Il confine
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Il confine

I cento anni del Sudtirolo in Italia

  1. 160 pagine
  2. Italian
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Il confine

I cento anni del Sudtirolo in Italia

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PREMIO FONDAZIONE IL CAMPIELLO 2015 l Sudtirolo, una terra di frontiera e un paradiso turistico in cui due popolazioni sono destinate a convivere. Ma cos'altro sanno gli italiani di questa regione e della sua storia? Quasi niente e, peggio, l'hanno sempre capita poco. Sebastiano Vassalli ripercorre in maniera lucida e tagliente gli snodi principali di un secolo ricco di contrasti, di "fandonie storiche", di follie politiche: dal 1919, quando il trattato di St. Germain avanzò sul crinale alpino il confine con l'Austria, stabilendo che i sudtirolesi diventavano loro malgrado italiani… fino ai giorni nostri. In mezzo ci sono il fascismo, il nazismo, le bombe, i referendum e una stagione di tenebre in cui hanno perso la vita troppi uomini. Il protagonista di questa lunga storia è ormai vecchissimo, nato nel 1928, eppure continua ancora a muoversi indisturbato nel paesaggio scintillante di valli e città, a fare sentire la propria voce e a seminare zizzania. Attraverso una proposta concreta, questo libro invita a chiudere i conti con la storia e a separare una volta per tutte il passato dal presente, per guardare avanti.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
ISBN
9788858680285

Capitolo primo
Due ricorrenze

Due ricorrenze ormai prossime ci inducono a riflettere sul nostro passato e sul nostro presente. Su quel secolo della nostra storia, il Novecento, che qualcuno ha definito “il secolo breve” e che però, come suo principale connotato, più che la brevità sembra avere avuto la follia. Se non nel resto del pianeta, almeno in questa parte di mondo che chiamiamo Europa.
La follia, ce lo ha dimostrato Erasmo da Rotterdam nel suo Elogio, è sempre stata l’elemento dominante delle vicende umane, e nessun periodo della nostra storia ha potuto sottrarsi al suo predominio. Ma il Novecento, con le sue due guerre “mondiali” e con le sue ideologie “totalitarie” ha rappresentato forme di follia così estreme, che si spera non possano più essere superate e che non debbano ripetersi.
Nel Dizionario di politica di Bobbio, Matteucci e Pasquino, alla voce “totalitarismo” ho trovato questa citazione, che mi è sembrata illuminante per capire molti dei fatti di cui parlerò nelle prossime pagine:
“Secondo Hannah Arendt il totalitarismo è una forma di dominio radicalmente nuova, perché non si limita a distruggere le capacità politiche dell’uomo isolandolo in rapporto alla vita pubblica, come facevano le vecchie tirannie e i vecchi dispotismi; ma tende a distruggere anche i gruppi e le istituzioni che formano il tessuto delle relazioni private dell’uomo, estraniandolo così dal mondo e privandolo fino del proprio io”.
Le due ricorrenze a cui intendo riferirmi sono i cento anni dalla fine della Prima guerra mondiale: la “Grande Guerra”, e i cento anni dal trattato di pace tra Italia e Austria, che venne firmato dopo dieci mesi a St. Germain-en-Laye. Le due date saranno, rispettivamente, il 4 novembre 2018 e il 10 settembre 2019.
Il 4 novembre, in Italia, è stato a lungo e sarà ancora nel 2018, l’“anniversario della vittoria”. Una data lieta: e mentre scrivo queste parole mi sembra di sentir risuonare, attraverso i secoli, la risata del grande Erasmo, perché di lieto in quella data c’era davvero poco. C’era, questo sì, la fine di un incubo che per quattro anni in Italia, e per quasi cinque sugli altri fronti aveva tenuti inchiodati nelle trincee milioni di uomini, facendo milioni di morti e diecine di milioni di mutilati, di invalidi, di “scemi di guerra”. (Un’espressione che nel nostro Paese era destinata a diventare proverbiale, per indicare i molti che avevano perso il senno in seguito agli spaventi e allo stress della vita in trincea.)
Non parlerò, qui, della Prima guerra mondiale: di una guerra, cioè, che rappresentò l’inizio del declino dell’Europa nel mondo e che non finì affatto con gli armistizi del 1918 e con i successivi trattati di pace, ma finì soltanto nel 1945 con l’entrata dei russi a Berlino e con le bombe atomiche americane su Hiroshima e Nagasaki. Basterà che io dica, per ciò che intendo raccontare, che la cosiddetta Prima guerra mondiale con le sue trincee, i suoi assalti all’arma bianca e i suoi gas asfissianti fu la grande levatrice delle tre specifiche follie del Novecento: il fascismo, il nazismo e il “socialismo reale”, cioè lo stalinismo.
In Italia, la Grande Guerra era stata voluta e poi era stata vissuta dalla maggior parte della popolazione come l’ultima delle guerre di indipendenza, quella che doveva portare al compimento dell’unità nazionale. Aveva tenuto impegnati per anni milioni di uomini tra il Friuli, il Veneto e il fronte alpino; aveva causato più di seicentomila morti e un numero ancora più grande di invalidi; si era combattuta per Trento e Trieste, non certo per Bolzano. Nonostante ciò, quando dopo dieci mesi dalla fine delle ostilità si arrivò alla firma del trattato di pace con l’Austria (ed eccoci alla nostra seconda ricorrenza), il confine settentrionale del nostro Paese fu fissato seguendo la linea geografica dello spartiacque delle Alpi, al Brennero, e non come avrebbe voluto l’allora presidente americano Thomas Woodrow Wilson seguendo il principio di nazionalità. Perché?
Diciamo subito che quella scelta era abbastanza prevedibile e che, allora, non rappresentò uno scandalo. Non è lì che incomincia la follia che sarà il filo conduttore della nostra storia. La follia dei confini. I Quattordici punti di Wilson, pubblicati l’8 gennaio 1918, rappresentavano dei princìpi giusti ma astratti, che in una realtà antica e tormentata come quella europea non sempre potevano essere seguiti nell’applicazione pratica. Il confine più sicuro, per l’Italia, era quello geografico: e sarebbe stato difficile per l’Austria pretendere che si tracciassero i confini secondo quel principio di nazionalità di cui l’Impero austro-ungarico era stato, in Europa, il principale avversario. L’Austria, che con il trattato di St. Germain perdeva duecentomila dei propri cittadini, aveva avuto per moltissimi anni i suoi confini in Italia, addirittura al Ticino e al Po; e la sua dominazione in territorio italiano, pur avendo avuto qualche spunto positivo, soprattutto nel Settecento, non era poi stata così entusiasmante come qualcuno oggi vorrebbe far credere. C’erano state cospirazioni e sommosse a Milano, a Venezia, a Brescia, che erano state represse nel sangue. Si erano combattute delle guerre, e mai il governo di Vienna aveva mostrato di voler anticipare, con la propria politica, i nobili ideali dei Quattordici punti di Wilson. Perché, ora che aveva la possibilità di stabilire tra sé e l’Austria un confine più facilmente difendibile e migliore che per il passato, l’Italia avrebbe dovuto rinunciarci?
In conclusione: la scelta di portare il confine al Brennero forse non fu idealistica né altruistica ma fu certamente, per quegli anni, una scelta in qualche modo logica e prevista anche dalla controparte austriaca. Forse nelle valli alpine, dove la guerra non aveva fatto in tempo ad arrivare, non si prevedeva che le cose potessero andare in quel modo; ma a Vienna certamente sì.

Capitolo secondo
Vent’anni di follia: le premesse

Vent’anni (e più) di follia: o, forse, l’intero secolo. Anche se l’Europa era sempre stata teatro di innumerevoli guerre: mai, in precedenza, si era versato tanto sangue come nel Novecento, e le ragioni (le sragioni) per tornare a combattersi non erano mai state così spontanee e così forti dai tempi delle guerre di religione, come negli anni che seguirono il 1918 e i trattati che avrebbero dovuto riportare la pace. La regina ed arbitra delle vicende umane non aveva mai prodotto niente di simile alle ideologie del “secolo breve” già nominate, cioè al fascismo, al nazional-socialismo e al socialismo reale.
Ognuna di quelle ideologie da sola era sufficiente, e si è visto, per provocare guerre e per mandare in rovina uno o più popoli. I cento anni del Sudtirolo in Italia sono stati attraversati e contristati da due follie, quella fascista e quella nazista. Soltanto il socialismo reale è stato risparmiato a quella terra tra le montagne, così bella e così sfortunata nelle sue vicende recenti.
Il profeta e l’ideologo del fascismo tra il Brennero e Trento fu un tale Ettore Tolomei, nato a Rovereto nel 1865 e morto a Roma nel 1952. Questo Tolomei, di cui pochi oggi in Italia si ricordano, aveva fondato nel 1906 e quindi ancora sotto la dominazione austriaca una pubblicazione periodica: l’«Archivio per l’Alto Adige», che doveva sostenere (ma sarebbe meglio dire che doveva inventare) l’italianità di quella regione. Ora, io non so quale seguito possa avere avuto la rivista di Tolomei prima della Grande Guerra; ma penso che il suo successo, se ci fu, sia stato molto contenuto. La fortuna del periodico, e quella personale del suo fondatore, incominciarono dopo il trattato di St. Germain e dopo l’avvento al potere, in Italia, del fascismo. L’inventore dell’Alto Adige fece una carriera strepitosa, al di là delle sue speranze più rosee. Senatore dal 1923, conobbe personalmente Mussolini e Hitler e fu il principale responsabile, nel ventennio fascista, della sistematica eliminazione della cultura e della lingua tedesca a sud del confine del Brennero. Ebbe onori e agi di ogni genere. Negli anni Trenta, il re Vittorio Emanuele III lo nominò conte per meriti patriottici.
La sua buona stella incominciò a declinare nel 1939, con l’accordo tra Italia e Germania per le “opzioni” e per il trasferimento dei sudtirolesi nel Reich. Il problema della minoranza tedesca in Italia si sarebbe risolto in quel modo e le fandonie di Tolomei non servivano più, così come non servivano più i suoi trucchi e le sue invenzioni per snazionalizzare quelli che il regime fascista chiamava “gli alloglotti”. Nell’autunno del 1943 il Sudtirolo/Alto Adige diventò una provincia del Reich e il destino di Tolomei sembrò capovolgersi. Imprigionato dai nazisti, venne internato nel campo di concentramento e di sterminio di Dachau in Baviera. Anche il suo archivio di fandonie fu impacchettato e portato non si sa dove, probabilmente in Austria.
Lui, però, era destinato a salvarsi. Ritornato in patria, fece ancora in tempo a scrivere e a pubblicare un libro di memorie, una raccolta di versi e un romanzo sui colonizzatori romani dell’Alto Adige; ma il suo nome, oggi, sarebbe completamente dimenticato, se non fosse legato alle sue gesta, di oppressore e di persecutore dei sudtirolesi.
Le teorie pseudoscientifiche e pseudostoriche di Tolomei partivano da Druso, il figliastro di Augusto che nel 15 d.C. aveva reso sicuri sotto il controllo di Roma i valichi alpini e aveva sottomesso la regione a nord delle Alpi fino al Danubio. Per effetto di quella conquista l’Alto Adige era diventato una terra romana e italiana, destinata purtroppo a imbarbarirsi dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente. Bisognava riportare quella terra nel solco della sua civiltà originaria: una cosa da nulla.
In realtà, la storia (quella vera) di questa regione, che i romani chiamavano Rezia, incomincia con un popolo poco conosciuto, quello dei Reti. L’uomo del Similaun, di cui si conserva la mummia al museo di Bolzano, appartenne probabilmente a quel popolo. I Reti ebbero contatti con la civiltà etrusca e ne subirono in qualche misura l’influenza. Questo spiegherebbe, tra l’altro, la coltivazione della vite nell’alta valle dell’Adige già in epoca romana, testimoniata da Svetonio nel paragrafo 77 della Vita di Augusto, là dove si dice del primo imperatore di Roma che “gli piaceva moltissimo il vino di Rezia, ma non ne beveva mai durante il giorno”. In quanto all’impresa di Druso, la Rezia fu effettivamente una provincia romana: ma che significa? A partire dalle conquiste di Giulio Cesare lo furono anche la Gallia e la Britannia, che noi oggi chiamiamo Francia e Inghilterra. Ragionando come ragionava Tolomei, si dovrebbe sostenere l’italianità dell’Inghilterra. Una follia.
La storia del Tirolo che non è mio compito, qui, nemmeno riassumere, è la storia di un Paese di cultura alpina e di lingua tedesca, che viene diviso in due parti in seguito al trattato di St. Germain. Un evento traumatico ma prevedibile, per come era finita la guerra e per come si erano regolate, fino a quel momento, le faccende dei confini in Europa. Un evento che si sarebbe potuto rimediare lasciando alla popolazione di lingua tedesca la possibilità di amministrarsi dentro ai nuovi confini, e concedendole qualche piccolo privilegio. Questa dei piccoli privilegi, infatti, era stata la ragione profonda dell’attaccamento...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Al lettore
  5. 1. Due ricorrenze
  6. 2. Vent’anni di follia: le premesse
  7. 3. Vent’anni di follia: gli sviluppi
  8. 4. Gli italiani e il Sudtirolo/Alto Adige
  9. 5. Hitler e le opzioni
  10. 6. Il monumento alla Vittoria
  11. 7. Cuore di tenebra
  12. 8. La via del rifugio
  13. 9. Verso l’autonomia: il trattato di Parigi
  14. 10. Le bombe
  15. 11. Verso l’autonomia: il “pacchetto”
  16. 12. Come Candido: nel paese delle mele e delle bande musicali
  17. 13. Come Candido: nel paese degli errori che correggono altri errori
  18. 14. La vecchia e la nuova Europa
  19. 15. Confini
  20. 16. Un sogno. Il museo del fascismo…
  21. 17. … e del nazismo
  22. 18. Un altro sogno
  23. 19. Die Brücke/Il Ponte
  24. 20. Tre presidenti
  25. Conclusioni