Farò di più: verrò a Firenze e le porterò il libro che la Rizzoli ha accettato di pubblicare. Le bozze non ci sono ancora. Le consegnerò quello che un tempo si chiamava il manoscritto e che, oggi, è la stampata del computer. Posso venire a Firenze da lei, il prossimo sabato?»
Livia sospirò: «Non ho la forza di dire no a un signore invadente. Venga a trovarmi, l’aspetto. Ma soltanto di pomeriggio. È il mio giorno di riposo e vorrei dormire un po’ più a lungo per essere in grado di affrontarla».
Quel sabato, verso le tre, bussai alla porta di Livia. E lei mi accolse con il bel sorriso che conoscevo. Non la vedevo dall’estate precedente e la trovai sempre in gran forma: una signora intorno ai cinquant’anni, cicciosa e svelta, molto desiderabile agli occhi di un signore anziano come il sottoscritto.
Ma in quel momento venni afferrato da un dubbio: forse avevo fatto male a non dirle nulla del nuovo libro. E poi presentarmi con il malloppo in mano per chiederle che cosa ne pensasse.
Livia doveva conoscermi davvero da cima a fondo. Infatti mi lesse nel pensiero e m’interrogò, con un sorriso malizioso: «Lei teme che mi sia offesa e che adesso rifiuti di leggere il suo capolavoro?».
«Un pochino sì. E vorrei levarmi subito questo dente. Dove possiamo sederci?»
«Al tavolo della cucina, come abbiamo sempre fatto. Oppure desidera un ambiente più consono alla sua autorità di scrittore?» mi domandò lei, sfottente.
La cucina mi andava bene. Del resto, quella di Livia era sempre tirata a lucido, con un perfezionismo che ogni volta mi stupiva. Mi accomodai al tavolo e le consegnai il manoscritto.
Sulla prima pagina campeggiava il titolo: Carta straccia.
La sorpresa di Livia durò appena qualche istante. E lasciò subito il posto a una domanda: «Non aveva già scritto un paio di libri sui giornali?».
«Sì. Il primo nel 1977: Comprati e venduti. I giornali e il potere negli anni ’70, pubblicato da Bompiani. Il secondo nel 1986: Carte false. Peccati e peccatori del giornalismo italiano. Ma sono testi superati. Due libri che non si trovano più, neppure nei cataloghi degli antiquari o sulle bancarelle dell’usato.»
«Vedo che è ritornato sui suoi passi. Come mai?» m’interrogò Livia.
«Il 1° gennaio 2011 ho celebrato i miei cinquant’anni di giornalismo. Un’eternità! E non mi sono ancora stancato di lavorare per la carta stampata e di scriverne. È un bene o un male?»
Livia alzò le spalle: «Non pretenda una risposta. L’unico che può saperlo è lei. Mi limito a pensare che, in questo mezzo secolo, il Pansa ne abbia fatte e viste di tutti i colori...».
«Sì. E molte delle cose che ho visto e fatto le troverà in Carta straccia
«Che razza di libro è?»
«Lo vedrà leggendolo» risposi a Livia. «Le dirò soltanto che non è un saggio sui mass media, una specialità noiosa che lascio volentieri ai tanti professori delle scuole di giornalismo. Questo è un libraccio molto personale, zeppo di ricordi, di personaggi, di situazioni. Tutta merce spacciata alla buona, quasi sempre in modo sornione e allegro. Ma con un bel po’ di pagine toste, scritte all’arma bianca, da vera carogna.
«Mentre ci lavoravo» continuai, «mi sono reso conto che lo pensavo destinato a un lettore come lei. Una persona più giovane di me. Che legge molti libri e, insieme, molti giornali. Li legge e li giudica. Con quale risultato non lo so.»
«Vuole saperlo?» mi domandò Livia. «È vero, per il lavoro che faccio vedo un pacco di quotidiani e pure di settimanali. Ma con un gusto sempre più scarso. Quando prendo in mano un giornale, so in anticipo che cosa mi dirà. Ormai è difficile trovarne uno che non sia schierato con questa o quella parte politica. La faziosità dilaga e rende la carta stampata prevedibile e vuota di sorprese. Per non parlare del resto. Giornali sgrammaticati. Scritti in giornalistese, un linguaggio pomposo e vacuo, a volte doppio e triplo. Pieni di errori, di notizie confuse, di inchieste superficiali. Insomma, un prodotto sempre più inaffidabile...»
La fermai: «Avevo visto giusto nel ritenere Livia Bianchi il lettore ideale di questo libro. Lo consideri un lungo racconto rivolto alle persone come lei. E le parole che ha appena detto, i giornali sono merce sempre più inaffidabile, mi aiutano a spiegarle qual è lo stato d’animo che mi ha spinto a scrivere Carta straccia. Ma dovrà perdonarmi se adesso le parlerò di me».
Livia sorrise: «Lei parla sempre di se stesso. Ci sono abituata. La sua vena autobiografica è inesauribile. Sentiamo che cosa ha in mente di dirmi».
«Innanzitutto, voglio spiegarle che mi è sempre piaciuto scrivere. Vedrà che Carta straccia comincia raccontando dell’incontro con la mia prima macchina per scrivere, regalata da mio padre quando non avevo ancora 13 anni. Da allora non ho più smesso. Se vedevo un foglio di carta bianca non ero capace di resistere. Oggi accendo di continuo il computer, ma non per leggere le sciocchezze spacciate su internet. No, ci scrivo qualunque cosa, dieci parole o dieci pagine.
«Sono affascinato dalle parole messe nero su bianco, cara Livia. Le allineo come capita. A volte creo un discorso compiuto, a volte non me lo propongo neppure. Mi basta scriverle per rendermi conto, ancora una volta, che questo dà un senso alla mia vita. Raccontare le storie degli altri, oppure la mia, è l’esperienza più eccitante che ho incontrato nel crescere.
«Sino a dieci anni fa, lo facevo con la macchina per scrivere. Poi ho scoperto il computer, sia pure con un bel po’ di ritardo. Non riuscivo a staccarmi dall’Olivetti. In casa ne ho sette, di tutte le epoche e di tutte le dimensioni. Adesso non le uso più. Il computer è diventato anche il mio rifugio segreto, il mio confidente, il mio confessore.
«Lo considero una persona alla quale posso raccontare quello che non rivelerei a nessuno, neppure alla donna che amo. Spesso mi aiuta a creare un mondo immaginario. Dove accadono fatti sorprendenti. Sono le fiabe di un adulto che gioca con la fantasia. Quando le rileggo, mi sembra di ritornare bambino, ma con tutti i vizi di chi ha i capelli bianchi. Non le pubblicherò mai. Anche perché hanno spesso un lato storto che mi prende la mano.»
Livia mi ascoltò stupita: «Pensavo di conoscerla, ma vedo che non è così. E non voglio sapere altro. La prego di ritornare ai temi di Carta straccia. Del resto, siamo qui per questo e non per altro».
«Ha ragione. E allora le dirò che, quando ho iniziato a lavorare per i giornali e avevo 25 anni, mi sono posto una domanda: quello che andavo scrivendo era la verità o no? Mi risparmi l’obiezione che era una domanda oziosa, perché la verità è un traguardo che non può essere raggiunto da nessun essere umano. È una risposta che mi sono dato da solo. Infatti ho subito cambiato quella domanda in un’altra: sono un giornalista obiettivo oppure no? Ho cominciato a riflettere su questo nuovo interrogativo quando ho ricevuto un premio per me molto importante.»
«Che premio era?» domandò Livia. «So tante cose di lei, ma niente dei premi che, a torto o a ragione, si è guadagnato.»
«Accadde nel 1970, quando avevo 35 anni e lavoravo per “La Stampa” di Alberto Ronchey. Era il Premio Palazzi, istituito da un editore oggi scomparso. Un premio ambìto nel nostro mestiere, perché segnalava ogni anno il lavoro di un inviato speciale. Prima di me, l’avevano vinto colleghi più anziani e più illustri, poi diventati direttori di grandi giornali. Il verbale della giuria era stato di manica molto larga. Elencava i servizi che avevo scritto, parlava di “impegno generoso”, di “indagini su eventi spesso inquietanti e pericolosi” e, soprattutto, di “puntuale obiettività giornalistica”. Troppa grazia, sant’Antonio! Così avrebbe esclamato mia nonna Caterina.»
Livia mi scrutò, con un sorriso ironico: «Non era soddisfatto della motivazione del premio?».
Sbuffai: «Aspetti e non faccia domande. Ero confuso e lusingato. E accettai tutto: i soldi del premio e le decorazioni. Ma rifiutai una medaglia: quella dell’obiettività. La respinsi subito, davanti al pubblico raccolto al Circolo della stampa di Milano. Risposi che non potevo e non volevo essere un giornalista obiettivo».
«E come lo spiegò?» chiese Livia, sorpresa.
«Intendevo farlo con gli appunti che avevo preso nell’ascoltare il relatore del premio. Grazie alla mania di archiviare quel che mi interessa, li ho conservati. Ecco il foglietto, glielo leggo, perché l’ho messo nella memoria del computer.»
Lessi i miei appunti di allora: «“Obiettività? Non ne capisco il significato. Vuol dire limitarsi a esporre i fatti così come sono avvenuti? Già, ma resta da vedere che cosa si intende nel precisare ‘così come sono avvenuti’. Significa indifferenza glaciale e niente giudizi? Ma questo non è possibile. Vorrebbe dire mettere tutto e tutti sullo stesso piano, i buoni e i cattivi, i princìpi che aiutano a migliorare l’uomo e la negazione di questi princìpi”.
«Erano banalità, la scoperta dell’acqua calda» dissi a Livia. «E così, quando venne il mio momento di parlare al pubblico del Palazzi, tenni il foglietto in tasca. E mi limitai a citare quello che un giorno aveva detto un grande storico, Gaetano Salvemini. Lui sosteneva che allo storico non si può chiedere l’obiettività, ma si deve esigere da lui il massimo dell’onestà.»
«Salvemini che cosa intendeva per onestà?» domandò Livia.
«Provo a spiegarlo parlando non di lui, ma di noi giornalisti. Per esempio, cercare di capire i fatti che accadono e riferirli in modo completo al lettore. Anche quando non ci piacciono o fanno a pugni con le cose che amiamo. Tenere conto del punto di vista di chi non la pensa come noi. Coltivare sempre il dubbio e non credere a scatola chiusa a nessuna tesi.»
Livia mi scrutò, dubbiosa: «Lei si è sempre comportato così?».
«Ogni volta ho tentato di farlo. E non sempre ci sono riuscito. Ma i miei occhiali hanno ancora oggi lenti chiare, non colorate di bianco, di rosso o di nero. Ho preferito sbagliare da solo e non per compiacere un partito politico o un potentato economico. È possibile che i lettori dei miei articoli e dei miei libri diano un giudizio diverso del mio lavoro. Eppure, il mio atteggiamento non è mai cambiato: essere me stesso anche nell’errore.
«Purtroppo, nel giornalismo odierno è difficile rintracciare la tensione all’obiettività o alla sua conseguenza positiva: l’imparzialità. Ma non voglio dirle di più. Quando leggerà Carta straccia, troverà molte pagine che raccontano la mutazione profonda, e negativa...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Carta straccia