La Repubblica del selfie
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La Repubblica del selfie

Dalla Meglio Gioventù a Matteo Renzi

  1. 260 pagine
  2. Italian
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La Repubblica del selfie

Dalla Meglio Gioventù a Matteo Renzi

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La scalata all'Italia di Matteo Renzi è stata raccontata dal suo protagonista come una guerra lampo dalle cadenze napoleoniche, un cambiamento di stagione epocale, contro nemici di ogni tipo. In realtà è stata una resa senza condizioni. Senza opporre resistenza, partiti, industriali, intellettuali si sono consegnati al giovane conquistatore: una bandiera bianca collettiva, la dissoluzione della rete di alleanze ed equilibri su cui si reggeva la Repubblica italiana. Quella Repubblica nata settant'anni fa con i ragazzi scesi dalle montagne per sedersi al tavolo della Costituente. Erano i padri della democrazia, i buoni maestri che tenevano insieme cattolici e comunisti, radicali e liberali, e intanto costruivano autostrade e conficcavano milioni di antenne sui tetti delle case. Ma poi i padri invecchiarono e arrivarono i figli, la meglio gioventù della tv a colori e dell'aria di piombo. Una menzogna. L'inizio del vuoto. Un vuoto durato quarant'anni. In quel vuoto è nata e cresciuta la nuova razza padrona, che ha il volto di Matteo Renzi e si presenta senza passato, avida di presente, proiettata al futuro. Detesta il fardello della memoria, rifiuta la responsabilità dei decenni precedenti: noi non c'eravamo, ripete. Invece va inserita in una storia. In quella che arriva da lontano, nel lunghissimo processo che attraversa gli ultimi anni Settanta, gli Ottanta e Novanta fino a Tangentopoli. E in quella pi? recente, il crack di una classe dirigente provocato dalla crisi economica e da un divorzio irreparabile tra cittadini e politica. "Una lunga caduta, come nei sogni. Il risveglio tocca ai figli. Nel vuoto si sono mossi, in mezzo al vuoto hanno conquistato il potere, puntando sul vuoto rischiano di perdere. O di invecchiare precocemente."

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
ISBN
9788858658437
Argomento
History
Categoria
World History

II

Ascesa e declino della Meglio Gioventù

5

Una storia di padri e di figli

Un preciso senso di gioia

La Meglio Gioventù non è mai esistita. È un artificio, un’invenzione. Un’illusione, nel migliore dei casi, o un’auto-illusione. Il risultato di una straordinaria attività di marketing, di un’infaticabile promozione di sé.
La Meglio Gioventù è una mistificazione. Una menzogna. Come tutto o quasi quello che è avvenuto negli ultimi quarant’anni.
C’è un’epica generazionale, tramandata da film, romanzi, trasmissioni tv, memorie: gli angeli del fango, la legge Basaglia e i matti fuori dal manicomio, l’autunno caldo e la contestazione studentesca, il terrorismo e le cariche della polizia, la conquista del cielo, l’immaginazione al potere. E poi solo il potere, senza più immaginazione.
Ma per i figli della Meglio Gioventù, gli anni epici dei padri coincidono con un disastro. Il declino italiano. Debito pubblico alle stelle, disoccupazione, precarietà lavorativa ed esistenziale, metropoli devastate e campagne abbandonate a se stesse, insensatezza della politica, prosciugamento intellettuale, deserto etico.
Un bilancio catastrofico, mai riconosciuto.
Loro, quelli della meglio, i mejo, in questa storia non ci sono quasi mai. Sono altrove. Ma che colpa abbiamo noi, se non siamo come voi, replicano come si faceva un tempo.
PPP (Pier Paolo Pasolini) li odiava questi gli auto-proclamatisi mejo-giovani, la nuova gioventù che avanzava negli anni Sessanta. La meglio, quella migliore, per lui era quella precedente, i padri che avevano fatto la guerra ed erano sopravvissuti al fascismo.
«Fontana di aga dal me paìs. / A no è aga pì fres’ cia che tal me paìs. / Fontana di rustic amòur» scrive nella dedica in friulano al suo paese Casarsa che apre la raccolta La meglio gioventù pubblicata nel 1954. «Fontana d’acqua del mio paese. / Non c’è acqua più fresca che nel mio paese. / Fontana di rustico amore.» Venti anni dopo, nel 1974, il poeta pubblica la Seconda forma de La meglio gioventù e ritorna a Casarsa con una nuova dedica. Una dedica amara: «Fontana di aga di un paìs no me. / A no è aga pì vecia che ta chel paìs. / Fontana di amòur par nissùn».
Fontana di un paese non mio. Non c’è acqua più vecchia che in quel paese. Fontana di amore per nessuno.
I suoi anni Sessanta – per la precisione è l’estate del 1959 – Pasolini li ha cominciati in viaggio per l’Italia per la rivista «Successo», alla guida di una Fiat Millecento: una lunga strada di spiaggia che lo porta dal Nord alla Sicilia. Un Paese festoso, quello che incontra: Livorno «è la città d’Italia dove, dopo Ferrara e Roma, mi piacerebbe più vivere. Lascio ogni volta il cuore sul suo enorme lungomare. È una città di gente dura, poco sentimentale: di acutezza ebraica, di buone maniere toscane, di spensieratezza americanizzante». Alla Capannina di Forte dei Marmi c’è una riunione del Rotary Club e Gianni Agnelli è «grasso, fiorente, abbronzato». A Ostia, dove Pasolini sarà ucciso, «arrivo sotto un temporale blu come la morte. Il Grande Formicaio si è mosso. Gli stabilimenti, vuoti, paiono immensi». Taranto «brilla sui due mari come un gigantesco diamante in frantumi». E a Ischia Pier Paolo scrive appunti a mano sul foglietto dell’hotel Savoia: «Sono felice. Era da tanto che non potevo dirlo: e cos’è che mi dà questo intimo, preciso senso di gioia, di leggerezza? Niente. O quasi».
Alla fine del decennio successivo la leggerezza è sparita. Ha lasciato il posto all’invettiva cupa, asfissiante, apocalittica contro i contestatori del Sessantotto. Quelli che hanno le facce da figli di papà: «Così parlando, chiedete tutto a parole, mentre, coi fatti, chiedete solo ciò a cui avete diritto (da bravi figli borghesi)».

L’album dei ricordi

Li hanno tramandati come i giorni cantati, quegli anni formidabili.
Il loro album dei ricordi, il loro quartiere, il loro liceo, la loro epopea. Il loro narcisismo. Il non sentirsi mai responsabili di nulla.
La furia della rottamazione degli anni Duemila scaturisce anche da una resa dei conti sempre evitata della precedente generazione con se stessa. Meglio rifugiarsi nei miti.
I ragazzi che amavano i Beatles e i Rolling Stones, le figurine Panini, Pizzaballa e Giggirriva Rombo di Tuono e il Bologna di Fuffo Bernardini che così si gioca solo in Paradiso. Pelé.
Bandiera Gialla, il Piper di Patty Pravo e il Folk Studio, Caterina Caselli e il maledetto tristissimo Luigi Tenco e il malinconico gnomo Lucio Battisti e Mina, Maurizio Vandelli e Shel Shapiro. Edoardo Vianello.
Martin Luther King, Bob e John Kennedy, Malcolm X, Che Guevara, Castro-Mao-Ho Chi-minh.
Lo sbarco sulla Luna è un piccolo passo per un uomo, un grande passo per la televisione italiana. La diretta più lunga della storia, Tito Stagno e Ruggero Orlando si diedero sulla voce al momento dell’allunaggio e fu la fine della fiducia nella tv, la prima rissa televisiva e istituzionale della storia italiana. L’eleganza del bianco e nero di Studio Uno e di Canzonissima, l’effetto nostalgia che scatenano quelle immagini anche in chi non le ha vissute, sfumerà poi nel grigio, per precipitare definitivamente nei colori. O nel colore.
Tv7 e Rt-Rotocalco italiano, i telegiornali «specialisti nella manipolazione sistematica della verità, ruminanti della notizia» scriveva Sergio Saviane, il geniale critico televisivo dell’«Espresso» anni Settanta, fustigatore dei primi pallidissimi divi del telegiornalismo, i mezzibusti, lontani parenti di Guglielmo il Dentone, il fuoriclasse di Alberto Sordi che stravince il concorso pubblico per condurre il Telegiornale Rai perché sa tutto nonostante gli evidenti difetti estetici. «Se una volta erano i ministri democristiani a rubarsi i minuti del telegiornale con le loro veline, le inaugurazioni e i volti ben nutriti, oggi sono i giornalisti a prendere il loro posto e a contendersi lo spazio.» Aveva intuito come sarebbe andata a finire.
I comizi d’amore, la Corea di Pak Doo-Ik, Mariolino Corso e il più mancino dei tiri. Italia-Germania 4 a 3 celebrato in libri, film, poesie, spettacoli teatrali, quanta epica sprecata per un campionato perso e malamente, da far studiare a memoria alla generazione successiva che pure nel 1982 aveva gioito per il mondiale di calcio spagnolo, vinto trionfalmente. Mentre nel 1970 era finita con i pomodori contro la squadra italiana all’aeroporto.
Il Concilio, papa Giovanni, Lettera a una professoressa, don Lorenzo Milani che non era un prete del dissenso cattolico e che se fosse vissuto negli anni successivi avrebbe scritto contro i progressisti cose ancora più tremende di Pasolini. La messa in italiano e i beat in parrocchia, il mito della rivoluzione che si radica nell’Azione cattolica, l’enciclica Populorum Progressio e il papa politico Giovanni Battista Montini che intuisce la carica anti-istituzionale che si sta sollevando, nella comunità ecclesiastica e in quella civile.
Verranno Medicina democratica, Psichiatria democratica, Magistratura democratica, Architettura democratica. I giornalisti democratici, la democrazia studentesca, la democrazia in fabbrica. Il centralismo democratico, le masse democratiche, la legalità democratica. Tutto è democratico, tranne la Democrazia cristiana, loro sono «ladri mafiosi e figli di puttana», si rima nei cortei. Il che ha un qualche fondamento, ma non esaurisce il discorso.
L’equivoco di una generazione che scopre l’individualismo, il benessere, il consumo di massa. E si ritrova proiettata in una ideologia collettiva. Un paradosso colto da Edmondo Berselli, «adulto con riserva»: «L’arrivo della modernizzazione era stato sentito come una scossa che agitava i comportamenti singoli, che cambiava la presenza stessa degli individui sulla scena pubblica» ha scritto Berselli. «Poi arrivò il ’68. Ci si sentiva così bene prima della politica, prima dell’impegno!»
Qualche decennio dopo, e siamo già nel 1981, l’editore romano «de sinistra» Giulio Savelli pubblica un libretto intitolato Il sogno degli anni ’60 nella collana «Il pane e le rose». Sarà protagonista di un’interessante parabola personale, da Rocco e Antonia di Porci con le ali al seggio in Parlamento con Silvio Berlusconi e poi con Francesco Cossiga. Lo cura un funzionario del Pci con un raro gusto per la comunicazione di massa, cinema e tv, il ventiseienne Walter Veltroni. A tutt’oggi questa raccolta di testimonianze resta il miglior autoritratto di quella generazione, messa insieme da un politico del futuro che gli anni Sessanta li ha attraversati da bambino. In appendice c’è un sondaggio sulle cose migliori e peggiori degli anni Sessanta tra gli autori che hanno accettato di scrivere per il libro. C’è già tutto delle evoluzioni successive.
Ferdinando Adornato indica i film di 007, Canzonissima, il primo numero di «Tex». Sarà nella Seconda Repubblica deputato di sinistra, di destra e perfino di centro.
Mike Bongiorno si comporta da padre della patria (catodica). Libri: Il male oscuro di Giuseppe Berto e Sulla strada di Kerouac. Brutte notizie: la strage di piazza Fontana, l’assassinio di Kennedy, la tragedia del Vajont. È l’uomo che ha tenuto sulle ginocchia il piccolo Veltroni, figlio del suo amico Vittorio, geniale inventore di generi radiofonici e primo direttore del telegiornale, prematuramente scomparso. Sta per far decollare la tv di Berlusconi. Battezzerà il debutto sul piccolo schermo di Matteo Renzi.
Giuliano Ferrara. Per lui la bella notizia è la seconda crisi di Cuba, con l’Urss che sta per attaccare. Quella negativa è lo sbarco di un americano sulla Luna. Organizzerà, venti anni dopo, l’Usa day dopo l’attacco alle Twin Towers. E il suo giornale, «Il Foglio», regalerà ai lettori la bandiera a stelle e strisce.
«Il Sessantotto è stato un fenomeno che coinvolgeva tutto il mondo, da Roma a Berlino, da San Francisco a Madrid: la manifestazione di una nuova classe dirigente che si sentiva stretta nei vecchi panni. Eravamo i primi della classe; mica, sia detto senza offesa, come gli straccioni del ’77» torna ad auto-celebrarsi Ferrara nel 1998 attaccando Pasolini: «Cercava di contrastare, in modo astuto, una generazione che gli avrebbe tolto spazio. Una visione angusta e molto poco internazionale, da intellettuali di provincia».
È la generazione dei primi della classe. La meglio selezionata per vincere la competizione. Quella che passa dal culto del Pci di Togliatti, o dai gruppi extraparlamentari, a Craxi a Berlusconi a Renzi. Senza mai rendere conto a nessuno.

Ma che colpa abbiamo noi?

La colpa, per definizione, è sempre degli altri. La colpa è dei vertici che non hanno saputo guidare lo sviluppo, la modernizzazione. La colpa è della Costituzione che è stata un compromesso con i moderati: in cambio di una rivoluzione promessa avete ceduto su tutto, tuonava contro le sinistre Piero Calamandrei. No, la colpa è della Costituzione che è la migliore del mondo ma non è stata attuata. La colpa è della controriforma cattolica. Del Concilio di Trento. Eccetera.
La colpa è della politica, predicano i movimenti della società civile immacolata, il frutto più duraturo degli anni Sessanta. Sfociano negli anni Settanta del tutto è politica e terminano negli anni Duemila con il cortocircuito finale dell’anti-politica. Nessun Paese europeo è stato segnato per decenni da tante liste civiche, movimenti extraparlamentari, associazioni, comitati… Non tutti uguali, non tutti dello stesso valore.
Per alcuni società civile significa un’assunzione di responsabilità in prima persona: i primi movimenti ambientalisti o per la legalità, o la società civile che negli anni Ottanta si ribella contro la corruzione politica, a Palermo, a Milano e a Roma. Ma per molti altri significa il contrario: rivendicare una presunta lontananza dal potere, anche quando se ne possiede e se ne pratica moltissimo. Un bombardamento dell’establishment che arriva dall’alto: seggi parlamentari, consigli di amministrazione, giornali. A un certo punto un presidente della Repubblica molto amato va in tv a denunciare che sui luoghi del terremoto dell’Irpinia lo Stato non è mai arrivato (e il grande Massimo Troisi si dispiace: «Presidente, quando ha chiesto in tv chi ha preso i soldi del Belice ce l’aveva con me? Ci sono rimasto male»). Un altro si mette la maglietta e si traveste da Picconatore del Sistema, dalle stanze del Quirinale.
Ma che colpa abbiamo noi? Noi non c’eravamo, dice la Meglio Gioventù di allora, in un rito di auto-assoluzione collettiva. Continuerà a dirlo anche quando le responsabilità aumentano, man mano che loro invecchiano.
Noi non c’eravamo, ripeterà Matteo Renzi il 13 settembre 2012, presentando nell’auditorium del palazzo della Gran Guardia a Verona la sua candidatura a premier del Partito democratico contro Pier Luigi Bersani. «Noi non dobbiamo chiedere il permesso a nessuno per correre. Noi siamo quelli che non devono portare la giustificazione: quando loro erano già in Parlamento noi eravamo all’asilo.» È in quell’occasione che Renzi parla per la prima volta della Meglio Gioventù. «Dobbiamo rottamare» scandisce «la generazione del Sessantotto che dipinge se stessa come l’unica che ha gli ideali, l’unica Meglio Gioventù che ci sia mai stata. No, ci siamo anche noi.» Sarà anche l’unica volta che la nomina, però. Forse perché è una battaglia politico-culturale che non ha voglia di affrontare. O forse perché a ben vedere la Renzi-generation che spinge per conquistare il posto al sole, affamata di potere – «Non siamo bamboccioni pigri e subalterni» – non è così lontana dalla Meglio Gioventù che vorrebbe rottamare. La stessa determinazione, la stessa spregiudicatezza, lo stesso gusto per la manovra politica, la stessa rivendicazione di innocenza. Uno specchio in cui padri e figli si scoprono maledettamente somiglianti.
La nuova Meglio Gioventù e la vecchia Meglio Gioventù si odiano. Ma si riconoscono.
«L’Italia della seconda metà degli anni Sessanta era un Paese dove tutti o quasi coltivavano grandi aspettative e in cui si era cominciata a manifestare la rapida evoluzione di quel peculiare rapporto tra realtà, ideologia e illusioni che ha caratterizzato la mentalità di buona parte della sua popolazione e che ancora segna quella di molti dei nati prima degli anni Sessanta» hanno scritto Giuliano Amato e Andrea Graziosi. Come se l’ondata di benessere del decennio precedente avesse gonfiato la diga delle illusioni e delle rivendicazioni, ora pronte a esplodere.
È l’eredità più duratura. La separazione dalla realtà.

I giovani sconosciuti

C’è una crepa nello sviluppo, nell’ottimismo degli anni Cinquanta. Una smagliatura.
Il vuoto in arrivo da cui comincerà la lunga crisi della rappresentanza politica che prosegue fino alla metà degli anni Dieci del Duemila.
Il primo segnale si ha nella primavera-estate 1960, quella del governo Tambroni: la tentazione della svolta autoritaria che percorre tutta l’Europa mediterranea a prima vista è la reazione di settori della società italiana che non accettano il cambiamento e la modernizzazione, ma non è una risposta di pura conservazione. Il democristiano Fernando Tambroni Armaroli, con il suo passato incerto di traghettato indenne negli anni del fascismo (lo chiamano l’onorevole Abiura) e la sua passione per la comunicazione, è già fin troppo moderno per i suoi tempi, è il primo esemplare di una razza destinata ad avere un certo successo nel Paese: il populista dall’alto. Il campione degli apparati statali, l’uomo degli archivi: «Quelli che mi vogliono morto li conosco uno a uno, li metterò a posto tutti». Il primo presidente del Consiglio a essere stato votato dalla destra post-fascista e ad aver presieduto una società di calcio: la Anconetana Bianchi. Nel 1940, si racconta, invase il campo e prese a ceffoni l’arbitro che non aveva concesso un rigore alla sua squadra. La Federazione Italiana Calcio lo squalificò a vita da tutte le cariche sportive. «Ma ora forse dovremo riabilitarlo dato che toccherà a lui premiare i vincitori delle Olimpiadi a Roma» si preoccupavano ai vertici della federazione.
Tambroni è, soprattutto, il primo presidente del Consiglio che si presenta alle Camere sfidando il Parlamento. «La realtà della pubblica opinione è molto diversa da quella che qui appare» dice nel discorso in cui chiede la fiducia alla Camera. «Dobbiamo cancellare il distacco tra Paese attivo e Paese rappresentato. Fuori dal Parlamento le opinioni sono molto diverse dalle vostre.» In tre mesi passa attraverso le formule dei decenni successivi. Mette su un governo politico, è l’incaricato di Gronchi alla guida di un governo del Presidente (il governo palatino), prova a tramutarsi in governo tecnico («Vedo che dal monocolore si passa al technicolor» commenta il corrispondente del «Washington Post» Leo Wollemborg), finisce nell’avventura autoritaria con gli scontri di piazza dopo il via libera al congresso del Msi a Genova, le cariche dei carabinieri a cavallo del capitano Raimondo d’Inzeo a Porta San Paolo a Roma, i morti di Reggio Emilia poi finiti nel folk sinistrorso-popolare, i leader democristiani che di notte dormono fuori dal loro letto, preferiscono la casa di un amico o un convento.
La piazza che era stata invocata da Tambroni contro il Parlamento si rivolta contro di lui e lo rovescia. Un happy end che inorgoglisce i tifosi degli anni Sessanta, il ritorno all’anti-fascismo militante: la rivista ideologica del Pci «Rinascita» dedica un numero speciale alla «Nuova Resistenza». Da ora in poi anche la Dc rivendica a pieno titolo l’eredità del 25 aprile e della Resistenza. L’atto di nascita dell’arco costituzionale.
Ma il luglio 1960 è soprattutto un film di successo, da ripetere. Con un soggetto inatteso che fa irruzione sulla scena: i giovani dalle magliette a strisce, «coloro che hanno rimesso in moto una realtà italiana che sembrava stagnante, corrotta, senza uscite né speranze» si esalta l’azionista Carlo Levi. «Sono dei giovani, dei nuovi, degli sconosciuti, dei ventenni. Uomini nuovi, giovani nuovi ripensano nuovi pensieri, che sono i nostri.»
Non sono i figli della Repubblica. Piuttosto sono i nati il 25 aprile, i coetanei della Repubblica, la Meglio Gioventù destinata ad accompagnarne ascesa e declino.
Il 1960 è la rivelazione di questa nuova generazione, il suo debutto come soggetto collettivo. La prima generazione che ha di sé una coscienza politica e che la mette in gioco. Ma è anche la dimostrazione che dopo quindici anni il sistema già non regge più. C’è un vuoto tra il Palazzo e la piazza e nel vuoto si infilano due attori inaspettati. Il politico di professione che vorrebbe in Italia una svolta presidenzialistica, la democrazia individuale senza partiti, un gollismo all’italiana, senza generale De Gaulle. E una piazza senza partito a guidare la protesta.

Il Moto e il Vuoto

C’è chi punta sul Moto e chi investe sul Vuoto. Agiscono a scavare le fondamenta della debole costruzione repubblicana. Sembrano contrapposte, queste due forze, ma in realtà si battono nella stessa direzione. Il Moto della nuova gioventù e il Vuoto che all’improvviso si spalanca sotto una classe dirigente diffusa che già allora, all’inizio degli anni Sessanta, fatica a rappresentare un Paese in ebollizione.
Il Moto e il Vuoto che vanno dalla metà degli anni Sessanta fino agli anni Dieci del Duemila sono le uniche due dimensioni conosciute dalla società e dalla politica italiana. In mezzo, in quello spazio che nei primi anni repubblicani era affollato da partiti, leader di associazioni, spie americane e sovietiche e servizi segreti domestici, intellettuali più o meno organici, papi e banchieri di sistema, in quello spazio di mediazione fin troppo pieno, nell’Italia di mezzo non c’è più nulla.
Solo lo spaesamento.
Emigrazioni interne, spostamenti di massa, sradicamento identitario. Donne e giovani che entrano per la prima volta nel mondo del lavoro, nei licei, nelle universit...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Premessa - Ri-generazione
  6. I - L’età dei padri
  7. II - Ascesa e declino della Meglio Gioventù
  8. III - Matteo il Figlio
  9. Bibliografia