Tra Cesare e Dio
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Tra Cesare e Dio

Come la rivoluzione di papa Francesco cambierà gli italiani

  1. 160 pagine
  2. Italian
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Tra Cesare e Dio

Come la rivoluzione di papa Francesco cambierà gli italiani

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Fin dal primo giorno di pontificato, papa Francesco ha dimostrato di voler cambiare in profondità, con i suoi gesti, con le sue parole, con i suoi atti, una Chiesa che appariva "incapace di cogliere i fermenti e le esigenze dei suoi stessi fedeli, spesso chiusa nei privilegi di carriera e di casta". Ma riuscirà Jorge Bergoglio a liberare il papato e l'Italia da quella rete di "relazioni pericolose" che da sempre influenza la realtà sociale e politica del nostro Paese? Per trovare una risposta, Corrado Augias ripercorre in questo libro le tappe fondamentali del rapporto che la Chiesa ha intrattenuto con il potere politico, dalla cosiddetta "donazione di Costantino" alla lotta per le investiture, dalla breccia di Porta Pia ai concordati con lo Stato italiano. Analizzando nel dettaglio la visione programmatica del pontefice, Augias riflette sull'importanza che le riforme avviate da Bergoglio rivestono per tutti noi. E ci aiuta a comprendere "quanto stretto, difficile e pericoloso sia il sentiero che papa Francesco ha dimostrato di voler percorrere. Perché, se le questioni di dottrina sono difficili da affrontare, quelle legate al potere non lo sono certo di meno"

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2015
ISBN
9788858679968
Categoria
Religion

1

Il controverso articolo 7

Il percorso delineato nell’introduzione non comincia dall’inizio ma dalla fine, o quasi. Si apre con il racconto di una delle più accanite battaglie politiche, ricca di colpi di scena, di comportamenti poco comprensibili nonché di alcune autentiche «cattiverie», consumatasi nella sede dell’Assemblea costituente, nelle sedute plenarie dal 4 al 25 marzo 1947. Tema del contendere: i rapporti tra lo Stato e la Chiesa.
L’Assemblea era stata eletta con voto popolare il 2 giugno 1946, e per la prima volta nella storia della penisola avevano partecipato le donne. In quella stessa tornata si era anche votato il referendum istituzionale. Gli italiani cioè erano stati chiamati a scegliere tra due forme di Stato: monarchia o repubblica. Aveva vinto la repubblica con una maggioranza di circa due milioni di voti.
L’Assemblea costituente avrebbe chiuso i suoi lavori per la fine del 1947 – in un tempo eccezionalmente breve – permettendo alla nuova Carta fondamentale di entrare in vigore il 1° gennaio del 1948. Quella Costituzione è in buona sostanza ancora vigente. Qualche goffo tentativo di riforma radicale è stato respinto per referendum; è invece passata la pasticciata riforma del titolo V voluta dal centrosinistra (e confermata dal referendum del 7 ottobre 2001) che ha ampliato in misura sconsiderata i poteri delle Regioni.
Perché dunque una battaglia così accanita in Assemblea costituente attorno ai rapporti fra Stato e Chiesa? L’articolo 7 della Carta è composto da due commi che nella loro formulazione definitiva suonano:
Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.
Nella seduta conclusiva, il 25 marzo, il risultato finale, su un totale di 499 votanti, fu il seguente: 350 favorevoli (democristiani, comunisti, qualunquisti, monarchici, gran parte dei liberali); 149 contrari (socialisti, repubblicani, azionisti, demolaburisti, alcuni liberali).
La Carta uscita da quell’Assemblea è il più rilevante «miracolo politico» dell’Italia contemporanea. La tragedia e lo choc della guerra, la presenza di una classe politica ricca di personalità eminenti, l’atmosfera generale del Paese dove già s’intravedeva l’energia che avrebbe permesso una rapida «ricostruzione», tutti questi elementi contribuirono alla redazione di ben 139 articoli, approvati in un anno e mezzo circa di lavoro, nei quali si riuscirono a conciliare tendenze, principi, ideali e interessi spesso lontani tra loro. Salvo che sull’articolo 7, appunto i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica. La sua approvazione mantiene ancora oggi, a distanza di circa settant’anni, aspetti che non sono mai stati del tutto chiariti.
Se osserviamo la composizione dei due schieramenti, i conti apparentemente sembrano tornare. Votarono a favore i democristiani, ovviamente. I qualunquisti che sarebbero ben presto scomparsi dalla scena politica salvo ripresentarsi in varie altre forme. I monarchici spinti dal loro conservatorismo e dall’alleanza di fondo tra papato e corona. Molti liberali che in realtà avrebbero dovuto essere eredi degli ideali di quel Risorgimento conclusosi il 20 settembre 1870 a Porta Pia. Li legò invece nel voto la prospettiva di rimanere vicini di governo della Democrazia cristiana, il partito che sembrava avere dalla sua l’avvenire come i fatti avrebbero confermato.
E tra i contrari? Socialisti, repubblicani, azionisti, demolaburisti, alcuni liberali. Anche qui i conti tornano per intero: questi partiti rappresentavano altrettante incarnazioni o correnti di quello spirito laico, libertario, ricco di più o meno accentuate venature sociali che avrebbero potuto rappresentare il vero partito progressista italiano, se le circostanze lo avessero consentito, se i dirigenti di quei partiti ne fossero stati capaci, se le divisioni non avessero finito per prevalere.
La sola nota stonata del quadro è insomma la presenza dei comunisti nel pacchetto dei favorevoli. Perché gli uomini del Pci si trovarono a votare con i monarchici e l’ala conservatrice dei liberali? Questo è l’enigma da sciogliere, o quanto meno è la cronaca che vale la pena di ricostruire.
La storia, prima ancora di arrivare all’aula, era cominciata in Commissione. La Dc vi aveva concentrato alcuni dei suoi uomini più qualificati. Tra questi, i professori Dossetti, Moro e La Pira, oltre ad alcuni avvocati e altri abili manovratori parlamentari: sette membri su diciotto oltre al presidente. I membri comunisti erano tre: Marchesi, Togliatti e Iotti. Il gruppo cattolico partiva quindi nettamente favorito. Recuperando due o tre membri tra i mutevoli e i tattici (che non mancano mai), poteva facilmente raggiungere una maggioranza di dieci su diciotto.
Nella ricostruzione della cronaca mi baso tra l’altro sulle note lasciate da due autorevoli componenti azionisti: Piero Calamandrei e Vittorio Foa, uomini che nella vita pubblica hanno saputo riunire alte passioni ideali e grande profondità intellettuale.1
La discussione si accese già sul concetto contenuto nel primo comma dell’articolo: il riconoscimento che la Chiesa cattolica è uno Stato sovrano e gode pienamente di questa condizione. A prima vista niente di strano. La formulazione sembra richiamare la celebre formula di Cavour: «Libera Chiesa in libero Stato». In realtà i cattolici chiedevano che questa «sovranità» fosse riconosciuta in modo esplicito. A nulla valsero le obiezioni, avanzate per esempio dal filosofo Benedetto Croce, che la Costituzione «è un monologo, non un dialogo», deve contenere «statuizioni unilaterali dello Stato che la emana, non accordi bilaterali» per cui una formulazione del genere sarebbe caduta a proposito in un trattato internazionale e non in una Carta costituzionale. La posizione dei democristiani apparve da subito determinata per cui si arrivò presto in Commissione alla formula che poi sarebbe diventata definitiva.
Più acceso e più complesso il contrasto sul secondo comma. Si trattava di inserire nella Costituzione i Patti Lateranensi firmati da Mussolini nel 1929. Quei Patti avevano chiuso la dolorosa «questione romana» apertasi insieme alla Breccia nel 1870, e ristabilito la pace religiosa tra gli italiani. Nessuno ovviamente voleva riaprire quella ferita, il concetto venne declinato e ripetuto in varie forme praticamente da tutti gli oratori. Allo stesso tempo però la parte «laica» faceva notare che quei Patti delineavano uno Stato confessionale dove quella cattolica veniva ad assumere il ruolo di religione di Stato. Richiamare esplicitamente i Patti in un articolo voleva dire elevarli a livello costituzionale in contrasto con altri principi di laicità, di libertà di coscienza, di uguaglianza di tutte le fedi che la Carta consacrava. In particolare l’articolo 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». L’articolo 8: «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge». E l’articolo 19: «Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume».
In Commissione vennero escogitate le più ingegnose formule di compromesso, ogni tentativo di mediazione venne esperito però senza esito. Togliatti per esempio propose la formula: «I rapporti tra Stato e Chiesa sono regolati in termini concordatari» che evitava di citare esplicitamente quei Patti, limitandosi a ricordare lo strumento giuridico che fondava il rapporto. Si propose, altro esempio, di richiamare i Patti non all’interno della Carta ma in un ordine del giorno da votare a parte. Tutto fu inutile: i democristiani mantenevano il punto senza arretrare di un millimetro. Il deputato comunista Concetto Marchesi arrivò a dire che la proposta di Togliatti rappresentava «il limite estremo di ogni concessione che può essere fatta da parte comunista». Non servì. I lavori in Commissione si chiusero con la ribadita posizione contraria dei più autorevoli membri del Pci (Togliatti, Terracini) e su queste posizioni si arrivò all’aula dove un altro autorevole deputato comunista (Giancarlo Pajetta) ribadì la decisa opposizione del suo partito alla formula cattolica.
Negli ultimi giorni prima del voto, annota Piero Calamandrei, «correvano voci di trattative che avrebbero dovuto portare a una soluzione conciliativa capace di raccogliere l’unanimità dell’Assemblea». Si parlava infatti di redigere per i Patti un’apposita disposizione transitoria, oppure un ordine del giorno contenente il proposito della Repubblica di rispettare i Patti Lateranensi; oppure ancora che l’Assemblea avrebbe rispettosamente invitato la Santa Sede a modificare gli articoli dei Patti entrati in conflitto con i principi costituzionali.
La mattina del 25 marzo si diffuse invece la notizia che i democristiani avevano rifiutato ogni tentativo di compromesso e che le trattative erano rotte. La seduta pomeridiana, nella quale si sarebbe votato, si aprì nella più totale incertezza sull’atteggiamento che i comunisti avrebbero avuto. Vittorio Foa ricorda che, nonostante il patto d’unità d’azione che legava il Partito comunista e quello socialista, nemmeno i socialisti erano stati informati di quanto stava per accadere in aula.
Prese la parola De Gasperi per pronunciare un intervento durissimo che chiudeva ogni spiraglio. Seguì Togliatti che per quasi un’ora criticò l’atteggiamento democristiano richiamando gli ottimi argomenti già esposti in precedenza, salvo la sorpresa finale. Quando tutti si aspettavano l’annuncio di un «no» in coerenza con quanto aveva appena detto, il leader comunista, con una svolta repentina che Calamandrei definisce «gioco d’acrobazia dialettica», annunciò che il suo partito avrebbe votato a favore.
La votazione era per appello nominale, dunque non furono possibili manovre coperte. All’annuncio del risultato nessuno applaudì, nemmeno i democristiani, contrariati, secondo Calamandrei, dall’aiuto comunista che non avevano sollecitato. Infatti anche senza il contributo del Pci avrebbero ugualmente raggiunto una maggioranza esigua ma sufficiente.
La seduta fu tolta a mezzanotte passata, i deputati uscirono mogi. «Camminavano a testa bassa, senza parlare», anche se forse dipendeva dal fatto, annota ironicamente Calamandrei che «tutti, senza distinzione di partito, cascavano dal sonno».
Questi, sommariamente, gli eventi nei quali ognuno giocò la sua parte meno i comunisti. Perché? Prima di tentare una risposta ricordo un altro episodio, per più aspetti analogo, accaduto nel 1974 quando si trattò di votare un referendum che, se approvato, avrebbe cancellato la legge sul divorzio appena introdotta. La campagna a favore del divorzio venne meritoriamente promossa dal Partito radicale di Marco Pannella. Solo negli ultimi giorni, e dopo ripetute sollecitazioni, i comunisti si decisero a mettere in campo le loro forze con un contributo che fu ovviamente determinante per il «no», ovvero per il mantenimento della legge che aveva introdotto il divorzio.
C’è una parentela possibile tra questi atteggiamenti separati da quasi trent’anni. Lo dicono le analisi e le indagini fatte subito dopo la Costituente durante le quali vennero raccolte le voci più diverse. Si arrivò addirittura a ipotizzare che il «sì» comunista all’articolo 7 fosse stato concesso in cambio del silenzio sul leggendario «oro di Dongo», vale a dire il carico di gioielli, lingotti e valute pregiate che Mussolini in fuga portò con sé e di cui, dopo la sua morte, non si seppe più nulla. Finito nelle casse del Pci? Se ne parlò a lungo, ma nessuno ha mai scoperto l’intera verità. Secondo un’altra spiegazione, più verosimile, entrò in gioco la sopraffina abilità tattica di Palmiro Togliatti, da tutti riconosciuta. Con il voto favorevole del suo partito, il segretario comunista intendeva togliere ai democristiani una forte arma da utilizzare in campagna elettorale: siamo stati noi cattolici a salvare la libertà della Chiesa contro l’orda bolscevica. Nel suo discorso, Togliatti si era premurato di fugare in partenza questo dubbio affermando che nessuna preoccupazione elettoralistica aveva influenzato la decisione. Proprio quella excusatio non petita finì invece per alimentare i sospetti.
D’altra parte, nelle elezioni del 2 giugno (1946) la Dc aveva largamente sfruttato proprio il tema religioso che nell’Italia arretrata, bigotta, agricola, di quegli anni aveva una forte incidenza sull’orientamento dell’opinione pubblica. Non a caso una delle accuse più frequenti ai comunisti era quella di essere dei «senza Dio».
Su questo particolare aspetto, Piero Calamandrei riporta un breve dialogo semischerzoso che ebbe con un deputato comunista; nella sua stringatezza riflette bene l’atmosfera dell’epoca.
DEPUTATO: Abbiamo voluto evitare [con il voto favorevole] che nella prossima campagna elettorale i democristiani ci possano rappresentare come anticlericali…
CALAMANDREI: Ma non temete che così qualcuno possa combattervi come alleati dei clericali?
DEPUTATO: Certo questo accadrà. Ma saranno voti che andranno ai socialisti…
Dei due partiti del Blocco popolare, erano infatti i socialisti quelli che avevano una più forte connotazione laica. I voti sarebbero comunque rimasti all’interno dell’alleanza di sinistra.
Secondo un’ipotesi politicamente più fondata, l’atteggiamento dei comunisti si dovette alla loro intenzione di restare al governo con i democristiani il più a lungo possibile per imprimere al Paese una decisa svolta di tipo sociale: diritti dei lavoratori, assistenza sanitaria e, non da ultimo, anche se oggi è un tema scomparso dall’orizzonte politico, la riforma agraria. Di fronte all’importanza di questi scopi la questione religiosa poteva anche essere considerata una di quelle «questioni di principio» care più ai borghesi illuminati del Partito d’azione e agli stessi socialisti che non al Pci.
Era stato Alcide De Gasperi a sollevare, durante il suo intervento, il pericolo di una rottura quando aveva detto che dal mantenimento della «pace religiosa» dipendeva anche quello della «pace politica». La minaccia racchiusa in quelle parole era seria. Pace politica significava non solo poter continuare a stare al governo, ma anche continuare a godere degli aiuti americani in quel momento fondamentali per la sopravvivenza. Voci di corridoio rendevano ancora più preoccupante la situazione. Si diceva che, se l’articolo non fosse passato nella formulazione voluta, i democristiani avrebbero chiesto che l’intero testo della Costituzione fosse sottoposto a un nuovo referendum nel quale la stessa scelta repubblicana avrebbe potuto essere ripensata.
La domanda che si pone a questo punto è perché i democristiani abbiano dato prova di una determinazione che scavalca le ragioni elettorali o di pura tattica. Calamandrei ricorda che, nel corso di colloqui privati, alcuni deputati di quel partito gli confidarono di rendersi conto del contrasto che si veniva a creare tra quell’articolo e lo Stato non confessionale disegnato dalla Costituzione; si dissero consapevoli che la formulazione dell’articolo in quei termini introduceva dichiaratamente una religione di Stato.
Vittorio Foa ricorda una lettera a De Gasperi che il presidente dell’Azione cattolica, Vittorino Veronese, aveva scritto il 15 marzo 1947, «tragica nella sua brutalità». Come se scrivesse sotto dettatura, Veronese intimava al capo del governo di dar corso al «desiderio preciso della stessa autorità ecclesiastica», arrivando a minacciare che «dipenderà da tale votazione la preferenza dei cattolici stessi nelle future elezioni politiche». In altre parole, il Vaticano avrebbe annientato la Dc, se questa avesse ceduto sull’articolo 7. È un atteggiamento che risponde d’altronde a quello molto aggressivo che la Chiesa guidata da papa Eugenio Pacelli (Pio XII) aveva nei confronti del comunismo. Foa ricorda come tra il 1948 e il 1953 «l’anticomunismo della Chiesa toccò punte esasperate».
De Gasperi non sopportava pressioni di questo genere e lo dimostrò in varie occasioni, arrivando addirittura a un punto di rottura con lo stesso papa. In quell’occasione però dovette adattarsi. Si limitò a far intuire la situazione in un suo discorso ribaltando abilmente la prospettiva. Chiese di votare l’articolo 7 non per obbedire alle pretese della Chiesa, ma, al contrario, per portare la gerarchia ecclesiastica a promettere fedeltà alla nuova Repubblica, in forza del giuramento che proprio il Concordato imponeva ai vescovi.
Il rovesciamento non bastò a cancellare il fatto che l’articolo 7 nasceva per la volontà di un’istituzione estranea all’Assemblea, una potenza esterna che era sì una Chiesa alla quale la maggioranza degli italiani apparteneva, ma che rappresentava anche uno Stato estero titolare di diritto internazionale. I deputati democristiani si trovarono a rappresentare contemporaneamente la Repubblica e la Chiesa ovvero, ricorda Calamandrei, tutt’e due le potenze in conflitto. Il vero scontro, disse Togliatti, «non è tra democristiani e forze di sinistra, bensì tra la Costituente e l’altra parte contraente e firmataria dei Patti del Laterano». Se la votazione fosse avvenuta per scrutinio segreto forse qualcuno avrebbe fatto prevalere la fedeltà allo spirito repubblicano che l’Assemblea stava elaborando. Il voto per appello nominale favorì l’obbedienza assoluta al partito.
Vittorio Foa commenta amaramente: «La corrente laica si scoprì molto più fragile di quanto si pensasse. Eravamo convinti che il Risorgimento e Porta Pia avessero assicurato l’autonomia dello Stato italiano dalla Santa Sede. E che il Concordato del 1929 tra Stato e Chiesa fosse semplicemente un prodotto della dittatura fascista: da superare per tornare sulla strada maestra della laicità. Col tempo è diventato più chiaro che il 1929 è stato un’altra cosa: una tappa decisiva della riconquista dell’Italia da parte del cattolicesimo politico».
Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, il 1° gennaio 1948, la situazione è rimasta a lungo caratterizzata da una notevole diffidenza, quanto meno nell’opinione laica e progressista. Più volte al Pci è stato rimproverato l’atteggiamento tenuto in occasione di quel voto, e altrettante volte i comunisti hanno risposto facendo presenti gli interessi di fondo degli italiani che erano al centro della loro azione politica.
S’è dovuti arrivare al 1984 perché le cose cambiassero. Leggermente. Il 18 febbraio, a Villa Madama, il pre...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Introduzione
  5. 1. Il controverso articolo 7
  6. 2. Quando la storia ebbe inizio
  7. 3. Il trono conteso
  8. 4. La bolla di un papa simoniaco
  9. 5. Da Augusta a Vestfalia
  10. 6. Porta Pia
  11. 7. Il primo Concordato
  12. 8. Il secondo Concordato
  13. 9. La «gioia del Vangelo»: la visione di papa Francesco