Noi siamo cultura
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Noi siamo cultura

Perché sapere ci rende liberi

  1. 160 pagine
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Noi siamo cultura

Perché sapere ci rende liberi

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Che cosa fa di noi quello che siamo? Se è vero che buona parte della nostra vita è già scritta nel nostro codice genetico, è altrettanto innegabile che le nostre esistenze sono influenzate dall'ambiente che ci circonda e da un infinito numero di elementi puramente casuali sui quali abbiamo ben poco controllo. L'interazione di questi tre fattori (genoma, ambiente e caso) genera un numero potenzialmente infinito di individualità, ma questa ricetta sembra lasciare poco spazio alle nostre scelte personali: non siamo noi a comporre il nostro Dna, incidiamo sul mondo molto meno di quanto lui incida su di noi e – inutile dirlo – la nostra volontà è pressoché impotente davanti al caso. Eppure ogni giorno facciamo, pensiamo o diciamo qualcosa che rispecchia in pieno (nel bene o nel male) la nostra unicità. E nel nostro continuo tentativo di affrancarci dall'idea di un destino immutabile abbiamo un alleato: la cultura. In questo saggio, Edoardo Boncinelli riflette sulla natura umana concentrandosi sulla pulsione che più di ogni altra ci distingue dagli animali: quella a sapere, conoscere, definire e regolamentare. E ci dimostra che la cultura scientifica e quella umanistica contribuiscono in egual misura nello sforzo collettivo di interpretare la realtà, fornendoci al tempo stesso gli strumenti per comprenderla. Noi siamo cultura è un richiamo a dare un senso alla nostra libertà e un invito a coltivare l'umano bisogno di trasmetterla. Perché non c'è umanità senza conoscenza e non c'è conoscenza senza umanità.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
ISBN
9788858680292

SECONDA PARTE

Possedere la conoscenza, domare l’imprevedibile

Un progresso a due velocità

Dopo aver plasmato gli animali «facendo una mescolanza di terra e di fuoco», gli dèi affidarono al fratello di Prometeo, Epimeteo, il compito di distribuire loro le varie facoltà naturali. Epimeteo si affrettò a dispensare qua e là le varie doti biologiche, finché si accorse, arrivato all’uomo, di non averne più nessuna a disposizione. Tutti gli animali, insomma, avevano avuto qualcosa di essenziale per la loro sopravvivenza – chi la velocità, chi la forza, chi le ali, chi gli artigli e le zanne – «mentre l’uomo era nudo, scalzo, scoperto e inerme». Davanti a tale spettacolo, Prometeo si sente in dovere di offrire agli umani qualcosa di sostitutivo e quindi dona loro il fuoco e le tecnologie a esso associate, trafugandoli dalla dimora degli dèi. «In tal modo, l’uomo ebbe la sapienza tecnica necessaria per la vita», ma non ebbe la sapienza civile e politica, perché quando tornò per prendere anche questa, Prometeo trovò sbarrate le porte dell’empireo…
Il nostro tempo è senza dubbio figlio della diffusione e della progressiva crescita di quella sapienza tecnica e contemporaneamente vittima dell’assenza di una vera sapienza politica e civile. Siamo sempre più capaci, ma non più umani. Migliorare tecnicamente e scientificamente è facile; migliorare interiormente no.
Fermo restando che nello sviluppo della civiltà umana tutto si è mosso con un ritmo crescente – dalle incredibili lentezze dei primi tempi alla progressione dell’era storica alla vera e propria esplosione degli ultimi decenni – in alcuni ambiti le trasformazioni si sono verificate molto velocemente e con grande efficacia, e in altre assai più piano e con minore incisività. Molto rapidi, grazie al progresso tecnico-scientifico, sono stati gli avanzamenti nel sapere e nel saper fare, assai più lenti quelli riguardanti i comportamenti individuali e collettivi, quelli che contribuiscono al cosiddetto progresso civile, al miglioramento delle norme sociali osservate e delle inclinazioni individuali.
È in virtù di questa discrepanza che alcuni ritengono che nel tempo l’umanità abbia segnato un enorme progresso, mentre altri sostengono che ce ne sia stato molto poco. In un certo senso hanno ragione sia gli uni sia gli altri, perché si riferiscono a fenomeni differenti, almeno in parte. Le qualità dantesche «virtute» e «canoscenza» seguono insomma vie abbastanza diverse e diverso ci appare il loro destino.
Ma a che cosa è dovuta questa differenza? Perché a tanta velocità dei cambiamenti materiali corrisponde l’esasperante lentezza di quelli di norma definiti morali e spirituali?
Le conoscenze si possono trasmettere senza la necessità di viverle (o di riviverle), anche a distanza di spazio e di tempo; la loro veridicità può essere controllata, almeno in parte, e non implica giudizi personali, rimproveri o sensi di colpa. Questo vale per le conoscenze teoriche, cioè per la scienza, ma anche per quelle che possiedono un versante pratico, cioè quelle più marcatamente tecniche o artigianali, presupposto di arti e mestieri. Chiunque le può valutare e ritrasmettere. La loro validità e la loro trasmissione, insomma, sono collettive, benché poi vengano utilizzate individualmente.
Anche le norme comportamentali sono di questa natura, ma i comportamenti no. I comportamenti sono di natura squisitamente individuale. Si è liberi, infatti, di condividere cognizioni, non comportamenti. E anche sul piano individuale, comunque, non siamo completamente padroni del nostro agire. Alla natura collettiva, alla grande trasmissibilità e cumulatività che caratterizzano le norme fanno da contraltare la natura individuale, la scarsa controllabilità e la sostanziale sporadicità dei comportamenti, per quanto una simile conclusione possa dispiacere a molti o a moltissimi.
Una analoga osservazione si può fare chiamando in causa la storia, che insegna tante cose ma non incide sul piano della corrispondenza fra le aspettative e i comportamenti effettivi, a livello individuale come a livello collettivo. Per quanto riguarda i comportamenti, la storia insegna una sola cosa, e cioè che non insegna niente.
Eppure qualche progresso c’è stato, anche sul piano dell’educazione e del comportamento civile. Si tratta però di avanzamenti lentissimi il cui effetto inoltre può essere prontamente smarrito in ogni momento. Un’interminabile serie di nefasti eventi di ieri e di oggi sta lì a dimostrare quanto sia facile – per singoli individui, per piccoli gruppi di persone e per intere moltitudini – perdere, almeno momentaneamente, tutto quello che era stato acquisito con fatica. Le incredibili barbarie della storia, i misfatti compiuti anche di recente in regimi tirannici come in Paesi comunemente ritenuti «civili», le stragi perpetrate senza un minimo di pietà umana e le guerre, guerrine, guerrette e guerriglie combattute quotidianamente anche oggi in ogni parte del mondo continuano a ribadire quanto fragile sia, ovunque e sempre, l’acquisizione di un codice di comportamento civile e morale che sembrava ormai consolidato. Si ha l’impressione che ogni avanzamento in questo campo, confermato da una prassi e da una sorta di predicazione civile, sia esterno agli individui, i quali, in fondo, seguitano a rimanere sostanzialmente gli stessi. Basta infatti un minimo allentamento del controllo sociale o una temperie socio-politica che in qualche modo favorisca l’odio e la persecuzione contro alcuni protagonisti del vivere civile – come gli ebrei al tempo del nazismo – e tutto va perduto.
Ma non c’è bisogno di arrivare a certi livelli per notare il fenomeno in tutta la sua portata. Penso per esempio ai titoli con cui venivano gratificati alcuni scienziati italiani dal clero e dalle persone di fede cattolica al tempo del referendum sulla cosiddetta Legge 40, quella sulla fecondazione assistita, o alla violenza con la quale ci si scaglia quotidianamente contro chi fa affermazioni che non siano del tutto aderenti al politicamente corretto. Il desiderio di condannare e perseguitare, almeno verbalmente, è fortissimo nella maggior parte delle persone, come conferma una frequentazione anche occasionale del mondo dei cosiddetti social network. Si dirà che si tratta di un aspetto marginale, di quisquilie, ma non è vero; almeno come spia di un atteggiamento sociale più profondo, tutto questo ci dovrebbe far riflettere. Persecuzioni, esecuzioni, attentati terroristici e veri e propri scontri bellici non nascono dal nulla per un improvviso e increscioso inconveniente storico, per quanto ci piaccia pensare che le cose stiano così.
Anche i misfatti più atroci possono accadere con grande «naturalezza», come coglie acutamente Hannah Arendt nella sua impostazione interpretativa che invoca il concetto di «banalità del male». Non è necessario essere malvagi e di animo strutturalmente perverso per fare il male. In certe epoche, spiega la Arendt, possono compiere misfatti o contribuire a compierli anche persone ordinarie nelle quali la coscienza morale si sia soltanto un po’ «assopita». L’acquiescenza, o anche solo la ridotta vigilanza, possono portare piccoli uomini a rendersi complici di atrocità altrimenti impensabili e in altri momenti apertamente condannabili e condannate. Hitler non fece tutto da solo, né i suoi complici furono tutti efferati criminali; eppure nella Germania nazista è successo quello che è successo.
Non è il caso di approfondire le tristi vicende di altre epoche buie e la loro connessione con l’indole di «poveri spiriti», oltre che con la follia distruttiva di personaggi perversi. Esempi del genere, anche solo guardandoci intorno, se ne troverebbero in gran numero, per quanto la specificità di ogni caso renderebbe molto difficile inquadrarli tutti in un’unica storia. La lezione generale, però, è semplice: date le condizioni ambientali – permissive o addirittura impositive – ci sarà sempre qualcuno che si comporterà male e come se fino a quel punto non ci fosse stato alcun progresso civile e morale. È pertanto del tutto incomprensibile che davanti a ogni nuovo episodio dimostriamo di stupirci, come se fossimo convinti di vivere in un mondo di angeli o in una società ormai redenta.
A controbilanciare questa evidenza negativa vi è però una implicazione di carattere positivo. Appena esaurita la temperie socio-politica da cui sono scaturiti i riprovevoli comportamenti che ci appaiono come regressivi, le cose sembrano ricomporsi e la storia si richiude su questi eventi ripristinando una più riconoscibile e umana maniera di essere. Chiuso l’episodio, insomma, la civiltà sembra riprendere il sopravvento e condurre a uno stato di cose che contraddice e prende marcatamente le distanze da quanto d’increscioso è accaduto; il progresso morale e civile sembra riprendere il suo cammino, non è chiaro se ripartendo esattamente dal punto in cui era prima della parentesi degenerativa o se da uno stadio più avanzato o più arretrato rispetto a questo.
Si può certo parlare di avanzamenti e quindi di progresso anche nel campo morale e civile, soprattutto se si confronta la situazione attuale con quella di epoche remote, ma solo a patto di socchiudere gli occhi, osservare gli eventi sforzandosi di coglierli nel loro lento complessivo evolvere e ignorando gli infiniti episodi che qua e là, prima o poi, intervengono a offuscare il quadro principale.
Trionfale e quasi travolgente è invece il cammino del sapere e del saper fare, cioè il prodotto dell’accoppiata scienza e tecnologia che partito, come tutto, in sordina, rischia oggi di sovvertire ogni nostra conoscenza e abitudine facendo rimpiangere a più d’uno il ritmo blando dei cambiamenti che avevano luogo nel «buon tempo andato». Essendo un fenomeno essenzialmente collettivo, questo avanzamento trascina un po’ tutti nella sua progressione, e se pure qualcuno ne rifiuta, anche energicamente, questo o quell’aspetto, la stragrande maggioranza di noi non può non parteciparvi, passivamente ma in molti casi anche attivamente.
Per quanto evidente e macroscopica sia questa fondamentale differenza tra progresso materiale e progresso morale, nessuno ne parla. Si preferisce tacere la questione e accettarla come un inspiegabile dato di fatto, forse perché la cosa non piace, e l’essere umano, come abbiamo visto, è portato a negare l’esistenza di ciò che non gli piace.
Ricordo che una volta presi parte a una tavola rotonda di scienziati e prelati che s’intrattenevano in una di quelle tediose e inutili discussioni sul rapporto tra fede e scienza. Un alto prelato mi fece osservare che il progresso materiale c’era stato sì, ed era stato anche efficace, ma a questo non si era accompagnato un concomitante progresso morale e civile. «Il fatto è» non potei trattenermi dal replicare «che noi scienziati abbiamo saputo fare il nostro mestiere, mentre voi non avete saputo fare altrettanto bene il vostro.» Era una battuta, ma colpì e mi colpì. Il problema non è chiaramente così semplice, ma è pur vero che resta in sordina.
Forse non se ne discute perché la questione sembra implicare una superiorità del tecnico sul morale, o perché suona d’implicito rimprovero a chi parla in continuazione di valori morali e civili senza capirne granché e senza ottenere molto. O perché delinea un contrasto fra razionalità e irrazionalità a tutto vantaggio della prima (il Diavolo, infatti, condiziona i comportamenti e non le nozioni o le operazioni tecniche). O perché sottolinea l’inconcludenza di tutti i predicatori, religiosi e laici, e dei promettitori di paradisi in terra, riducendo di fatto, se non cancellando, la speranza di arrivare a vivere in un mondo migliore – e per mondo migliore si intende sempre, magari paradossalmente, un mondo moralmente e civilmente migliore, non materialmente migliore, chissà perché – e l’uomo, si sa, predilige di gran lunga l’ipotetico all’acquisito. Il problema è che su tali temi nessuno è obiettivo e i cattivi sono sempre gli altri. E chi è convinto di questo non potrà mai progredire. Vedremo cosa ci riserva il futuro, ma non me la sento di essere ottimista.

Scienza e tecnica

Ma torniamo a concentrarci sul progresso tecnico e scientifico. È importante chiarire fin dall’inizio il rapporto intercorrente fra la scienza, o le scienze, e la tecnica, o le realizzazioni tecniche. Nonostante quanto spesso si dice, il loro non è un rapporto gerarchico e meno ancora di subordinazione. La visione oggi corrente è quella secondo la quale la scienza trova nuove spiegazioni e combinazioni di eventi e la tecnica le mette in pratica, subito o col tempo, direttamente o indirettamente, in tutto o in parte. A tutto questo si dà usualmente il nome derisorio di «tecno-scienza». Certo alcune applicazioni pratiche, per esempio nel campo dell’elettronica, non si sarebbero neppure potute pensare se la scienza dell’immensamente piccolo non ci avesse messo a giorno delle sue leggi e della sua fenomenologia, quasi costringendoci ad abbassare lo sguardo sulle meraviglie di quel minuscolo mondo. Né sarebbero state immaginabili alcune tecniche di diagnosi molecolare condotta direttamente sul Dna se non avessimo imparato moltissimo sul Dna e sui suoi geni. E un gran numero di sintesi industriali di composti chimici, magari semplicissimi, sarebbero stati assolutamente irrealizzabili senza la teoria e la progettazione che ci stanno dietro.
Ma è vero anche il contrario. Alcune scoperte sono state possibili solo grazie alla disponibilità di tecniche adeguate, e sempre più spesso la ricerca sperimentale procede di pari passo con lo sviluppo di nuovi strumenti e metodi d’indagine. La strumentistica è oggi divenuta al contempo una sorta di fucina della scienza e di palestra della tecnica. Come, a pensarci bene, è logico che sia. Le scienze sperimentali si basano sull’investigazione di sempre nuovi fenomeni e tale investigazione è assai spesso assistita da strumenti via via più sofisticati. È una caratteristica intrinseca di ogni sperimentazione la ricerca di quesiti solubili, e solubili significa aggredibili con le tecnologie sperimentali correnti, attraverso esperimenti eseguibili materialmente e non solo sulla carta. Oggi, insomma, la scienza ispira la tecnica e la tecnica la scienza. Ma è sempre stato così?
Fermo restando che è in ogni caso difficile ricostruire con esattezza quanto è successo nel passato, soprattutto remoto, possiamo affermare con relativa certezza che la tecnica è venuta prima della scienza, molto prima. In un’epoca in cui non si immaginava neppure che cosa volesse dire scienza, i nostri antenati già progettavano e realizzavano strumenti adatti ai più diversi scopi, lavorando materie prime naturali e fabbricando manufatti. Come questo sia potuto accadere non lo sappiamo, ma possiamo immaginare diversi possibili cammini che abbiano condotto al raggiungimento di tali mete.
Innanzitutto si possono considerare le scoperte avvenute sostanzialmente per caso grazie alla relativa prontezza di qualcuno nel cogliere al volo le occasioni. Sarà successo un numero enorme di volte che i fenomeni di natura abbiano messo i nostri antenati di fronte a eventi potenzialmente illuminanti, ma solo molto di rado questi sono stati in grado di cogliere in essi un suggerimento, cercando di metterlo a frutto. Possiamo immaginare, per esempio, che un fulmine abbia scatenato un incendio e che le braci periferiche del rogo si siano dimostrate portentose per qualche operazione, magari entrando in contatto con il cibo migliorandone il sapore. Oppure che qualche pianta abbia subito mutazioni spontanee che ne abbiano modificato le caratteristiche rendendola più adatta all’uso; magari un cereale capace di trattenere con sé i propri semi invece di spargerli tutto intorno, o un albero che si sia caricato di frutti biologicamente anomali ma succosi e nutrienti. Sarà capitato molto di rado, ma qualche volta deve essere accaduto. E ha lasciato il segno.
Qualunque cosa sia avvenuta all’inizio, la diffusione delle novità tecniche tra singole persone o tra gruppi diversi si sarà verificata anche per un fenomeno d’imitazione. Non c’è bisogno di capire, per imitare passivamente, e spesso l’imitazione, anche se imperfetta, porta ad acquisizioni di capitale importanza capaci di perdurare nel tempo. Prima dell’insegnamento e della trasmissione interpersonale dell’informazione, l’imitazione era l’unica via per far passare una competenza, per quanto elementare, da un soggetto a un altro. In fondo, l’essenza di ogni apprendistato o tirocinio è proprio l’imitazione. Le specie animali esistenti sulla Terra differiscono fra di loro anche per la diversa capacità di imitare, soprattutto in età infantile, e la nostra è certo tra le più dotate. Va da sé che in assenza di comprensione della tecnica in gioco, talvolta si tende a imitare anche azioni che non hanno alcuna giustificazione o ragion d’essere. Molte idee sbagliate e pregiudizi di ogni tipo nascono proprio da questa tendenza, come molte pratiche delle quali non si riesce a individuare l’origine.
Molto più raramente le innovazioni originano da una reale comprensione dei fatti e da una vera e propria ispirazione. Ci piacerebbe credere che sia sempre accaduto così, ma è chiaro che almeno nei tempi remoti questa via è stata percorsa molto di rado. Non si tratta tanto di capire, quanto di «vedere» le cose del mondo sotto una luce diversa da quella ordinaria e in qualche modo consueta. Un ciottolo può apparire solo un ciottolo, un ramo solo un ramo, ma può anche non accadere così. È possibile che in questi oggetti, magari grazie all’apporto di alcune piccole o grandi modifiche, si vedano strumenti utili al compimento di qualche operazione. È questo particolare modo di vedere con la mente che ha portato i nostri antenati remoti, appartenenti a specie diverse da Homo sapiens, a immaginare un uso appropriato di una delle tante cose che componevano il mondo, realizzandone la «conversione» da oggetto a «strumento». La combinazione di strumenti diversi ha portato poi allo sviluppo di nuovi strumenti complessi sempre più raffinati e potenti.
La quarta fonte di innovazione e di invenzione di tecniche è la comunicazione, cioè la trasmissione di informazioni fino all’instaurarsi di una vera e propria tradizione. L’apprendistato, i diversi tipi di circoli iniziatici e la stessa scuola non sono altro che variazioni sul tema della comunicazione e disseminazione delle informazioni. Ma si è dovuto attendere tempi relativamente recenti per l’affermazione di una tale pratica, l’unica che oggi garantisca un clima di stabilità e di progresso nel settore tecnico, come in quello culturale in senso lato.
Ad accelerare di molto tutti questi processi ha di certo contribuito lo scambio di informazioni e di manufatti fra popolazioni e culture diverse. Una data popolazione può avere sviluppato una particolare tecnologia o insiemi di tecnologie, mentre un’altra può avere seguito strade diverse sviluppando competenze di altra natura. Rimanendo isolati, i due gruppi possono solo continuare a perfezionare le proprie conoscenze e procedure, mentre entrando in contatto tra loro possono combinare e dunque potenziare i pregi delle singole dotazioni. Per dirla in termini elementari, se qualcuno inventa la ruota e qualcun altro il perno, la combinazione delle due invenzioni produce una ruota funzionante.
Il verificarsi di eventi del genere e di altri ancora ha portato all’avanzamento tecnologico che ha caratterizzato la nostra civiltà. Tutto questo è andato avanti per molto tempo, su una base sostanzialmente empirica ma con l’aiuto della matematica, della geometria e delle conoscenze tecniche proprie di quelle che potremmo definire l’ingegneria e l’architettura delle varie epoche. Poi, quasi all’improvviso, è arrivata la scienza sperimentale, o meglio, la grande scienza sperimentale, perché qualcosa del genere è indubbiamente sempre esistito. Da quel momento le cose sono progressivamente cambiate, nella cultura in generale e nel rapporto tra la tecnica e la scienza.
Il modo di procedere del progresso tecnologico è rimasto a lungo sostanzialmente invariato, ma a poco a poco è confluito nel suo corso un numero sempre più consistente di conoscenze dotate di una solida base scientifica; la grande scienza produce sempre più spesso novità di carattere conoscitivo e pratico e molte di queste si rivelano importanti o fondamentali per lo sviluppo di applicazioni tecniche sempre più avanzate. Ecco che allora si assiste al ribaltamento del rapporto fra scienza e tecnica, con la scienza che prende il comando delle operazioni e che sembra ispirare o addirittura trascinare lo sviluppo della tecnica.

Indietro non si torna

Il cammino della scienza e quello della tecnica vanno dunque avanti in maniera largamente indipendente, anche se nei tempi recenti si sono sempre più sovente incrociati e il primo ha influenzato sempre più spesso il secondo. In molti, però, hanno gridato allo scandalo, indicando nel progresso tecnico una sorta di pianta infestante che prospera autoalimentandosi, non lasciando scampo a niente altro e minacciando di «disumanizzare» il mondo, come se la tecnica non l’avessero inventata e sviluppata gli uomini e fosse stata «imposta» da qualche agente esterno. Si tratta di posizioni insostenibili, per quanto parzialmente comprensibili.
A giustificare questo atteggiamento è in primo luogo una tenace resistenza alle novità, soprattutto se si succedono a ritmo accelerato. Nessun animale ama le novità, specialmente quando è adulto. Noi uomini costituiamo una notabile eccezione, anche perché restiamo «cuccioli» molto più a lungo dei membri delle altre specie animali, ma siamo pur sempre animali e l’evoluzione biologica ha teso a limitare l’effetto delle novità, riducendone proporzionalmente e progressivamente l’appetibilità. Ogni animale è portato a perpetuarsi e a pe...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Introduzione. Che cos’è la cultura?
  5. PRIMA PARTE - L’ avventura che dà senso al mondo
  6. SECONDA PARTE - Possedere la conoscenza, domare l’imprevedibile
  7. Conclusione. Sapere aude!