NEW YORK, GIUGNO 1944
La stanza è completamente bianca. Le tende si muovono appena. La finestra è chiusa. Non soffia un alito di vento. Niente corrente. Niente aria rosata e limpida.
Sono seduta sul pavimento della mia stanza bianca. La porta beige è chiusa. Il gancio argentato è bloccato. I cardini arrugginiti scricchiolano quando girano.
Si aprono e si richiudono.
Tengo stretto davanti a me lo zaino nero, in cui lui continua a vivere. Il suo berretto beige, la sua foto in bianco e nero con i denti candidi e gli occhi color del miele.
Sono seduta sulle mattonelle grigie del pavimento e fuori, a meno di un’ora, c’è la Bear Mountain. Gli alberi sulla montagna sono seppia e cinabro, ramati e del colore del tramonto. I colori dei suoi occhi e delle sue labbra. Gioco a baseball con la mia mazza di legno chiaro. Come giocava lui da ragazzo...
Uno scout.
So fare un nodo scorsoio come lui mi ha insegnato.
So arrampicarmi su un albero verde.
So volteggiare sotto la luna d’argento.
Nell’acqua profonda sotto un cielo color prugna.
Attraverso la finestra, oltre il rosso, il bianco e l’azzurro della bandiera americana, oltre la Porta d’oro e il gotico color corallo di Ellis, scintilla la baia turchina che si apre sul mare salmastro e vivo, sull’oceano spumeggiante e dolente.
I miei colori vanno dalla luna al sole, dalla ruggine al cielo. Gli oceani ci dividono mentre ci allontaniamo, mentre cadiamo nel bianco della mia vita passata e futura. Il bianco del cielo, della nebbia, della bruma e del ghiaccio. Il ghiaccio si incrina e sanguina. Sotto ci sei tu, e io con te. Sono seduta sulle piastrelle grigie del pavimento e tocco la tela nera, il metallo della pistola, i fogli ingialliti del tuo libro salvatore, le tue banconote verdi e fruscianti, così tante.
Tocco la fotografia di noi due, sposi novelli, che guizziamo su ali rosse, voliamo l’uno verso l’altra sulle ali color ciclamino del fuoco di Prometeo.
Fuori la sirena ulula, la palla urta contro la mazza, il bambino piange, il ghiaccio grigio sanguina. Rimango sul pavimento, con lo zaino di tela nera della nostra speranza ai miei piedi. Per sempre sul pavimento, nero per i colori del mio dolore.
“Tania, che succede?” Vikki comparve sulla soglia. Anthony giocava sul pavimento. Tatiana era distesa per terra con la testa poggiata sulle mattonelle.
“Niente.”
“Non lavori, oggi?”
“Arrivo, arrivo.”
Con voce allarmata, Vikki chiese: “Che cos’hai?”
“Niente”, rispose Tatiana. Sapeva di avere un aspetto orribile. Con gli occhi gonfi e semichiusi, ci vedeva a stento.
“Sono le otto! Hai pianto? Il giorno è appena cominciato.”
“Mi vesto subito. Devo fare controllo.”
“Ti va di parlare?”
“No, sto bene. Oggi è mio compleanno. Compio vent’anni.”
“Tanti auguri! Perché non me l’hai detto? Andremo a festeggiare... che c’è? Perché è così terribile il tuo compleanno?”
“Non riesco a credere che ci sposeremo il giorno del mio compleanno!” dice lei.
“Così non mi dimenticherai mai.”
“E chi potrebbe dimenticarti, Alexander?” chiede, cercandolo dolcemente con la mano.
Tatiana non festeggiò. Lavorò tutto il giorno e la sera giocò con il figlioletto di quasi un anno. Di notte, con le tende tirate, le finestre aperte e l’aria salmastra che si diffondeva nella stanza, s’inginocchiò accanto al letto e strinse le fedi nuziali che portava al collo. Era negli Stati Uniti da poco meno di un anno.
La notte del suo ventesimo compleanno, dopo aver allattato Anthony, Tatiana rimase seduta sul pavimento della sua stanza a Ellis e vuotò lo zaino... per la prima volta da quando aveva lasciato l’Unione Sovietica. Estrasse la pistola tedesca carica, Il Cavaliere di bronzo, il dizionario russo-inglese, la foto di lui, la foto del matrimonio, il berretto da ufficiale e tutto ciò che c’era nelle tasche.
Fu allora che trovò la medaglia al valore di Alexander.
La fissò a lungo, perplessa, e poi uscì nel corridoio e la esaminò alla luce, per controllare se per caso si fosse sbagliata.
Il sole sorse e tramontò. Faceva caldo. L’acqua scintillava. E lei non smise di fissare la medaglia. Era esterrefatta. Si trattava di un errore?
Con la stessa chiarezza con cui vedeva le barche nella baia, Tatiana rivide la medaglia appesa alla sedia di Alexander l’ultima sera passata insieme a lui, con il dottor Sayers al suo fianco.
Alexander aveva detto: “Domani pomeriggio ritornerò tenente colonnello”, e Tatiana gli aveva rivolto un sorriso raggiante e aveva ammirato la medaglia appesa alla sedia accanto al letto d’ospedale.
Com’era finita nello zaino? Non l’aveva presa lei... non era sua.
“Che significa?” sussurrò, ma non riusciva a comprendere, anzi, era ben lungi dal comprendere. Più cercava di capire, più si scontrava contro il muro di cemento eretto dalla sua mente.
Il dottor Sayers le aveva consegnato lo zaino mentre lei era distesa sul pavimento del suo ufficio, sconvolta dalla notizia dell’esplosione del camion che trasportava Alexander e del suo annegamento nel Ladoga. Sayers le aveva consegnato lo zaino prima di salire a bordo della jeep della Croce Rossa pronta a partire per la Finlandia.
E sul pavimento Tatiana rimase... giorno e notte, tra le visite ai pazienti e lo shopping, tra il pranzo e la cena, tra Vikki ed Edward, tra Ellis e Anthony. Saltò sul traghetto e rimase sul pavimento e su quel pavimento c’era anche lo zaino, al cui interno si trovava la medaglia al valore di Alexander.
Era stato lui a dargliela? Come poteva averlo dimenticato?
Quando il dottor Sayers le aveva detto di Alexander, le aveva consegnato il suo berretto da ufficiale. Forse le aveva dato il berretto e la medaglia?
Tatiana ne dubitava.
Gliel’aveva data il colonnello Stepanov?
No, neanche lui.
Si alzò e si appese al collo la medaglia, accanto alla cordicella da cui pendevano le fedi.
Passò un giorno, poi un altro e un altro ancora.
Un soldato tedesco notò la medaglia e in un inglese stentato le chiese: “Dove avere presa? Medaglia molto importante. Hanno solo i soldati più meritevoli. Dove avere presa?”
Ogni volta che allattava il figlio, ogni volta che lo stringeva tra le braccia e lo guardava, Tatiana non poteva fare a meno di pensare: Se il giorno della sua morte Alexander avesse indossato la medaglia, ce l’avrebbe ancora intorno al collo. Quando un ufficiale riceve una promozione, indossa tutte le sue medaglie. Porta con sé tutti i suoi trofei.
Il dottore mi ha dato il berretto, ma non gli avrebbe mai tolto la medaglia. E anche se lo avesse fatto, me l’avrebbe consegnata a mano. Non è così? “Ecco, Tania, prenda il berretto di suo marito e la sua medaglia. Li tenga lei”, avrebbe detto.
No, la medaglia era stata nascosta; era stata messa in un taschino interno, il più piccolo dello zaino. Non c’era nient’altro, lì, oltre alla medaglia, e lei non l’avrebbe mai trovata se non avesse svuotato lo zaino e tastato ben bene la tela.
Perché il dottor Sayers avrebbe dovuto nasconderla?
Perché non dargliela con il berretto?
Perché temeva che avrebbe suscitato troppe domande.
Si sarebbe insospettita? E per cosa?
Tatiana cercò disperatamente la nota stonata. Non riusciva a capire. Dormì, lavorò, allattò il figlio e, nel cuore di una notte di fine giugno, aprì gli occhi e ansimò.
Era tutto chiaro.
Forse si sarebbe turbata alla vista della medaglia, si sarebbe posta mille domande. Sarebbe diventata troppo sospettosa.
Ma il dottor Sayers non sapeva.
Solo una persona sapeva. L’uomo dai capelli neri e dalle braccia possenti. Lui sapeva.
Alexander voleva che Tatiana avesse la sua medaglia al valore, la più importante, ma sapeva che lei non avrebbe capito subito, che avrebbe fatto troppe domande. Perciò chiese al dottor Sayers di aspettare. Sul ghiaccio, nell’ospedale, chissà dove, gli chiese di aspettare.
Il dottor Sayers era al corrente della menzogna.
Anche la morte di Alexander faceva parte del piano?
O quella di Dimitri?
“Tatiasha... ricorda Orbeli.”
Era l’ultima cosa che lui le aveva detto. Ricorda Orbeli, Le stava chiedendo se lo ricordava?
Oppure le stava dicendo di ricordare?
Quella notte, Tatiana non dormì più.