La chimera
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La chimera

Sebastiano Vassalli

  1. 368 pagine
  2. Italian
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La chimera

Sebastiano Vassalli

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PREMIO FONDAZIONE IL CAMPIELLO 2015 Nel 1610 Zardino è un piccolo borgo immerso tra le nebbie e le risaie a sud del Monte Rosa. Un villaggio come tanti, sembra, ma che in realtà racchiude una storia incredibile. Quella di una donna, Antonia, una trovatella cresciuta nella Pia Casa di Novara, scelta da due contadini e portata in paese, dove cerca di vivere nella fede e con semplicità, come le hanno insegnato le monache. Ma la ragazza è strana, dice la gente. Con quegli occhi scuri, con quella pelle scura, come i capelli... bella, troppo bella, e forse troppo indipendente... una volta è persino svenuta al cospetto del vescovo Bascapè: qualcosa di strano ci deve essere, in lei, qualcosa di diabolico. Vassalli riporta alla luce una vicenda clamorosa, la tragica vita di Antonia, "la strega di Zardino", esplorando gli angoli più oscuri di un secolo senza Dio e senza Provvidenza, in un turbine di menzogne e fanatismi di un anfratto paradossale, e spaventosamente attuale, della nostra storia italiana. Premio Strega 1990. Un capolavoro da 25 anni.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2015
ISBN
9788858680032

Capitolo trentesimo
La festa

Quando la “strega di Zardino” apparve in alto sulla Torre dei Paratici, nella prima ora pomeridiana di quel sabato 11 settembre in cui morì, c’era già in piazza Duomo, sotto le finestre del pretore, una folla di sfaccendati che con il caldo e i discorsi avevano incominciato ad eccitarsi, gridavano: «Dateci la strega! La bruciamo noi!», agitando i pugni e anche i bastoni; mentre altri sfaccendati, apparentemente più calmi, cercavano di convincere le guardie fuori del palazzo a consegnargli la condannata, gli dicevano: «Che bisogno c’è di riportarla al suo paese? Vogliamo vederla mentre brucia! Qui a Novara!».
«Altrimenti non ci fidiamo! In questa stessa piazza!»
Accecata dalla luce del giorno a cui i suoi occhi non erano più abituati, Antonia venne giù senza vedere niente o quasi niente, avendo anche nelle orecchie quell’urlio della folla in cui di tanto in tanto si capivano singole parole, «pioggia», «morte», «strega» e poche altre; un po’ sorretta da chi le stava dietro un po’ aggrappandosi alla ringhiera di ferro, arrivò in fondo. C’erano tanti soldati nel cortile del Broletto, a cavallo e a piedi, e con ogni genere di divise: miliziotti italiani e micheletti spagnoli, alabardieri e archibugieri, e tutti stavano là schierati per ogni evenienza senza avere un compito specifico, tranne quelli che erano attorno alla carrozza e dovevano scortare la strega sul luogo dell’esecuzione. C’era la carrozza: un cocchio chiuso, piuttosto malandato, che normalmente serviva a trasportare i giudici delle cause civili quando andavano a fare i sopralluoghi per le liti d’acqua. Antonia vi venne issata e spinta dentro da quegli stessi soldati che erano saliti a prenderla in cella e dovette sedersi nell’unico posto libero, a fianco d’uno sconosciuto vestito tutto di grigio e con la testa rasata che era l’aiutante del boia. Di fronte a loro c’erano altri due uomini. A sinistra, il capitano di giustizia era un vecchio alto e ossuto, con i capelli di due colori: bianchi alla radice, e, per il resto, neri come il piumaggio di un corvo. Costui, che in ogni momento e in ogni gesto s’atteggiava a grand’uomo, gettò appena un’occhiata sulla strega e poi subito tornò ad occuparsi di ciò che succedeva fuori, tenendo sollevata la tendina e guardando attraverso il vetro. A destra, invece, un frate francescano, calvo con una gran barba nera che gli arrivava a mezzo il petto e due occhi grigi spiritati, aveva tra le mani una croce di legno e fissava Antonia come se lei fosse stata il Diavolo, con uno sguardo che significava: non ti temo!
Si sentì una voce concitata che impartiva degli ordini e la carrozza si mosse, si girò, usci dal palazzo: i ferri delle ruote incominciarono ad urtare contro i ciottoli della strada facendo sobbalzare, all’interno, le teste e gli arti dei viaggiatori con un effetto curioso, a tratti grottesco. Antonia allora guardò fuori, attraverso quello stesso finestrino sulla sua sinistra da cui guardava il capitano di giustizia: perché l’altro finestrino, quello dalla parte del frate, aveva la tendina completamente abbassata. Vide i busti e i profili dei soldati che cavalcavano di fianco alla carrozza, e la folla lungo il percorso: i pugni alzati, le facce stravolte con le bocche spalancate a insultare e a maledire e a invocare una morte, la sua morte! Proseguendo verso Porta San Gaudenzio, s’accorse che per non sentire quelle grida bastava non ascoltarle. Guardava i volti e i corpi degli uomini là fuori come avrebbe guardato dei pesci in una boccia di vetro; li vedeva lontani ed anche strani, anzi si meravigliava di non avere mai fatto caso a quei dettagli che ora le sembravano così assurdi; di non essersi mai stupita in precedenza di quelle forme, considerandole – come tutti – inevitabili, e assolutamente sensate! Di averle sempre credute… normali! Quei cosiddetti nasi, quelle orecchie… Perché eran fatte così? Quelle bocche aperte con dentro quei pezzi di carne che si muovevano… Che insensatezza! Che schifo! E quell’esplosione incontenibile di odio, da parte di individui che fino a pochi giorni prima non sapevano nemmeno che lei esistesse e ora volevano il suo sangue, le sue viscere, reclamavano d’ammazzarla loro stessi, lì sul momento e con le loro mani… C’era forse un senso, una ragione in tutto questo? E se non c’era, perché accadeva? Ecco, pensava: io sto qui, e non so perché sto qui; loro gridano, e non sanno perché gridano. Le sembrava di capire, finalmente!, qualcosa della vita: un’energia insensata, una mostruosa malattia che scuote il mondo e la sostanza stessa di cui sono fatte le cose, come il mal caduco scuoteva il povero Biagio quando lo coglieva per strada. Anche la tanto celebrata intelligenza dell’uomo non era altro che un vedere e non vedere, un raccontarsi vane storie più fragili d’un sogno: la giustizia, la legge, Dio, l’Inferno…
«Maledetta strega! Devi crepare! A morte! Al rogo!»
Appena fuori da Porta San Gaudenzio un viso più stralunato degli altri s’avvicinò al finestrino, aprì la bocca: ne uscì uno sputo che imbrattò la superficie esterna del vetro e il capitano di giustizia allora abbassò la tendina, per un attimo l’interno della carrozza rimase al buio; poi però lui tornò a guardare fuori e anche gli altri viaggiatori tornarono a vedersi.
«Fai piovere, brutta porca! A morte! Crepa!»
Il frate calvo, dagli occhi spiritati, non aveva smesso di fissare la strega nemmeno per un istante e nemmeno al buio. Ora improvvisamente si sporse con il braccio, mise la croce davanti al viso di Antonia, le parlò. «Se ancora sai pregare» le disse: e gli occhi quasi gli uscivano dalle orbite, la voce gli tremava, «è tempo che tu ti penta, e che tu preghi, e che tu chieda perdono a Dio dei tuoi innumerevoli peccati, per quanto orribili essi siano: perché gli uomini non possono più perdonarti, ma Dio sì!»
Avvicinandosi Borgo San Gaudenzio, dove c’era il mercato, le grida della gente per strada s’infittirono e crebbero d’intensità: tornarono ad essere un urlio confuso e minaccioso, un ininterrotto frastuono cui facevano da contrappunto i colpi degli ortaggi che s’abbattevano con sempre maggior forza sul tetto e sulle fiancate della carrozza e che proseguendo diventarono gragnuola, acquistarono una sonorità nuova e preoccupante. Bartolone non fece in tempo a dire: «Sono sassi!», che tutt’e due i finestrini, quello di destra e quello di sinistra, esplosero quasi contemporaneamente, finendo in pezzi sulle loro ginocchia e tra i loro piedi. Nello stesso tempo la carrozza si fermò: segno, questo, che anche il cocchiere era in difficoltà; mentre i soldati della scorta gridavano: «State indietro o spariamo!», «State indietro!», la carrozza, per un istante che ai suoi occupanti sembrò lunghissimo, rimase in balia della folla che la scosse e la spinse e la fece oscillare da ogni parte, come una barca in un mare tempestoso. Al tambureggiare dei sassi sopra il tetto si sostituì quello dei pugni e dei bastoni che battevano contro le fiancate; uno sportello venne aperto dall’esterno, visi e mani di forsennati si protesero per afferrare la strega ma a questo punto i soldati spararono e tutto finì nel volgere di pochi secondi: la gente per strada si calpestava per fuggire, scappava in tutte le direzioni urlando di paura mentre i soldati ricaricavano gli archibugi e il capitano di giustizia, proteso con metà busto fuori dal finestrino, li incitava a ricaricare più in fretta, a sparare più in basso, a sparare ancora! Una mano invisibile richiuse con un gran colpo lo sportello che era stato aperto dagli assalitori, il capitano di giustizia si ritrasse, la carrozza ripartì; ma dopo passato il guado dell’Agogna dovette tornare a fermarsi perché nel trambusto s’era sconnessa una ruota e bisognava sistemarla lì per strada, con gli attrezzi di fortuna che erano a disposizione. Questo guasto, verificandosi più e più volte durante il resto del viaggio, determinò un notevole ritardo nell’arrivo a Zardino della strega: che era previsto verso le quattro del pomeriggio e invece avvenne un poco prima delle sette, quando ormai il sole aveva incominciato a tramontare; e chissà se Antonia se ne dispiacque! Di quella prima sosta in prossimità del torrente va anche detto che servì a lavare una ferita che il capitano di giustizia s’era ritrovato in viso al termine dell’assalto della folla e che gli era stata procurata, con ogni probabilità, da una scheggia di vetro. Nessun dolore; ma la vista del proprio sangue rese furibondo il grand’uomo, che non esitò, in tale circostanza, ad impartire ai soldati della scorta ordini perentori e spietati: sparassero senza preavviso, ad altezza d’uomo, contro chiunque s’avvicinasse alla carrozza ad una distanza di meno di tre passi, anche se costui fosse stato disarmato; contro gli armati di sassi e di bastoni sparassero da lontano, e per colpirli, nel momento stesso in cui li vedevano. Se infine gli assalitori erano in molti, sparassero nel mucchio: tanto – brontolava il capitano ferito, comprimendosi un fazzoletto bagnato sulla parte offesa – per quanti contadini s’ammazzino, ne rimangono al mondo sempre troppi…
S’incontravano, quasi ad ogni passo, comitive dirette al dosso dell’albera, che andavano laggiù per veder bruciare la strega; famiglie intere su quei carri a sponda bassa, tirati da cavalloni con ginocchia grandi come la testa di un uomo, che a quell’epoca e nelle campagne di tutta Europa erano il mezzo di trasporto universale, di merci ma anche di persone. Al sopraggiungere della carrozza, i carri si facevano da parte o venivano costretti dai soldati a togliersi di mezzo, mentre tutti quelli che ci stavano sopra gridavano, fuori di sé per l’entusiasmo: «La strega! Arriva la strega!» e i cani – se ce n’erano sul carro – abbaiavano anche loro più forte che potevano, i ragazzi facevano girare con due mani certi strumenti di legno detti raganelle, che si fabbricavano apposta per produrre frastuono, gli uomini agitavano quelle stesse filze di barattoli che erano state gli strumenti del Diavolo cioè del Carnevale, prima che Bascapè lo mettesse al bando, e che ora invece servivano per festeggiare la vittoria di Dio sul Diavolo, le donne e i vecchi gesticolavano, gridavano con gli altri:
«La strega! C’è la strega! A morte! Al rogo!».
Avvicinandosi la riva del Sesia, sugli incroci con le strade secondarie e negli slarghi comparvero i primi venditori di vino e bibite, di pesci fritti, d’angurie. I campi in prossimità delle strade, ovunque il granoturco e la segale erano già stati tagliati e portati via, brulicavano di carri, di cavalli, di bambini che si rincorrevano e giocavano a nascondersi, di adulti che s’erano fermati lì, e mangiavano e bevevano e aspettavano di godersi da lontano quel gran spettacolo del rogo della strega che tanto – gli era stato detto – si sarebbe visto per molte miglia tutt’attorno: non era il caso d’arrivare fin sotto il dosso, dove la folla certamente era così fitta che poi, anche ad essere vicini, si finiva per non vedere niente! Meglio stare un po’ più lontani e un po’ più comodi. Arrivavano da ogni parte della bassa e anche dalle città: da Novara, da Vercelli, da Gattinara; con le famiglie, con gli amici, con i vecchi di casa, con i bambini, con i carri carichi di vino e di cibarie per far baldoria, e stare in allegria, e festeggiare la fine dell’estate. Non erano gente sanguinaria, né malvagia. Al contrario, erano tutti brava gente: la stessa brava gente laboriosa che nel nostro secolo ventesimo affolla gli stadi, guarda la televisione, va a votare quando ci sono le elezioni, e, se c’è da fare giustizia sommaria di qualcuno, la fa senza bruciarlo, ma la fa; perché quel rito è antico come il mondo e durerà finché ci sarà il mondo. (Finché continueranno ad esserci degli uomini ci saranno i Gesucristi e le Gesucriste, come disse Antonia.)
«C’è la strega! Arriva la strega! A morte! Al rogo!»
«Preparate il fuoco! Accendete il camino! E arrivata la strega!»
Mastro Bernardo, venendo da Novara a cavallo, s’era accodato alla carrozza della strega e ne aveva seguite tutte le peripezie, arrivando in vista dei dossi e del villaggio che era già sera. Zardino, in quel sabato afoso di settembre, stava vivendo nella luce della storia per la prima ed ultima volta dacché esisteva; ai suoi balconi, in segno di festa, le comari avevano esposto tutte le stoffe colorate che c’erano in paese e sulle finestre di quasi tutte le case brillavano file di lumini: ben visibili, perché il sole ormai aveva iniziato a tramontare sull’argine del Sesia e le ombre s’allungavano nei cortili, s’infittivano tra i vicoli. Non c’era mai stata in passato, in quel villaggio, e non ci sarebbe mai più tornata ad essere, per nessun motivo!, una tale folla che entrava e usciva dall’Osteria della Lanterna, si pigiava dentro la chiesa e s’accalcava in piazza, per ascoltare dalla voce ormai roca del cappellano don Teresio terrificanti prediche sulle insidie del Diavolo e sui modi in cui la fragile volontà dell’uomo può venire da lui distolta nel suo cammino verso Dio, e deviata verso l’Inferno. Tutte le porte e le finestre della chiesa erano spalancate e don Teresio, coadiuvato da due preti dei paesi vicini, celebrava e predicava ininterrottamente dalle prime luci dell’alba: preparava i suoi fedeli, e l’altra gente accorsa in pellegrinaggio a vedere la strega, alla solenne processione che si sarebbe mossa dalla chiesa verso il dosso dell’albera non appena il sole fosse sceso sotto l’orizzonte. Quattro chierichetti s’aggiravano in continuazione tra la folla, in chiesa ed anche fuori di chiesa, sulla piazza, raccogliendo le offerte: e fecero così bene il loro servizio che il giorno dopo, contando quel mucchio di denaro, don Teresio si accorse che la tanto sospirata parrocchia non era più così lontana. Che, forse, entro quell’anno medesimo…
«Siamo qui per bruciarti, maledetta! È tutto pronto! Ci manchi solo tu!»
Il sole ormai tramontava dietro i dossi e chiunque aveva avuto familiarità con quel paesaggio avvertiva la mancanza dell’albera come un vuoto enorme, un’assenza irreparabile; s’accorgeva con stupore, arrivando lì, d’una cosa a cui nessuno aveva fatto caso finché il castagno se ne stava in cima al dosso, e cioè che quell’albera, esistita per secoli, non era solo una presenza pacificata e consacrata al silenzio dei luoghi, ma era anche un elemento fondamentale del paesaggio della ripa del Sesia, che senza lei non sarebbe ritornato ad essere com’era prima, mai più! Al suo posto, quasi a coprire una nudità, o una dolorosa ferita, c’erano ora due cataste ben ordinate di fascine, e in mezzo alle cataste, il palo per la strega con tutto ciò che doveva servire a facilitare il lavoro del boia: la scaletta in legno per salire sulle fascine, le assi disposte in modo da formare un ripiano… Sull’altro dosso, non vigilato dai soldati, una folla straripante e incontenibile aveva fatto piazza pulita di tutte le leggende relative alla presenza in quel luogo di esseri soprannaturali, e ne aveva anche distrutta la vegetazione. C’era folla dappertutto. Ovunque l’occhio arrivava, fino all’argine del Sesia e sui tetti delle case, sugli alberi, sul campanile, si vedeva gente: centinaia, migliaia di persone e tutti si scalmanavano, si sbracciavano, nonostante il caldo afoso gli inzuppasse i panni di sudore; tutti correvano in qua e in là, s’adocchiavano tra maschi e femmine, masticavano semi di zucca o mangiavano grosse fette d’anguria, tutti facevano baccano con le raganelle o con i barattoli. Tutti festeggiavano quel giorno di felicità, in cui la bassa si liberava d’una strega che era la causa dei bambini che morivano, e della pioggia che non veniva, e del caldo, e dell’estate che non si decideva a finire…
«Maledetta strega! Devi bruciare! A morte! Al rogo!»
S’era fatto tardi. Il sole rosso, fermo sull’argine del Sesia, accendeva l’orizzonte e vi si rifletteva, riverberandosi nei vapori terrestri con quel particolare fenomeno di rifrazione che fa dire agli abitanti di questi luoghi: «Quand al sul al varda indré, acqua a secc al dí adré», quando il sole guarda indietro l’indomani pioverà a secchi; in un tramonto melodrammatico e teatrale come solo in Italia sono i tramonti di settembre: ricco di colori squillanti, di scenari pittoreschi, di abissi di luce, di malinconia e di poesia. Mastro Bernardo, però, tra le sue perfezioni non aveva quella d’essere un contemplatore di tramonti; o, se anche l’aveva, non avrebbe potuto esercitarla quella sera, per mancanza di tempo. Staccò di sella una borsa di cuoio da flebotomo (aiutante chirurgo) in cui teneva alcuni ferri e alcune cose della sua arte; prese la strega per un braccio e un po’ la spinse un po’ la guidò fino in cima al dosso, dove i cavalieri di San Giovanni Decollato, in brache nere e mantelletta bianca con la croce, presidiavano il patibolo; si fermò là sotto. Accanto a lui, pallidissima, con gli occhi spalancati, Antonia guardava attorno e non vedeva niente, sentiva soltanto il cuore che le rimbombava nel petto e le faceva pulsare il sangue sulle tempie, fino dentro le orecchie: bum, bum, bum… «Prima di compiere questo ufficio» disse il boia, inchinandosi davanti alla ragazza, «a cui mi hanno delegato la volontà di Dio e la giustizia degli uomini, ti chiedo umilmente di perdonarmi.» Le labbra di Antonia si mossero, ma lei non disse nulla. Si sentì invece dal paese la voce di don Teresio che stava uscendo di chiesa con la processione e aveva incominciato a cantare, anzi per meglio dire: a gridare, le litanie della Madonna; si sentì e poi si vide la folla straripante dei fedeli che muovevano dalle case verso il dosso, attraverso i campi. Infine, si vide la processione che usciva dal paese, sulla strada del do...

Indice dei contenuti

  1. La chimera
  2. Copyright
  3. Premessa: Il nulla
  4. Capitolo primo: Antonia
  5. Capitolo secondo: L’uovo
  6. Capitolo terzo: Rosalina
  7. Capitolo quarto: La bassa
  8. Capitolo quinto: Don Michele
  9. Capitolo sesto: I fratelli cristiani
  10. Capitolo settimo: Zardino
  11. Capitolo ottavo: Gente di risaia
  12. Capitolo nono: La tigre
  13. Capitolo decimo: Don Teresio
  14. Capitolo undicesimo: Il Caccetta
  15. Capitolo dodicesimo: I Corpi Santi
  16. Capitolo tredicesimo: Roma
  17. Capitolo quattordicesimo: Biagio
  18. Capitolo quindicesimo: Il pittore di edicole
  19. Capitolo sedicesimo: La Beata Panacea
  20. Capitolo diciassettesimo: I lanzi
  21. Capitolo diciottesimo: L’ultimo inverno
  22. Capitolo diciannovesimo: Il processo
  23. Capitolo ventesimo: I testimoni
  24. Capitolo ventunesimo: La sposa
  25. Capitolo ventiduesimo: Il camminante
  26. Capitolo ventitreesimo: I due inquisitori
  27. Capitolo ventiquattresimo: La tortura
  28. Capitolo venticinquesimo: Il porco
  29. Capitolo ventiseiesimo: La prigione
  30. Capitolo ventisettesimo: L’ultimo viaggio
  31. Capitolo ventottesimo: La sentenza
  32. Capitolo ventinovesimo: I Paratici
  33. Capitolo trentesimo: La festa
  34. Congedo: Il nulla
  35. Appendice: Perché il Seicento
  36. Indice