Il libro nero del califfato
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Il libro nero del califfato

La guerra di civiltà dello scisma islamico

  1. 570 pagine
  2. Italian
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Il libro nero del califfato

La guerra di civiltà dello scisma islamico

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Sempre più violento e deciso a condurre il Jihad con ogni mezzo, il terrorismo islamico è uno dei fenomeni più inquietanti e sfuggenti della società contemporanea. E se la ferocia cieca di attentati kamikaze, fucilazioni di massa e sgozzamenti postati su internet sgomenta una parte dell'opinione pubblica musulmana, continua tuttavia a produrre proselitismo e consenso per il Califfato. Proprio da questa nuova, allarmante "banalità del male" prende avvio l'indagine di Carlo Panella, tra i massimi esperti italiani di islam, che in questo libro – che aggiorna e rivede Il libro nero dei regimi islamici – va al cuore dello scisma che divide il mondo islamico per spiegare la dinamica infernale da cui nasce e trae forza il fondamentalismo. La sua analisi, precisa e senza sconti, smonta i luoghi comuni che colpiscono la maggior parte delle interpretazioni occidentali e delinea le molteplici realtà di un fenomeno che potrà essere sconfitto solo se sarà compreso nella sua drammatica complessità.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2015
ISBN
9788858679807
STORIA DEL MEDIO ORIENTE

CAPITOLO III

La rivolta araba mancata

1914

La prima Guerra Santa

In un uggioso giorno di novembre del secolo scorso, centinaia di migliaia di arabi decisero dove puntare il fucile. Sbagliarono, continuarono a sbagliare, ripetendo all’infinito quell’errore.
Il 5 novembre 1914 i soldati arabi dell’esercito ottomano furono svegliati all’alba nelle caserme disseminate lungo l’immensa frontiera dell’Impero, da Bassora a Istanbul, ad Aqaba. Assieme a loro kurdi, circassi, yazidi, macedoni, bulgari, ebrei, armeni, greci. La Sublime Porta regnava su decine di nazionalità. Tutti vennero a sapere che era iniziata la guerra.
Alla testa dei reparti impettiti ufficiali prussiani esercitavano il comando nel deferente rispetto dei colonnelli turchi. Preparati alle armi secondo le inflessibili regole del drill, l’addestramento teutonico che agisce su riflessi condizionati meccanici, i soldati arabi non sapevano né leggere né scrivere, dal momento che nessuno di loro era mai andato a scuola. Pochi parlavano il turco, ma tutti capivano gli ordini secchi che venivano impartiti dai sergenti nell’unica lingua ammessa nell’Impero.
Mentre il sole non era ancora sorto, gli ufficiali lessero alla luce di tremolanti lampadine il proclama del califfo dei credenti, il sultano Mohammed V, che chiamava il suo esercito non semplicemente alla guerra, come in quegli stessi mesi avevano fatto il Kaiser prussiano e quello austriaco, lo Zar, i re di Belgio, Gran Bretagna e Bulgaria e il presidente della Repubblica di Francia. Da Istanbul il sultano, vicario in terra del Profeta Maometto, incitava i suoi sudditi al Jihad, alla Guerra Santa contro gli infedeli:
O musulmani! Voi che con tanta passione tendete alla felicità, voi che siete alla vigilia di sacrificare la vostra vita e i vostri beni per la causa del diritto e di sfidare il pericolo, unitevi tutti oggi attorno al trono imperiale, obbedite agli ordini dell’Onnipotente che, nel Corano, ci promette beatitudini in questo mondo e nell’altro. Comprendete che lo Stato è in guerra con la Russia, l’Inghilterra e la Francia e i loro alleati. Comprendete che questi Paesi sono nemici dell’Islam. Il comandante dei credenti, il califfo, vi chiama sotto la sua bandiera per la Guerra Santa!
Nel nome dell’Islam i fedeli, soldati e sudditi, furono spinti alla guerra di religione contro i nemici cristiani.
Nel novembre di quel fatidico 1914 i soldati o gli ufficiali arabi che avessero pensato di lottare per le ragioni della nazione araba, profittando della guerra per liberarsi dal giogo coloniale degli ottomani, si trovarono in realtà a non avere scampo. Se disertavano, se cospiravano, non solo tradivano lo Stato (uno Stato molto feroce), ma incrinavano la umma, la comunità dei fedeli, commettendo un grave peccato. In pochi dunque si sottrassero al «sacro dovere», in pochi congiurarono, e comunque lo fecero invano. L’esercito turco-arabo venne tenuto insieme e motivato non tanto dal senso della patria e da una disciplina feroce, quanto da una comune appartenenza religiosa. La Prima guerra mondiale in Medio Oriente fu, in sostanza, la lotta dell’Islam contro la minaccia degli infedeli.
Gli ulema musulmani definirono questa appartenenza in una brochure di diecimila parole che venne distribuita in modo clandestino ma capillare nelle tante comunità musulmane sottoposte in quegli anni a sovranità diretta o indiretta dei cristiani:
Infine, i musulmani penano e gli infedeli ne profittano. I musulmani hanno fame e soffrono e gli infedeli si ingozzano del superfluo e vivono nel lusso. L’Islamismo degenera e arretra, mentre il Cristianesimo progredisce e trionfa. I musulmani sono schiavi dei loro ognipossenti avversari. Questo avviene perché i discepoli di Maometto hanno trascurato la Legge di Maometto e ignorato il Jihad, la Guerra Santa che egli ordina [...] ma oggi è suonata l’ora del Jihad e grazie a esso l’impero del Crescente musulmano ridurrà in nulla la tirannia dei cristiani. Il Jihad è imposto ai musulmani come dovere sacro.
Sappiate che il sangue degli infedeli può essere versato impunemente, eccetto quello degli alleati dell’Islam, tedeschi e austriaci, che abbiamo promesso di proteggere [...]. Lo sterminio dei miserabili che ci opprimono è un dovere sacro, sia che sia compiuto in segreto, che apertamente, secondo la parola del Corano: «Uccideteli ovunque vi troviate; noi ve li consegniamo e vi diamo su loro potere completo». Chi ne ucciderà uno solo, sarà compensato da Allah. Che ogni musulmano, in ogni parte del mondo, giuri solennemente di abbattere almeno tre o quattro tra i cristiani che lo circondano, perché sono nemici di Allah e della Vera Fede! Che ognuno di voi sappia che la sua ricompensa sarà duplicata dal Dio che ha creato il cielo e la terra. Chi obbedirà a questo ordine del Jihad sarà preservato dai terrori del Giudizio Universale e avrà assicurata la Resurrezione eterna! Chi arretrerà mai davanti a una simile ricompensa?1
Sono passati da allora più di novant’anni e appelli come questo ancora risuonano nel mondo. La prosa è efficace e ha fatto scuola: Osama bin Laden ha avuto buoni maestri.

Gli sciiti difendono il califfo illegittimo

In quella che siamo soliti chiamare Prima guerra mondiale e che è anche il primo Jihad contemporaneo, la piena risposta agli appelli alla guerra di religione arrivò dall’interno dell’Impero ottomano, dagli sciiti, vale a dire da coloro che rifiutavano il ruolo del califfo quale guida religiosa e quindi anche politica. Le divergenze teologiche e dottrinali tra sciiti e sunniti, le due principali famiglie religiose dell’Islam, non erano né sostanziali né insanabili, ma per gli sciiti il califfo ottomano sunnita non era il vicario del Profeta; quindi il suo governo sulla umma non era legittimo. La negazione era talmente radicale che nel 1908, quando le riforme imposte dai Giovani Turchi introdussero regolari elezioni per formare il parlamento di Istanbul, gli sciiti rifiutarono addirittura di iscriversi alle liste elettorali.
Questa sorta di Aventino, questa auto-esclusione sciita dalla «polis sunnita» aveva preso a configurarsi nel settimo secolo e si era protratta fino al Novecento. Ma nel 1914 il punto fondamentale, per gli sciiti, non fu di riconoscere l’autorità religiosa e statale del califfo, quanto piuttosto di evitare che la terra dell’Islam, il dar al Islam, venisse conquistato dagli infedeli. Poco importa che i cristiani fossero assai ben disposti a consegnare il governo agli stessi sciiti, se costoro si fossero ribellati al califfo ottomano; poco importa che gli inglesi avessero chiesto in più occasioni l’appoggio dei notabili sciiti di Bassora, riuniti nel Partito ottomano del decentramento con a capo Sayyd Talib al Naqub. La logica degli islamici è ben diversa e prevede che prima vadano combattuti i cristiani, poi regolati i conti all’interno della comunità musulmana. Nonostante tutto gli sciiti iracheni non solo parteciparono disciplinati a una guerra che il califfo sunnita presentava come attacco all’Islam tutto, ma addirittura vi giocarono un ruolo fondamentale.
Per un caso, il primo affondo che l’Inghilterra portò all’Impero ottomano ebbe per campo di battaglia proprio le regioni mesopotamiche abitate dagli sciiti. La spedizione che il generale Charles Vere Ferrers Townshend lanciò da Bassora verso Baghdad si trovò a fronteggiare una disperata, fortissima, efficacissima controffensiva incitata e invocata dagli ayatollah sciiti di Najaf e Kerbala. Alla fatwà per il Jihad, editto religioso vincolante per i fedeli, lanciata dal sultano della Sublime Porta si sommarono così altre fatwà della Marja di Najaf, che impegnarono i musulmani sciiti a difendere con ogni mezzo il dar al Islam.
La «terra» per i musulmani rappresenta infatti qualcosa di più della patria: è il luogo in cui si rispetta la sharia, la legge dell’Islam. Non esiste terra senza sharia. Non esiste sharia senza terra e popolo che la anima.
La risposta dei soldati sciiti ai proclami dei loro ayatollah inflisse così la più grave sconfitta dopo quella incommensurabile di Gallipoli alle armate inglesi nel corso di tutta la Prima guerra mondiale. Invano il governo di Londra tentò di riscattare i suoi soldati, per la maggior parte indiani, imprigionati in un’ansa del Tigri, a Kut el Amara, autorizzando i capitani T.E. Lawrence e Audrey Herbert, inviati dal Cairo, a offrire due milioni di sterline al governo turco. Da Istanbul Enver Pasha, gongolante, rifiutò seccamente la proposta e la vergogna si sommò alla sconfitta.
Nelle paludi a sud di Baghdad, le perdite dell’esercito britannico furono di ottantamila soldati, non meno di trentamila i morti, mentre tutti i superstiti, dopo un anno di assedio, furono costretti a una resa non onorevole.
1915

Il complotto fallito dei mazziniani arabi

Nuri al Said era il rampollo di una famiglia della piccola borghesia di Baghdad e aveva ventotto anni allo scoppio della Prima guerra mondiale. Maggiore di stanza a Damasco nella IV divisione dell’esercito ottomano, comandata da Jemal Pasha, aveva studiato all’università di Istanbul, aveva ricevuto un addestramento tedesco e aveva letto libri inglesi. L’arrivo della ferrovia a Baghdad, pochi anni prima, una poderosa opera finanziata dalla Prussia, aveva dato una forte scossa al sonno secolare della città e Nuri era stato contagiato dal flusso di idee e novità che i viaggiatori europei avevano portato con sé.
Nuri al Said era un arabo cosciente di essere emarginato dal potere ottomano, di non avere possibilità di carriera e nemmeno di parola, perché gli arabi erano dei paria rispetto ai turchi. Ma costui avrebbe giocato un ruolo decisivo in tutta la storia del Medio Oriente di lì a venire.
Subito, sin dai primi giorni della guerra, e forse anche prima, nella guarnigione turca di Damasco, Nuri al Said e altri ufficiali dell’esercito turco che complottarono contro la Sublime Porta, decisero di voltare le loro armi contro gli ottomani.
Non erano i notabili, non erano i baazarì dei mille suk arabi, non i mercanti, non i latifondisti, non gli uomini delle tribù beduine. Non erano neanche le decine di migliaia di imam, ulema, mullah e sheikh che reggevano le moschee della Sublime Porta. Erano solo un ristretto gruppo di cospiratori di cui oggi conosciamo soltanto alcuni nomi: il tenente Muhammad Sharif al Faruqi, i capitani Jamil al Midfai, Yasin al Hashimi, Mawlud Mukhlis, Jafar al Askari.
Nuri al Said e i suoi compagni erano, alla lettera, carbonari, parenti lontani dei più ferventi mazziniani, organizzati in una società segreta ricalcata, nei riti come nelle tecniche clandestine, sulla Giovane Italia. Forse non ne erano consapevoli, perché in realtà avevano copiato la loro struttura dai Giovani Turchi del Comitato unità e progresso (Cup) cui si ribellarono; ma il Cup si era ispirato proprio al Risorgimento italiano, nel nome e anche nelle affiliazioni a logge massoniche. Il massone Giuseppe Garibaldi è ancora così popolare in Turchia che alcuni caffè di Pera, il quartiere di Istanbul, espongono, a tutt’oggi, sue grandi fotografie che campeggiano sulla distesa dei narghilè.
Fra quei cospiratori, i più colti si erano formati sulle opere del primo intellettuale nazionalista arabo, il siriano Abd al Rahman al Kawabi, le cui idee ebbero grande impatto a Damasco, Beirut e Baghdad. Il suo primo pamphlet, uscito con il titolo arabo Le cause della tirannide, consisteva nella traduzione Della Tirannide di Vittorio Alfieri, mentre il secondo, La madre delle città, era in buona sostanza un plagio del Futuro dell’Islam dell’inglese Wilfred Blunt, sposato con la nipote del poeta George G. Byron e imbevuto delle medesime idee che animavano l’eroe di Missolungi.
Nel 1914, il gruppo degli ufficiali arabi ribelli aveva un nome, Al Ahd al Iraqi, il Patto dell’Iraq, ed era una cellula di Al Ahd, il Patto, il ben più consistente gruppo di militari arabi (siriani, libanesi, giordani) anti-ottomani, il cui punto di riferimento era stato il maggiore egiziano di origini circasse Aziz Alì al Masri. Membro del Cup, all’inizio del 1914 Al Masri venne fatto imprigionare da Enver Pasha, apparentemente per le sue critiche al colonialismo turco nei confronti degli arabi, in realtà per questioni di potere. Al Masri, infatti, puntava soprattutto a emergere nel Cup, a ottenere una carica di rilievo nel governo di Istanbul, e usava i suoi rapporti con le società segrete Al Ahd e Al Fatat per fini esclusivamente personali. Jemal Pasha – con Enver e Talaat, uno dei tre uomini forti del Cup – lo fece dunque condannare a morte. Si trattava di puro complotto interno al Cup, di un intrigo di palazzo come quelli che avevano da sempre caratterizzato la vita politica della Sublime Porta. Ma le idee del governo inglese sui segreti e sulle trame politiche che venivano tessute nei palazzi del Bosforo erano piuttosto confuse e così Lord Horatio Herbert Kitchener in persona, il leggendario liberatore di Khartoum, il vendicatore del generale Gordon, proconsole d’Egitto, finì col chiedere la grazia e la liberazione di Al Masri. Jemal Pasha liberò il suo nemico politico e lo esiliò in Egitto, ignorando quanto questa mossa gli sarebbe stata utile.
Al Masri dal Cairo iniziò a collaborare strettamente con gli inglesi, invischiando i generali britannici in una rete di menzogne, illusioni e, forse, alcune speranze. Gli archivi del Foreign Office ospitano tuttora una ricca corrispondenza con questo abile millantatore che propose alleanze, disegnò carte del Medio Oriente, tracciò confini ipotetici, riconobbe o destituì questa o quella dinastia nel reverente interesse di generali, ambasciatori, sottosegretari, ministri. Tutto senza avere in realtà alcun potere e solo sporadici contatti con i pochi e confusi «carbonari» arabi.
Intanto a Damasco, acquartierati nelle loro caserme, Nuri al Said, Yasin al Hashimi, al Faruqi, Jafar al Askari e Jamil al Midfai cominciavano a credersi forti. Erano ufficiali arabi in divisa turca e avevano potuto godere, per ragioni di casta, del raro privilegio di assaporare la modernità attraverso le armi e la ferrovia. Parlavano perfettamente il turco (negli uffici, nei tribunali, nelle istituzioni dell’Impero l’arabo era bandito con disprezzo) e discretamente anche il tedesco, poiché era la Prussia a vendere armi alla Sublime Porta, a comandare l’esercito con i suoi generali, a finanziare, progettare e costruire l’avveniristica ferrovia che avrebbe unito Berlino a Baghdad.
Gli ufficiali avevano frequentato Istanbul, letto i giornali dei Giovani Turchi ed erano tutti molto delusi. Le idee liberali che la guarnigione massonica di Salonicco aveva imposto al califfo con il golpe del Cup del 1908, nonostante le promesse, non erano state estese agli arabi. Il turco dominatore, anche quello rivoluzionario, non aveva nessuna intenzione di trattare l’arabo come un suo pari. Forse è sufficiente segnalare qualche cifra per dare alcune coordinate utili alla comprensione dello status quo: nella Camera dei deputati di Istanbul la rappresentanza dei dieci-venti milioni di arabi era di soli sessanta parlamentari, contro i centocinquanta che rappresentavano i turchi, nettamente minoritari con otto-dieci milioni di abitanti. Non esisteva una sola università di lingua araba e nei Paesi arabi sottoposti alla Sublime Porta non c’erano nemmeno le scuole: nel 1914 in tutta Amman si contavano solo tre elementari.
La situazione era grave; a Baghdad, come a Beirut e a Damasco, nei quattro anni prima della guerra era stato tutto un florilegio di fondazione di partiti, giornali (sessantuno solo in Iraq) e movimenti votati all’irredentismo arabo. I nomi di quei movimenti erano belli, altisonanti: Circolo patriottico, Circolo patriottico-scientifico, Partito ottomano del decentramento, Associazione riformista di Bassora, Associazione della bandiera verde. In realtà, si trattava di piccole organizzazioni la cui forza, a volte discreta, era quella dei clan locali. A guerra scoppiata, gli ufficiali carbonari pensarono però di poterla utilizzare. Ma non si resero conto che tutti quei partitini irredentisti, quei gruppi e quei giornali che invocavano l’indipendenza araba, non sapevano sollevarsi al di sopra delle ambizioni dei piccoli leader locali. Non c’erano un’idea forte di nazione, una strategia, una tattica unitaria. Nulla in confronto all’enorme forza di coesione prodotta dall’appello alla Guerra Sa...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Capitolo I - La banalità del male
  4. Capitolo II - La resistibile ascesa del Califfo
  5. Storia del Medio Oriente
  6. Appendice
  7. Note
  8. Glossario dei termini islamici
  9. Glossario dei termini ebraici
  10. Biografie
  11. Sigle
  12. Bibliografia
  13. Indice dei nomi
  14. Indice