Sulla quadruplice radice del principio di ragione sufficiente
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Sulla quadruplice radice del principio di ragione sufficiente

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Sulla quadruplice radice del principio di ragione sufficiente

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La Quadruplice radice, "teoria sintetica dell'intera facoltà conoscitiva", e non solo la struttura su cui si fonda il sistema di Schopenhauer, come dice l'autore stesso, ma anche un'introduzione ideale allo studio della filosofia. Tesi di laurea rifatta in vecchiaia, questa opera prima e ultima di Schopenhauer ha una compattezza, un'unità e un'armonia che sono difficili da trovare in un'altra. Secondo Giorgio Colli, grande appassionato del filosofo tedesco, la sua esposizione "è profonda, rigorosa, limpida, spiritosa, varia, brillante"; lo stile "non solo è raffinato e ampio, equilibrato e concreto, ma riscalda, consola nella solitudine, è intimo, premurosoverso chi vuol capire"; e l'intelletto "è lucido, i concetti si riannodano sempre all'intuizione, la ragione è sana. Le stesse parole hanno ogni volta lo stesso significato, le definizioni sono chiare, ilragionamento persuasivo. E la coerenza è la perla dell'edificio".

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2014
ISBN
9788858654798

CAPITOLO QUARTO

Sulla prima classe di oggetti per il soggetto e sulla forma del principio di ragione sufficiente in essa vigente

§ 17

Definizione generale di questa classe di oggetti

La prima classe dei possibili oggetti della nostra facoltà rappresentativa è quella delle rappresentazioni intuitive, complete, empiriche. Queste sono intuitive in contrapposizione a quelle solo pensate, ossia ai concetti astratti; complete perché, secondo la distinzione di Kant, contengono non soltanto l’elemento formale ma anche quello materiale dei fenomeni; empiriche, in parte perché non provengono da una mera concatenazione di pensieri, ma hanno origine nell’eccitamento di una sensazione del nostro corpo sensibile, al quale rimandano sempre a comprova della loro realtà; e in parte perché, conformemente alle leggi dello spazio, del tempo e della causalità nella loro associazione, sono connesse con quel complesso senza fine e senza principio che costituisce la nostra realtà empirica. Poiché però questa, secondo i risultati dell’insegnamento kantiano, non ne elimina l’idealità trascendentale, esse vengono in considerazione qui, dove si tratta degli elementi formali della conoscenza, soltanto come rappresentazioni.

§ 18

Schema di un’analisi trascendentale della realtà empirica

Le forme di queste rappresentazioni sono quelle del senso interno ed esterno, tempo e spazio. Ma esse sono percepibili solo in quanto sono riempite. La loro percepibilità è la materia, sulla quale tornerò più oltre, come anche nel § 21.
Se il tempo fosse l’unica forma di queste rappresentazioni, non ci sarebbe alcuna simultaneità e perciò niente di persistente e nessuna durata. Giacché il tempo viene percepito solo in quanto è riempito, e il suo scorrere solo mediante il cambiamento di ciò che lo riempie. Il persistere di un oggetto viene perciò conosciuto soltanto grazie al contrasto con il mutare di altri oggetti che esistono contemporaneamente ad esso. Ma la rappresentazione della simultaneità non è possibile nel mero tempo; per l’altra metà è condizionata dalla rappresentazione dello spazio; perché nel mero tempo tutto si succede, mentre nello spazio coesiste. Quella rappresentazione nasce dunque soltanto dall’unione di tempo e spazio.
Se d’altra parte l’unica forma delle rappresentazioni di questa classe fosse lo spazio, non ci sarebbe alcun cambiamento: giacché il cambiamento o modificazione è successione degli stati, e la successione è possibile solo nel tempo. Perciò si può definire il tempo anche come la possibilità di determinazioni opposte nella stessa cosa.
Vediamo dunque che le due forme delle rappresentazioni empiriche, pur avendo in comune, come è noto, l’infinita divisibilità e l’infinita estensione, sono radicalmente diverse, in quanto ciò che all’una è essenziale, nell’altra non ha nessun significato: la simultaneità non ha significato nel tempo e la successione non ha significato nello spazio. Le rappresentazioni empiriche, appartenenti al complesso della realtà conforme a legge, appaiono nondimeno nello stesso tempo in entrambe le forme, e anzi l’intima fusione di esse è la condizione della realtà, che da esse deriva per così dire come un prodotto dai suoi fattori. Ciò che crea questa fusione è l’intelletto, che per mezzo della funzione ad esso propria collega quelle forme eterogenee della sensibilità in modo che dalla loro compenetrazione reciproca scaturisca, anche se appunto soltanto per esso stesso, la realtà empirica, come una rappresentazione generale la quale forma un complesso tenuto insieme dalle forme del principio di ragione, però con confini problematici. Tutte le singole rappresentazioni appartenenti a questa classe ne fanno parte, occupandovi il loro posto in conformità di determinate leggi di cui siamo coscienti a priori. In esso quindi innumerevoli oggetti esistono contemporaneamente perché, nonostante l’inarrestabilità del tempo, la sostanza, cioè la materia, vi permane costante e, nonostante la rigida immobilità dello spazio, i suoi stati cambiano. In esso dunque, in una parola, tutto il nostro mondo reale oggettivo esiste per noi. Lo svolgimento dell’analisi della realtà empirica, qui data solo schematicamente, mediante una trattazione particolareggiata della maniera e guisa in cui tale fusione si effettua attraverso il funzionamento dell’intelletto e in cui viene con essa ad esistenza, per il medesimo, il mondo dell’esperienza, il lettore interessato lo troverà nel Mondo come volontà e rappresentazione, vol. I, § 4 (oppure prima ed., p. 12 sg.); al riguardo una tavola dei «praedicabilia a priori del tempo, dello spazio e della materia», che è aggiunta al capitolo 4 del secondo volume e che si raccomanda al suo attento studio, sarà per lui un ausilio essenziale, dal momento che in base ad essa diventa particolarmente chiaro come i contrasti dello spazio e del tempo si conciliano nella materia in quanto loro prodotto che si presenta nella forma della causalità. La funzione dell’intelletto, che costituisce la base della realtà empirica, sarà subito esposta in modo particolareggiato. Ma prima bisognerà rimuovere, con un paio di considerazioni interlocutorie, gli ostacoli prossimi che la concezione idealistica fondamentale qui seguita potrebbe incontrare.

§ 19

Presenza immediata delle rappresentazioni

Ora però, poiché, nonostante questa fusione delle forme del senso interno ed esterno operata dall’intelletto per la rappresentazione della materia e, con essa, per quella di un mondo esterno persistente, il soggetto conosce immediatamente solo col senso interno, in quanto il senso esterno è a sua volta oggetto di quello interno e questo percepisce a sua volta le percezioni di quello; il soggetto dunque, rispetto alla presenza immediata delle rappresentazioni nella sua coscienza, rimane sottoposto soltanto alle condizioni del tempo, come forma del senso interno; 5 perciò può aver presente solo una rappresentazione chiara per volta, sebbene questa possa essere molto composita. Che le rappresentazioni siano immediatamente presenti significa: esse non solo diventano, nella fusione del tempo e dello spazio compiuta dall’intelletto (che, come tosto vedremo, è una facoltà intuitiva), la rappresentazione complessiva della realtà empirica, ma anche, come rappresentazioni del senso interno, vengono conosciute solo nel tempo, e precisamente nel punto di indifferenza tra le due direzioni opposte di esse che si chiama il presente. La condizione della presenza immediata di una rappresentazione di questa classe, di cui si è toccato nel paragrafo precedente, è il suo influsso causale sui nostri sensi e quindi sul nostro corpo, che fa parte esso stesso degli oggetti di questa classe e pertanto è soggetto alla legge di causalità che vi domina e di cui subito ci occuperemo. Poiché perciò il soggetto, in base alle leggi del mondo sia interno sia esterno, non può restar fermo a quell’unica rappresentazione e, d’altra parte, nel puro tempo non c’è simultaneità: quella rappresentazione sparirà sempre di nuovo, scacciata da altre, secondo un ordine non determinabile a priori, bensì dipendente da circostanze di cui tosto diremo. Che a parte ciò fantasia e sogno riproducano la presenza immediata delle rappresentazioni, è un fatto noto, che però non può essere trattato qui, in quanto rientra nella sfera della psicologia empirica. Ma poiché, nonostante questa fugacità e questo isolamento delle rappresentazioni, rispetto alla loro presenza immediata nella coscienza del soggetto, a questo rimane, per la funzione dell’intelletto, la rappresentazione di un complesso della realtà che abbraccia tutto, quale l’ho sopra descritto; rispetto a tale contrasto si sono ritenute le rappresentazioni, in quanto fanno parte di questo complesso, qualcosa di affatto diverso da quello che sono in quanto sono immediatamente presenti alla coscienza, e in tale qualità le si è chiamate cose reali, in questa invece soltanto rappresentazioni κατ’ εξoχην. Questa concezione della cosa, che è la concezione comune, si chiama come è noto realismo. Ad esso si è opposto, con l’inizio della filosofia moderna, l’idealismo, che ha guadagnato sempre più terreno. Rappresentato prima da Malebranche e Berkeley, esso fu potenziato da Kant fino a diventare idealismo trascendentale, che fa capire il coesistere della realtà empirica delle cose con l’idealità trascendentale di essa, e in base al quale Kant, nella Critica della ragione pura, si esprime, tra l’altro, così: «Intendo per idealismo trascendentale di tutti i fenomeni la teoria per la quale li consideriamo tutti quanti mere rappresentazioni e non cose in sé». Più oltre, nella nota: «Lo spazio non è esso stesso nient’altro che rappresentazione; per conseguenza, ciò che è in esso dev’essere contenuto nella rappresentazione, e nello spazio non v’è alcunché salvo in quanto sia realmente rappresentato in esso» (Critica del quarto paralogismo della psicologia trascendentale, pp. 369 e 375 della prima edizione). Infine, nella «Considerazione» annessa a questo capitolo è detto: «Se elimino il soggetto pensante, deve cadere anche tutto il mondo fisico, che non è niente se non il fenomeno nella sensibilità del nostro soggetto, e una specie delle sue rappresentazioni». In India, tanto nel brahmanesimo quanto nel buddhismo, l’idealismo è addirittura dottrina della religione popolare; soltanto in Europa esso è paradossale, in conseguenza della concezione fondamentale ebraica, essenzialmente e inevitabilmente realistica. Ma il realismo non vede che il cosiddetto essere di queste cose reali non è assolutamente niente altro che un essere rappresentato, o, se si insiste nel nominare soltanto la presenza immediata nella coscienza del soggetto, un essere rappresentato κατ’ εντελεχειαν, anzi soltanto un poter essere rappresentato κατα δυναµιν; non vede che l’oggetto, al di fuori del suo rapporto con il soggetto, non è più oggetto e che, quando gli si toglie questo rapporto o se ne astrae, è subito eliminata anche ogni esistenza oggettiva. Leibniz, il quale sentì bene il condizionamento dell’oggetto da parte del soggetto, ma non seppe liberarsi dal pensiero di un essere in sé degli oggetti, indipendente dal loro rapporto con il soggetto, ossia dall’essere rappresentati, ammise dapprima un mondo degli oggetti in sé esattamente uguale al mondo della rappresentazione, che correva parallelamente ad esso, ma che era collegato con quello non direttamente bensì solo esteriormente, per mezzo di una harmonia praestabilita: evidentemente la cosa più superflua del mondo, dal momento che esso stesso non cade mai sotto la percezione e il mondo del tutto uguale ad esso della rappresentazione fa il suo corso anche senza di esso. Ma quando poi volle nuovamente determinare più da vicino l’essenza delle cose che esistono oggettivamente in se stesse, si trovò nella necessità di dichiarare che gli oggetti in sé sono soggetti (monades), dando proprio con ciò la prova più eloquente del fatto che la nostra coscienza, in quanto è una coscienza puramente conoscente, dunque entro i limiti dell’intelletto, vale a dire dell’apparato per il mondo della rappresentazione, non può trovare appunto niente altro che soggetto e oggetto, ciò che si rappresenta qualcosa e la rappresentazione, e noi quindi, se astraiamo dall’essere oggetto di un oggetto, cioè lo eliminiamo in quanto tale, e vogliamo tuttavia porre qualcosa, non possiamo trovare niente altro che il soggetto. Se invece, inversamente, vogliamo astrarre dall’essere soggetto del soggetto, e però non vogliamo rimanere con niente in mano, si verifica il caso inverso, che si sviluppa in materialismo.
Spinoza, che non era venuto in chiaro della cosa e quindi non era giunto a concetti distinti, aveva nondimeno capito benissimo che il rapporto necessario tra oggetto e soggetto era un rapporto per essi così essenziale, da essere condizione assoluta della loro pensabilità e l’aveva quindi mostrato come un’identità del pensiero e dell’estensione nella sostanza che soltanto esiste.

Nota. In occasione dell’esposizione di questo paragrafo, faccio notare che, se nel prosieguo del trattato mi servirò, per brevità e maggiore comprensibilità, dell’espressione oggetti reali, per essa non bisognerà intendere nient’altro che, appunto, le rappresentazioni intuitive, connesse con il complesso della realtà empirica, la quale resta in se stessa sempre ideale.

§ 20

Principio di ragione sufficiente del divenire

Nella classe degli oggetti per il soggetto che abbiamo sopra descritta, il principio di ragione sufficiente si presenta come legge di causalità, e io lo chiamo come tale principio di ragione sufficiente del divenire, principium rationis sufficientis fiendi. Tutti gli oggetti che si presentano nella rappresentazione complessiva che costituisce il complesso della realtà sperimentale sono, rispetto al cominciare e al cessare dei loro stati e pertanto nella direzione del corso del tempo, legati tra loro per mezzo di tale principio. Esso è il seguente. Se subentra un nuovo stato di uno o più oggetti reali, bisogna che un altro l’abbia preceduto, al quale segue regolarmente il nuovo, cioè ogni volta che ricompare il primo. Un tale seguire è un conseguire e il primo stato la causa, il secondo l’effetto. Se per esempio un corpo si accende, bisogna che questo stato del bruciare sia stato preceduto da uno stato 1) di affinità con l’ossigeno, 2) di contatto con l’ossigeno, 3) di una determinata temperatura. Poiché, non appena si verifica questo stato, deve conseguirne immediatamente l’accensione, e però questa è conseguita soltanto adesso, quello stato non può esserci stato sempre, ma deve essersi verificato soltanto adesso. Questo verificarsi si chiama una modificazione. Quindi la legge di causalità sta in rapporto esclusivo con le modificazioni e ha da fare sempre e solo con esse. Ogni effetto è, nel suo verificarsi, una modificazione e dà, proprio perché non si è verificato prima, un’indicazione infallibile su un’altra modificazione ad essa precedente che, in relazione ad esso, è causa, ma in relazione a una terza modificazione, ad essa stessa necessariamente precedente, si chiama effetto. Questa è la catena della causalità: necessariamente essa non ha inizio. Pertanto ogni nuovo stato deve essere conseguito da una modificazione che l’ha preceduto, per esempio, nel caso summenzionato, dall’appiccarsi di calore libero al corpo, da cui conseguì l’innalzamento della temperatura. Questo appiccarsi del calore è a sua volta condizionato da una precedente modificazione, per esempio l’incidere dei raggi del sole su uno specchio ustorio; questo magari dallo scostarsi di una nuvola dalla direzione del sole; questo dal vento; questo dalla disuguale densità dell’aria; questa da altri stati, e così all’infinito. Quando uno stato, per essere condizione del prodursi di uno nuovo, contiene tutte le determinazioni salvo una, il fatto che si voglia chiamare quest’una, se ancora si verifica, cioè per ultima, la causa κατ’ εξoχην, è giusto in quanto ci si attiene allora all’ultima modificazione, qui comunque decisiva; ma, prescindendo da ciò, una determinazione dello stato causale non ha, al fine di stabilire la connessione causale delle cose in genere e per il fatto di essere l’ultima a prodursi, niente di più delle altre. Così, nell’esempio indicato, lo scostarsi della nuvola in tanto può chiamarsi la causa dell’accensione, in quanto si produce dopo che lo specchio ustorio è stato rivolto verso l’oggetto. Però questo sarebbe potuto accadere dopo lo scostarsi della nuvola, e l’afflusso di ossigeno a sua volta dopo questo: sono tali determinazioni temporali contingenti che devono decidere sotto quest’aspetto quale sia la causa. Se invece consideriamo la cosa più da vicino, troviamo che l’intero stato è la causa di quello che segue, e a questo riguardo nell’essenziale fa tutt’uno in quale successione le sue determinazioni si siano incontrate. Perciò, rispetto a un singolo caso dato, si chiami pure la determinazione di uno stato verificatasi per ultima la causa κατ’ εξoχην, dato che completa il numero delle condizioni ivi necessarie, e dunque il suo prodursi diventa qui la modificazione decisiva; per la considerazione generale potrà valere come causa soltanto lo stato intero, che provoca il subentrare di quello successivo. Ma le singole, diverse determinazioni, che solo prese insieme completano e costituiscono la causa, possono essere dette momenti causali, o anche le condizioni, e perciò si può scomporre la causa in tali momenti. È invece del tutto sbagliato chiamare causa non lo stato bensì gli oggetti, per esempio nel caso citato alcuni chiamerebbero lo specchio ustorio la causa dell’accensione. Altri la nuvola, altri il sole. Altri l’ossigeno e così disordinatamente a piacere. Ma non ha nessun senso dire che un oggetto è causa dell’altro; anzitutto perché gli oggetti non contengono solo la forma e la qualità ma anche la materia, e questa non nasce e non perisce; e poi perché la legge di causalità si riferisce esclusivamente alle modificazioni, ossia al verificarsi e allo svanire degli stati nel tempo, dove essa regola quel rapporto in riferimento al quale quello di prima si chiama causa e quello di dopo effetto e la loro connessione necessaria il conseguire.
Rimando qui il lettore che riflette alle delucidazioni che ho fornito nel Mondo come volontà e rappresentazione, vol. II, cap. 4, in particolare p. 42 sg. Poiché è della più alta importanza che si abbiano concetti perfettamente chiari e fermi del vero e autentico significato della legge di causalità, come anche della sua sfera di applicazione; che dunque prima di ogni altra cosa si veda chiaramente che essa si riferisce solo ed esclusivamente alle modificazioni degli stati materiali e assolutamente a nient’altro: conseguentemente non può essere addotta dove non si parla di ciò. Essa è infatti il regolatore delle modificazioni degli oggetti dell’esperienza esterna che si producono nel tempo; però questi sono tutti quanti materiali. Ogni modificazione può prodursi soltanto per il fatto di essere stata preceduta da un’altra, determinata secondo una regola; dalla quale indotta, si produce poi per necessità: questa necessità è il nesso causale.
Perciò, per quanto semplice sia la legge di causalità, nei manuali filosofici, dai tempi più antichi fino ai più moderni, la troviamo di regola espressa in tutt’altra maniera, cioè più astrattamente e quindi intesa in modo più ampio e indeterminato. Per esempio vi si dice che la causa è ciò in virtù di cui un’altra cosa viene ad esistenza, o ciò che produce un’altra cosa, la fa reale e così via. Già Wolff dice «causa est principium, a quo existentia, sive actualitas, entis alterius dependet» [la causa è il principio da cui dipende l’esistenza o attualità di un altro ente], Ontologia, § 881, mentre, nella causalità si tratta manifestamente soltanto di modificazioni formali della materia increata e indistruttibile e un vero nascere, un venire ad esistenza di qualcosa che prima non c’era affatto, è un’impossibilità. Può darsi che la colpa di queste concezioni troppo larghe, storte e false del rapporto di causalità sia in massima parte dell’oscurità del pensiero; ma si può essere sicuri che qualche volta c’è dietro anche l’intenzione, cioè l’intenzione teologica, che occhieggia già da lontano con la prova cosmologica e che, per far piacere a questa, è pronta a falsificare finanche le verità trascendentali a priori (questo latte materno dell’intelletto umano). Nel modo più chiaro questo si vede nel libro di Thomas Brown, On the relation of cause and effect, che, con le sue 460 pagine, già nel 1835 ebbe la sua quarta ristampa, e da allora ne ha avuto ben più e, a prescindere dalla sua stancante, cattedratica lungaggine, tratta abbastanza bene il suo oggetto. Ebbene, questo inglese ha riconosciuto del tutto giustamente che la legge di causalità concerne sempre delle modificazioni, che dunque ogni effetto è una modificazione, donde segue che l’intera cosa è soltanto il nesso ininterrotto delle modificazioni che si succedono nel tempo; ma non vuole dirlo, anche se non è possibile che gli sia sfuggito. Egli dice ogni volta, con massima improprietà, che la causa è un oggetto che precede la modificazione, o anche sostanza, e con questa espressione interamente falsa, che dappertutto rovina le sue considerazioni, si contorce e si tormenta miserevolmente, per tutto il suo lungo libro, contro la...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. INTRODUZIONE
  5. AVVERTENZA
  6. SULLA QUADRUPLICE RADICE DEL PRINCIPIO DI RAGIONE SUFFICIENTE
  7. PREFAZIONE
  8. CAPITOLO PRIMO - Introduzione
  9. CAPITOLO SECONDO - Rassegna delle principali teorie che sono state finora insegnate sul principio di ragione sufficiente
  10. CAPITOLO TERZO - Insufficienza delle esposizioni precedenti e abbozzo di una nuova esposizione
  11. CAPITOLO QUARTO - Sulla prima classe di oggetti per il soggetto e sulla forma del principio di ragione sufficiente in essa vigente
  12. CAPITOLO QUINTO - Sulla seconda classe di oggetti per il soggetto e sulla forma del principio di ragione sufficiente in essa vigente
  13. CAPITOLO SESTO - Sulla terza classe di oggetti per il soggetto e sulla forma del principio di ragione sufficiente in essa vigente
  14. CAPITOLO SETTIMO - Sulla quarta classe di oggetti per il soggetto e la forma del principio di ragione sufficiente in essa vigente
  15. CAPITOLO OTTAVO - Osservazioni generali e risultati