L'arma della memoria
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L'arma della memoria

Contro la reinvenzione del passato

  1. 430 pagine
  2. Italian
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L'arma della memoria

Contro la reinvenzione del passato

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L'onesto uso della memoria è il più valido antidoto all'imbarbarimento. E lo è in ogni stagione politica, in ogni momento del dibattito culturale, in ogni epoca della storia. Un uso onesto che, in quanto tale, presuppone non ci si rivolga al passato in cerca di una legittimazione per le scelte di oggi. Anzi, semmai, per individuare in tempi lontani contraddizioni che ci aiutino a modificare o a mettere a registro quel che pensiamo adesso. Ben diverso (e diffuso, purtroppo) è il ricorso a forzature della memoria come arma per farci tornare i conti nel presente. Un'arma usata con infinite modalità di manipolazione, che producono danni quasi irreparabili alla coscienza storica, deformano il passato, intossicano il ricordo collettivo anche dei fatti più prossimi. E che, come tale, merita di essere combattuta. Paolo Mieli ce lo dimostra attraversando secoli di storia con la consueta competenza e passione, ricostruendo storie grandi e piccole, facendoci guardare a fatti apparentemente noti con un occhio diverso e disincantato, perché "infinite sono le leggi che regolano lo studio del tradimento nella storia. Ma due sono superiori alle altre. La prima: chi vince non verrà mai considerato un traditore. La seconda: il tradimento è questione di date, ciò che oggi è considerato un tradimento, domani potrà essere tenuto nel conto di un atto coraggioso".

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
ISBN
9788858680513
Argomento
History
Categoria
World History

III

LA MEMORIA MANIPOLATA

Quando la politica si traveste da storia

Il tradimento è solo questione di date

Infinite sono le leggi che regolano lo studio del tradimento nella storia. Ma due sono superiori alle altre. La prima: chi vince non verrà mai considerato un traditore. La seconda: il tradimento è questione di date, ciò che oggi è considerato un tradimento, domani potrà essere tenuto nel conto di un atto coraggioso. In principio a tradire sono stati Palamede (nel mito riconducibile a Omero) e Tarpea (in quello romano riferito da Tito Livio). Palamede, re dell’isola di Eubea, costringe Ulisse a partire per la guerra di Troia smascherandone la finta pazzia. Per vendicarsi, qualche tempo dopo, Ulisse lo farà apparire come un traditore al cospetto di Agamennone, portando come prova una falsa lettera di Priamo, re di Troia. Il sovrano di Eubea verrà giudicato, condannato e messo a morte sulla base delle prove artefatte prodotte da Ulisse. Interessante la circostanza che il primo, all’inizio del mito e della storia, a cui è stato imputato un tradimento, sia un uomo accusato ingiustamente. Talché Socrate, al momento di morire, vorrà ricordare proprio Palamede come esempio di ingiustizia travestita da giustizia. Tarpea è la figlia del guardiano del Campidoglio che si rende disponibile, in cambio di gioielli, ad aprire le porte della cittadella romana ai sabini ansiosi di riprendere le loro donne rapite con il celebre ratto. Ma il re dei sabini Tito Tazio, una volta ottenuto quel che voleva, la fa uccidere. Strana storia. Nel libro I supplizi capitali. Origine e funzioni delle pene di morte in Grecia e a Roma, Eva Cantarella riferisce di una seconda versione della leggenda secondo la quale Tarpea avrebbe attirato i sabini in una trappola e per questo Tazio l’avrebbe fatta uccidere. Sarebbe stato dunque per gratitudine che i Romani avrebbero dato il nome della ragazza alla rupe da cui venivano fatti precipitare i traditori. Anche qui, un curioso capovolgimento di senso alle origini del mito.
A questa categoria di uomini e donne Marcello Flores ha dedicato lo straordinario libro Traditori. Una storia politica e culturale, una storia politica e sociale del tradimento dalle origini fino al primo grande conflitto mondiale. A partire dalla guerra del Peloponneso, che si concluse con la sconfitta di Atene dopo che nel corso di ventisette anni furono consumati «ventisette tradimenti pubblici». Il più celebre fu quello di Alcibiade in un interminabile andirivieni tra Atene e Sparta provocato da false accuse che gli erano state mosse alla vigilia della partenza di una spedizione, da lui guidata, alla volta della Sicilia. Prima di allora c’erano stati però due casi clamorosi dell’ambiguità che avvolge le accuse di tradimento: Milziade, vincitore di Maratona (490 a.C.), che muore in carcere dopo essere stato ingiustamente accusato di aver ordito trame assieme ai nemici, e Temistocle, il costruttore della grandezza navale ateniese, l’artefice della vittoria di Salamina (480 a.C.), ostracizzato per aver cercato, assieme a Pausania, un accordo «politico» con la Persia. Il fatto è che in Grecia, come ha ben messo in risalto Anton-Hermann Chroust, i politici avrebbero preferito vedere «la perdita dell’indipendenza nazionale a vantaggio di una potenza straniera» piuttosto che assistere al trionfo della fazione avversa: la nozione di patriottismo «sembra essere animata da una cieca lealtà partigiana, piuttosto che da una fedeltà patriottica alla città o a un attaccamento alla costituzione esistente e alle leggi approvate». Non va poi dimenticato, scrive Flores, che, «senza entrare nel dibattito storiografico sull’eredità di Pericle, sull’efficacia del suo progetto democratico, sulla deriva populista con cui caratterizzò il proprio dominio», ad aprire la strada all’uomo simbolo della democrazia greca fu proprio l’accusa di tradimento rivolta al suo avversario Cimone. Quel Cimone condannato all’ostracismo per aver cospirato con Sparta ai danni della città e, in conseguenza di ciò, esiliato per ben dieci anni.
Il tradimento, come hanno mostrato oltre agli studi sociologici anche quelli filosofici e giuridici, è spesso «una percezione soggettiva, un evento relativo e non assoluto, perché dipende da una relazione congiunturale in un contesto particolare e perché appare tale quando le dinamiche di potere si sono concluse e manifestate». Ragion per cui, scrive Flores, «chi vince non è mai un traditore» (come si era detto all’inizio). Una prova? Quello che a ogni evidenza appare come «il primo esempio di un colossale tradimento collettivo – la Guerra d’indipendenza delle colonie americane dalla Gran Bretagna – in nessun libro di storia potrà essere giudicato come tale». Nel corso dei tempi, l’attributo di traditore è stato dato, elenca Flores, «agli apostati, agli eretici, ai convertiti, ai rinnegati, ai transfughi, agli ammutinati, ai disertori, alle spie, agli informatori, alle quinte colonne, ai collaborazionisti, ai ribelli, ai rivoluzionari, ai terroristi, ai voltagabbana, ai pentiti, ai crumiri; per non parlare degli infedeli e degli adulteri all’interno della sfera privata». Si tradisce, ha scritto Gabriella Turnaturi in Tradimenti. L’imprevedibilità nelle relazioni umane, «se stessi, i parenti, gli amici, gli amanti. La patria. Si tradisce per ambizione, vendetta, leggerezza, per affermare la propria autonomia, per cento passioni e cento ragioni». Il traditore, ha specificato Giulio Giorello in Il tradimento. In politica, in amore e non solo, è «chi illude gli altri e magari sé stesso grazie alla capacità di varcare ogni limite sfidando natura e fortuna, o addirittura la volontà divina», investendo «la cosmologia, perché mira a squassare l’intero universo; la politica che è la sua nicchia d’elezione; la teologia perché non esita a coinvolgere Dio nel gioco; la metafisica, ove il tradimento svela le strutture profonde, sottostanti alla superficie delle apparenze; l’etica, che dal tradimento viene plasmata, ora resistendovi, ora inglobando in un processo incessante di chiarificazione della mente; l’arte, poiché tradire è insieme un evento del mondo e uno stato dell’anima». In realtà, precisa Flores, «l’idea di tradimento, la percezione e il giudizio che ne danno i contemporanei e i posteri, cambia forse più profondamente di quanto non ci dicano le definizioni filosofiche, le formalizzazioni giuridiche, le tipologie costruite dai modelli sociologici».
Il Medioevo è un momento di grande rielaborazione del tema del tradimento. Dal dibattito sulla figura di Giuda che ha consegnato Cristo ai Romani e che inizia a essere discussa in una luce nuova (la sua missione sarebbe stata quella di rendere possibile il disegno di Gesù) al personaggio di Gano di Maganza, l’uomo che tradisce Rolando mettendosi d’accordo con il re saraceno Marsilio alla vigilia della battaglia di Roncisvalle (778) e che sostiene di essere stato tradito a sua volta nel momento stesso in cui era stato inviato in missione presso il sovrano dei Mori.
Anche la storia della nascita delle nazioni, in particolare Inghilterra e Francia, è costellata di tradimenti. La lesa maestà – nelle forme codificate dalla legge di Edoardo III del 1351 – resta l’essenza del tradimento ma con gli anni – dalla seconda metà del Cinquecento – sempre più la maiestas si viene a identificare «con l’astratto corpo sociale rappresentato dal sovrano, e cioè lo stato o la patria, piuttosto che con la persona del re». Un nuovo grande cambiamento avviene verso la metà del Settecento, «quando il tradimento della fedeltà al sovrano e della lealtà dinastica è sostituito un po’ alla volta dal richiamo alla fedeltà alla nazione e alla lealtà verso la costituzione». Il tradimento, abbiamo visto, è la rottura del patto di lealtà che ci unisce alla nostra comunità e alle sue istituzioni simboliche e rappresentative. Questa «infedeltà», scrive Flores, ha una valenza universale che si ritrova, «pur con molte varianti», nei secoli. La grande «diversità con cui il tradimento è stato percepito, vissuto, condannato e utilizzato, dipende da contesti storici diversi, da istituzioni profondamente diseguali, da legislazioni differenti». Quello che cambia di più in ogni situazione «è il senso di appartenenza e di identità che prevale nelle comunità in cui ha luogo il tradimento, è la valutazione del reato che ne danno le istituzioni e le leggi, è il senso di partecipazione e di coinvolgimento dei cittadini, del popolo e della pubblica opinione». Gli ultimi trent’anni del Settecento rappresentano, per lo meno nella storia dell’Occidente, «un momento di rottura profonda e permanente, tanto da costituire tradizionalmente l’inizio della storia contemporanea». È il periodo in cui si affaccia la cultura dei diritti che l’Illuminismo sta diffondendo, in cui comincia a precisarsi l’idea di nazione, in cui il capitalismo e la borghesia muovono i primi passi: «in una convergenza che porta a ribaltare quello che verrà chiamato l’antico regime e a creare nuovi legami, nuove comunità e, di conseguenza, nuove lealtà e nuove fedeltà». Ma anche «nuovi tradimenti» o «tradimenti di tipo nuovo». È negli ultimi vent’anni del Settecento che l’idea di tradimento conosce «una trasformazione profonda, si rinnova e si articola secondo modelli, percorsi politici e giuridici che si svilupperanno ulteriormente nell’Ottocento». A segnare questa svolta sono «le grandi rivoluzioni che accompagnano la nascita degli Stati Uniti e la vittoria della Repubblica in Francia, perché è da questo momento che la fedeltà non è più indirizzata al sovrano, a un’entità individuale, ma riguarda la collettività, serve a costruire e a rafforzare il “noi”, il gruppo e la comunità cui si sente di appartenere e che l’emergere dello Stato-Nazione moderno rende sempre più forte ed esigente». Alla fine del Settecento si assiste a una drastica trasformazione del tradimento e a una vera rottura nella sua definizione giuridica e politica. È in questo periodo, infatti, a cavallo delle due grandi rivoluzioni che aprono l’epoca contemporanea – quella americana e quella francese – «che il concetto di lealtà e di fedeltà muta significato perché cambia l’oggetto cui fa riferimento». E qui giova ricordare la definizione (di cui all’inizio) data nel 1815 da Charles-Maurice de Talleyrand: «Il tradimento è una questione di date». Niente meglio di queste sette parole può spiegare come da questo momento, all’indomani della definitiva sconfitta di Napoleone, «sia il potere che vince o si rafforza a dettare la norma, cogente e inappellabile».
Nella prima metà dell’Ottocento, prosegue Flores, «le accuse e i processi di tradimento sono quasi sempre strettamente collegati a tentativi, reali o presunti, di cospirazione contro il potere esistente». Ed è così fino al 1848. La nuova definizione legislativa del reato di tradimento avvenuta nel Regno Unito proprio nel 1848 «sancisce definitivamente l’identificazione tra la volontà di rovesciare il governo e il muovere guerra alla regina, tra sedizione politica e progettazione della morte del sovrano». Ma questo «avviene di fatto depotenziando la sacralità della figura monarchica e riducendola a simbolo di ogni attacco contro le istituzioni, la costituzione, il governo». Poi, «pur nell’ovvia e profonda diversità tra un regime liberale (quello britannico o statunitense), un regime rivoluzionario autoritario (quello francese) e un regime autocratico e assolutista (quello russo, austriaco, prussiano), il reato di tradimento si configura sempre più come lo strumento principale di una lotta politica senza esclusione di colpi contro le opposizioni: che hanno in un caso carattere politico, sociale o ideologico, nell’altro i tratti della protesta liberale e nazionale». Con l’avvento del XX secolo la patria «assume l’immagine totalizzante della lealtà che si deve alla propria comunità e della fedeltà che si deve al proprio Stato e alle proprie istituzioni». Da allora, ha scritto Raymond Aron, «i traditori assumono la figura classica con cui li raffigura l’immaginazione popolare: l’ufficiale di marina che trasmette dei segreti ai servizi di spionaggio di una potenza straniera non può agire che per motivi disprezzabili; il traditore oggettivo è, al tempo stesso, un traditore soggettivo, non sembra più concepibile una situazione in cui un uomo possa mettersi contro la propria patria per motivi nobili». Almeno fino al Novecento quando – come hanno ben documentato Phillip Deery e Mario Del Pero in Spiare e tradire – saranno in molti a contraddire la parte finale dell’enunciato di Aron, in ragione della loro militanza comunista.
Quando poi inizia la Prima guerra mondiale, si è costretti a prendere atto del fatto che la lealtà a una dinastia non avrebbe più senso. Re e imperatori sono strettamente imparentati tra loro: Nicola II di Russia e Giorgio V d’Inghilterra sono cugini, così come lo stesso Giorgio V e il Kaiser Guglielmo II, nipote della regina Vittoria e cugino della moglie dello zar, Alexandra, anche lei nipote della regina inglese. Sono gli stessi sovrani a cercare un’identità nella propria nazione piuttosto che nella famiglia di provenienza. I tradimenti che hanno costellato il Sette e l’Ottocento, «da quello contro le autocrazie e la dittatura a quelli per ottenere libertà e democrazia, da quelli per conquistare il potere a quelli per cambiare il governo e la costituzione, da quelli per raggiungere l’indipendenza a quelli per difendersi dall’arbitrio coloniale, sono rientrati un po’ alla volta nel cono d’ombra della sovversione, della ribellione, della rivoluzione, per poterli meglio combattere e punire». Con la Prima guerra mondiale, infine, «inizia un altro percorso, anch’esso accidentato e complesso, in cui il termine stesso amplierà e restringerà il suo significato a seconda della temperie storica e culturale e della contingenza politica, ideologica, militare». Di lì prenderà inizio un tradimento di tipo nuovo, quello novecentesco condizionato in maniera determinante dalle ideologie. E, in quanto tale, del tutto diverso da quello dei due o tremila anni precedenti.

Il fascino segreto di Annibale su Roma

Polibio ne lodò esplicitamente «il modo di esercitare il comando, il valore e la forza sul campo». Napoleone Bonaparte ne esaltò la grandezza e lo collocò sullo stesso piano di Alessandro Magno e Giulio Cesare. Sigmund Freud, fin da giovane, ne scrisse con ammirazione idealizzandolo come un «semita» che aveva avuto il coraggio di sfidare Roma. Nel 1934, il presidente turco Mustafa Kemal Atatürk gli dedicò un panegirico nel luogo dove un tempo sorgeva Libyssa (odierna Gebze), dove duemilacentodiciassette anni prima Annibale si era dato la morte con il veleno per non essere catturato dai Romani. Panegirico che doveva suonare a monito nei confronti di Benito Mussolini, il quale si proponeva come restauratore dei fasti di quell’antica Roma che, pur dopo essere stata da lui umiliata, alla fine era riuscita a sconfiggere il generale africano. In anni recenti gli afroamericani lo hanno considerato l’eroe nero dell’antichità (anche se probabilmente non era di pelle scura). Nel libro L’arte del comando, Barry Strauss sostiene che, per certi versi, il grande generale cartaginese superò Alessandro e Cesare. «Probabilmente» scrive «fu Annibale il più grande comandante, sia in combattimento sia sul campo […]. Con la battaglia di Canne realizzò uno degli esempi di accerchiamento più eleganti e distruttivi che gli annali della storia militare ricordino.» Si può dire che fu «l’eroe delle cause perdute e delle battaglie perfette».
Come Alessandro con Filippo II, Annibale aveva appreso l’arte militare dal padre: Amilcare Barca. Quando attaccò Roma aveva ventinove anni e da venti non aveva più messo piede a Cartagine. A fianco del padre, in Spagna, aveva fatto sua l’«abilità del sorprendere». Quando varcò le Alpi portando con sé gli elefanti «lasciò il nemico a bocca aperta». Accerchiò i Romani «con una serie di stratagemmi inauditi»: riuscì «a forzare le porte di una città inespugnabile»; caricò il nemico con la cavalleria da un nascondiglio alle sue spalle; in una notte riuscì a portare in salvo il suo esercito sotto il naso dei Romani. Non ebbe remore di carattere umanitario: la prima cosa che fece, quando nel 218 a.C. giunse in Italia, fu attaccare Torino per spezzare la resistenza nell’area circostante; e quando, quindici anni dopo, nel 203 a.C., lasciò l’Italia, uccise gli Italici che si rifiutavano di seguirlo. Ugualmente crudeli, del resto, furono gli altri due condottieri: Alessandro rase al suolo Persepoli con una dose non necessaria di sadismo; Cesare, scrive Plutarco, sterminò in Gallia un milione di persone (e ne ridusse in schiavitù altrettante).
Roma controllava i mari e i porti vitali della Sicilia e della Sardegna. Così Annibale, non potendo cercare rifornimento nei porti delle due isole, fu costretto a compiere un viaggio di mille e seicento chilometri, dalla Spagna meridionale all’Italia settentrionale. A quei tempi Roma aveva a disposizione un esercito potenziale di settecentosessantamila uomini, Annibale di sessantamila che si sarebbero ridotti a ventiseimila dopo l’attraversamento delle Alpi. La sua arma principale, oltre a quella di colpire il nemico a sorpresa, era (avrebbe dovuto essere) quella di provocare defezioni nel campo degli alleati di Roma. Ci riuscì davvero e fino in fondo solo con i Celti. In ogni caso comunicava agli Italici di essere sulle loro terre non come conquistatore ma come liberatore e, dopo ogni vittoria, riduceva in schiavitù i Romani ma liberava tutti i prigionieri Italici. Annibale, a detta di Strauss, «impersonò la figura del vendicatore e del liberatore e trovò la via per avvicinarsi agli dei». A Cartagine promise di restituire l’onore perduto a causa dell’antica sconfitta subita da Roma nella Prima guerra punica; agli Italici disse che avrebbe loro restituito «la libertà dalla dominazione romana» (anche se Cartagine, diffidente nei confronti della famiglia Barca, nel momento decisivo gli lesinò gli aiuti). Affermò, Annibale, di essere protetto dal dio cartaginese Melqart, o Ercole, e si descrisse come un eroe tratto dalla mitologia celtica. Ma, precisa Strauss, «a differenza di Alessandro non dichiarò mai di essere un dio, e si limitò ad affermare di essere sotto la protezione divina». Per questo «il fascino che Annibale esercita sui diseredati ha radici solide». Nessuno stratega «è riuscito a realizzare una invasione così rischiosa come la marcia di Annibale attraverso i Pirenei, il Rodano e le Alpi fino in Italia; nessun comandante ha ottenuto una vittoria tattica così definitiva come quella di Annibale a Canne […]. Nessuno ha saputo riorganizzare con tanta fermezza i popoli invasi come lui quando entrò in Italia al grido “l’Italia agli Italici”». Dopo «aver sfidato un impero arrogante e averlo scosso fino alle radici, perse tutto; ma conservò la propria dignità; nella sconfitta reinventò se stesso come amministratore, ricominciò la lotta contro Roma in Oriente, e rifiutò l’umiliazione di una marcia trionfale del nemico […]. Morì da sconfitto ma non piegato».
Tito Livio definì il conflitto che oppose Annibale a Roma (218-201 a.C.) «la più memorabile di tutte le guerre che vennero mai combattute». «A mio parere» ha scritto Werner Huss in Cartagine, «i romani non potevano accampare nessuna valida ragione di diritto internazionale quando nel 218 a.C. entrarono nella guerra che doveva decidere dell’egemonia nell’area del Mediterraneo occidentale.» Questo semplice fatto «fu però messo in ombra dalle affermazioni dei politici e storici romani, che da un lato ritennero politicamente inopportuno dire la nuda verità, dall’altro erano intimamente convinti che ogni guerra combattuta da Roma fosse una “guerra legittima”». Se i Romani, prima dello scoppio della guerra, si videro costretti ad agire in base a un pretesto giuridico – il presunto obbligo di alleanze nei confronti della città iberica di Sagunto, cuneo romano nella Spagna cartaginese, espugnata da Annibale nel 219 a.C. – questo, secondo Huss, «non solo dimostra che erano consapevoli della illegittimità della loro azione, ma lascia anche pensare che si rendessero pienamente conto della grande importanza della loro decisione». Ma va considerato che molti storici, primo tra tutti Giovanni Brizzi (Annibale come un’autobiografia), non considerano affatto pretestuoso l’intervento romano a difesa di Sagunto. Se poi dobbiamo accettare la massima napoleonica secondo cui «in guerra non sono gli uomini ma l’uomo che conta», ha scritto Basil H. Liddell Hart in Scipione Africano, «il fatto più significativo è che Alessandro e Cesare ebbero il terreno spianato dalla debolezza e dall’ignoranza dei comandanti che li contrastarono». Annibale, no. Solo Annibale («al pari di Scipione») combatté regolarmente contro generali esperti. Però, prosegue Liddell Hart, «le sue tre vittorie decisive – Trebbia, Trasimeno e Canne – vennero riportate su generali non solo ostinati e precipitosi, ma anche scioccamente refrattari a qualsiasi tattica che contasse sull’astuzia piuttosto che sul puro e semplice impiego della forza bruta». Annibale ne era consapevole tant’è che alla vigilia della battaglia della Trebbia, esaltando l’attitudine a individuare le opportunità e la prontezza nel coglierle, avvertì i suoi: «Avete a che fare con un nemico ignaro di queste arti della guerra». Barry Strauss lo descrive invece come un generale senza scrupoli che «con una élite esperta e un piccolo esercito riesce a mettere fuori combattimento un gigante d’argilla». Tipo Hernán Cortés che nel 1519 con appena seicento uomini affrontò gli Aztechi e nel 1521 avrebbe conquistato l’intero Messico.
Già Pirro, re dell’Epiro, nel 280 a.C. aveva invaso l’Italia meridionale e aveva quasi piegato Roma. Generale dotato dello stesso carisma di Annibale, scrive Strauss, «anche Pirro aveva un esercito piccolo ma esperto, completo di cavalleria e di elefanti […]. Al contrario di Annibale, aveva anche numerosi alleati italici». Vinse due importanti battaglie campali contro Roma, ma subì perdite talmente gravi che le vittorie si trasformarono in sconfitte: Roma rifiutò di arrendersi, riguadagnò gli alleati che fornirono nuove truppe e ottenne l’appoggio di Cartagine, timorosa che Pirro potesse invadere la Sicilia. Così, cinque anni dopo, nel 275 a.C. il re dell’Epiro fu costretto a tornarsene a casa a mani vuote. Passate le Alpi dove, come si è detto, Annibale aveva perso oltre la metà del suo esercito, il generale cartaginese, anziché fermarsi a riprendere fiato come tutti si aspettavano, inflisse due terribili sconfitte ai Romani: sul Ticino, dove umiliò Sc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Introduzione
  5. La grande guerra della storia contemporanea
  6. L’uso politico dell’analisi storica
  7. L’identità nazionale come ideologia
  8. I. LA MEMORIA ADULTERATA - Storie di un continente dal passato incerto
  9. II. LA MEMORIA FRANTUMATA - Ebrei, fascismo e antifascismo
  10. III. LA MEMORIA MANIPOLATA - Quando la politica si traveste da storia
  11. Bibliografia