Il signore del falco
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Il signore del falco

  1. 480 pagine
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Il signore del falco

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Milano, 1226. Dal canale della Vettabbia, affiora il cadavere di una donna: il suo corpo reca i segni di un parto recente, ma del bambino non c'è traccia. Diciassette anni dopo, l'abate di San Simpliciano, Arnolfo da Sala, messo in allarme da un sogno ricorrente e da sospetti mai sopiti, incarica frate Matthew di indagare su quel misterioso delitto. Milano è una città sconvolta dalla caccia agli eretici e stremata dal conflitto con Federico II: un crocevia di passioni politiche e corruzione, di lotte di potere e segreti inconfessabili. Nel suo percorso alla ricerca della verità, Matthew incrocia il proprio cammino con il medico ebreo Isaac, con sua figlia Rachele e con lo stesso imperatore Federico. Ma è solo l'incontro con Guglielma la Boema, controversa figura di veggente su cui si allungano le ombre dell'Inquisizione, a lasciare un segno indelebile sulla sua coscienza: è lei a indicargli la strada per il compimento della sua missione. Un romanzo avvincente, che mescola con sapienza la storia con invenzioni narrative di sorprendente realismo.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2015
ISBN
9788858680223

Capitolo 1

Milano, 1243
L’acqua del fossato rifletteva il disegno delle mura, rendendole tremule nello scorrere della corrente. Non lontano dal ponte che immetteva in città attraverso la Porta Comacina, le possenti ruote di un mulino da grano affondavano i loro meccanismi in una roggia defluente: il portico della grande costruzione a due piani era ingombro di persone che entravano e uscivano, reggendo sulle spalle grandi sacchi rigonfi. Qualche oca correva starnazzando tra i carri fermi lungo la sponda, disturbando la quieta attesa dei cavalli da tiro e dei muli.
Mentre osservava stupito quanto brillante fosse il colore dell’erba anche sui terraggi a ridosso delle mura, frate Matthew si inoltrò lungo il ponte. Giunto a metà della lieve pendenza, si fermò a considerare l’ampiezza del fossato: non doveva essere meno largo di trenta braccia e appariva anche piuttosto profondo. La corrente, vigorosa e limpida, trasportava, a tratti, branchi di pesci che nuotavano appena sotto il pelo dell’acqua.
«Allora, frate, ti sposti o no? Non vedi che il carro non passa se stai lì a guardare le rane?!»
Matthew si voltò di scatto, giusto in tempo per evitare lo zoccolo scalciante di un vecchio cavallo spelacchiato che trainava un carretto carico di legname: l’uomo che lo conduceva, rosso in volto, lo stava fissando con aria minacciosa. Il frate farfugliò delle scuse e percorse in fretta i pochi piedi che lo separavano dallo slargo che si apriva davanti alla porta. Chiusi fino alla metà superiore da pesanti saracinesche ferrate, i fornici d’ingresso si appoggiavano a due alte torri di pietra, che interrompevano massicce la cerchia delle mura. Una decina di guardie formavano due capannelli ai lati della porta: sebbene i loro occhi scrutassero attenti il passaggio di uomini e merci, i loro volti apparivano rilassati e le loro voci pacate.
Frate Matthew superò l’entrata, voltandosi a guardare la fitta serie di impalcature di legno che correva lungo il lato interno delle torri, formando camminamenti sovrapposti: qui altri soldati erano di pattuglia, pronti a difendere la città in caso di assalto. Sebbene avesse varcato già più volte quell’ingresso, Matthew non finiva mai di stupirsi per il continuo andirivieni di persone, carri, cavalli, muli, coinvolti in un’attività incessante e frenetica. Il vociare dei carrettieri si confondeva con quello dei mercanti affacciati alle botteghe, con il latrato dei cani alla catena, con le risate acute delle serve cariche di panieri colmi di cibo. Ogni volta che entrava in città, il frate si soffermava a pensare a quanto più tranquilla fosse la vita a San Simpliciano, il monastero che lo ospitava da un po’ di tempo. L’edificio era appena fuori dalle mura, a un tiro d’arco dalla Porta Comacina e anche là, come qui, le giornate erano scandite dal lavoro: i monaci e i loro fattori si occupavano del funzionamento dei mulini, delle bestie da allevare, della tosa della lana, di semine e innesti, dei ponti da costruire sopra le rogge, delle strade da coprire con la ghiaia. Eppure, nonostante il fervore operoso delle persone, l’aria, gli odori, i rumori erano quelli del contado: era stata proprio questa atmosfera di pace, rassicurante e simile ai ritmi che Matthew aveva vissuto per tanti anni nel suo originario monastero di St Albans nella lontana Inghilterra, a convincerlo a fermarsi a Milano. In tutti i monasteri che lo avevano accolto lungo il suo viaggio dalla valle Augusta alla pianura la diffidenza verso di lui si era manifestata in modo più o meno esplicito, facilitata forse anche dal clima di sospetto che, in quegli ultimi anni, avvolgeva tutti gli stranieri. Troppe erano state le battaglie tra l’imperatore Federico e i signori di quelle terre fertili e ricche, perché gli abitanti e anche gli stessi religiosi si potessero fidare di chiunque parlasse un altro idioma: ogni forestiero, perfino un frate, avrebbe potuto essere una spia mandata dal legato pontificio o dall’imperatore stesso per conoscere piani, trame e tradimenti. Matthew, che pensava di aver già vissuto un tempo lunghissimo della sua vita a doversi districare fra strategie e accadimenti voluti da altri, si era stupito nel constatare la difficile condizione della gente che popolava le terre che si era trovato ad attraversare. Quanto più limitate e semplici erano state le schermaglie tra i feudatari della valle Augusta, a confronto di questa infinita e tormentata guerra di pianura che vedeva opposti l’imperatore, la Chiesa di Roma e i governi delle città! Frate Stephen, camerario presso l’Hospitale Scotorum, vicino a Vercelli, dove Matthew si era fermato durante l’inverno precedente, aveva passato molte ore a spiegargli le ragioni di quel conflitto, ma, nonostante i suoi sforzi, non tutto gli era ancora chiaro. Perché il papa scomunicava l’imperatore, perché alcune città lo appoggiavano mentre altre lo contrastavano, che ruolo poteva mai avere la volontà di Dio in tutte quelle dispute che generavano inutili carneficine? Eppure Federico, a quanto gli avevano detto, si era dimostrato un sovrano liberale, amante delle lettere e dell’arte e promotore di editti magnanimi: com’era possibile, dunque, che avesse contro addirittura il pontefice? L’abate di San Simpliciano, Arnolfo da Sala, per conto del quale stava entrando in città, aveva tentato di illustrargli la particolare situazione di Milano: questa gente, gli aveva detto, si sente libera e vuole essere senza padroni. Il Comune era nato per questo, tanti anni prima, e ora i milanesi non avrebbero tollerato il giogo di un nuovo imperatore: era stato sufficiente aver sperimentato già una volta la penosa sottomissione a un altro Federico che, quasi un secolo prima, aveva raso al suolo la città, imponendo il proprio potere con la forza. Anche la Chiesa, aveva aggiunto Arnolfo, aveva avuto e continuava ad avere la sua buona parte in queste dispute: il papa non nutriva minori mire su tutta l’Italia di quante ne avesse l’imperatore, mentre la chiesa metropolita di Milano, per parte sua, cercava di barcamenarsi, con lo scopo preciso di salvaguardare la propria autonomia. Era ovvio pensare che, in questa perenne situazione di conflitto, fossero sempre i più miseri a patire: frate Matthew aveva sentito di contadini strappati alla loro terra per essere mandati a combattere contro questo o quel nemico, di interi villaggi dati alle fiamme, di donne e bambini uccisi barbaramente, di frati e preti in fuga verso altri monasteri. E ora, in un momento tanto delicato, l’abate di San Simpliciano aveva incaricato proprio lui, umile frate inglese, dello svolgimento di una missione riservata e complessa: si era giustificato affermando che, appunto per essere forestiero e quindi al di sopra di ogni sospetto di appartenenza a questa o quella fazione, avrebbe potuto indagare, più discretamente di chiunque altro, sulla vicenda che lo preoccupava. Quanto al fatto di poter essere scambiato per una spia, l’abate lo aveva rassicurato: non essendo le vicende da inquisire legate alla politica, ma trattandosi sostanzialmente di un episodio privato, nessuno avrebbe potuto sospettare alcunché.
Mentre andava rimuginando con amarezza su quanto gravoso fosse il voto di obbedienza e come questo avesse pesantemente segnato gli ultimi due anni della sua vita, Matthew fu quasi investito da un ragazzino che correva a perdifiato nella sua direzione: lo inseguiva, urlandogli dietro improperi coloriti, una popolana inviperita.
«La borsa dei soldi, maledetto... mi ha rubato la borsa dei soldi! Prendetelo, per Dio, prendetelo quel figlio di puttana!...»
Le grida della donna si confondevano con il più generale frastuono: il frate si voltò per vedere dove fosse finito il ragazzo, ma non lo vide più, scomparso probabilmente in uno dei tanti vicoli che attraversavano la città. Malgrado il suo furto non fosse da giustificare, Matthew sorrise tra sé, contento che il piccolo furfante non fosse stato agguantato: l’espressione che aveva visto dipinta sul volto della donna non prometteva nulla di buono e, nei panni del ladruncolo, lui stesso si sarebbe dato a una fuga precipitosa.
Sotto i portici che seguivano la via per tutta la sua lunghezza si andavano infittendo botteghe e bancarelle: pere, mele, verdure, polli, forme di formaggio, botticelle di vino, pezze di lana, stoviglie di coccio, coltelli, sacchi di sabbia, fascine di legna, e quant’altro potesse tornare utile alle necessità della vita quotidiana erano esposti sui banchi, all’attenzione dei compratori che affollavano la strada. Mentre la calca si addensava verso il Broletto Nuovo, dove era diretto, osservò che l’aspetto delle persone che incontrava andava variando: mescolati a popolani, facchini, mercanti e servitori, altri personaggi più riccamente abbigliati si muovevano tra la gente. Incuranti della polvere che i loro abiti raccoglievano strusciando al suolo, passeggiavano a piccoli gruppi e parlavano fittamente tra loro, sebbene il frastuono circostante non permettesse di cogliere il senso dei loro discorsi. Il frate, che, stretto tra la folla camminava a fianco di una coppia di uomini, udì qualche frammento della loro conversazione: dalle parole colte a malapena, gli parve di capire che si trattasse di un notabile e di un ecclesiastico. Le loro vesti non erano dissimili: sopra il guarnello di tessuto fine, la tunica di panno leggero era trattenuta in vita da una cintura di cuoio, impreziosita da rilievi in argento; entrambi indossavano calze suolate e portavano sulle spalle un mantello di seta. Soltanto una piccola croce d’argento appesa al collo, e quasi invisibile tra le pieghe abbondanti della veste, identificava uno dei due come uomo di chiesa. Mentre il frate si chiedeva per quali motivi molti preti di Milano avessero preferito all’abito talare le apparenze vestimentarie dello stato laicale, i due uomini si fecero incontro a una donna che avanzava in senso opposto. Elegantissima e altera, indossava una lunga veste di seta ricamata, le cui maniche, segnate in tutta la loro lunghezza da una fila di maspilli d’argento, erano talmente strette da non permetterle alcun movimento di braccia: una preziosa acconciatura di lino candido le fasciava morbidamente il capo, lasciando sfuggire qua e là maliziosi riccioli biondi. Una serva giovanissima la seguiva dappresso, mantenendo lo strascico della veste sollevato da terra. I due uomini si fermarono davanti a lei e, dopo essersi inchinati, presero a parlarle in modo ossequioso. Matthew, incuriosito, avrebbe volentieri indugiato ad ascoltare, ma fu sospinto inesorabilmente in avanti dal procedere della folla. Dalla quantità di gente che percorreva le vie, si sarebbe detto che, quel mattino, tutti i milanesi si stessero dirigendo verso il centro della città. Evitando per un soffio di finire sospinto dentro la vasca di pesci vivi che un mercante esponeva fuori dalla sua bottega, il frate giunse finalmente in vista del Broletto.
«Vuoi un po’ di compagnia, fraticello? Guarda che sono brava e per gli uomini di chiesa faccio un prezzo speciale...»
Matthew si sentì sfiorare la spalla nello stesso istante in cui udì quella voce roca e sensuale: voltatosi di scatto, si vide di fronte un viso pesantemente imbellettato, contornato da una folta chioma rossiccia. La prostituta sorrideva, rigirando fra le labbra semiaperte la punta della lingua: il seno, quasi del tutto scoperto, sporgeva rotondo e sodo dalla profonda scollatura della veste. Il frate arrossì e scosse la testa in un gesto di diniego: la donna, che non dimostrava più di vent’anni, gli fece scivolare delicatamente la mano lungo la tonaca, in una accennata carezza lasciva poi, continuando a sorridere, si voltò verso un altro possibile cliente. Non era la prima volta che Matthew riceveva questo tipo di profferte: Milano pullulava di prostitute che esibivano la loro merce ad ogni angolo di strada. L’abate gli aveva detto che il loro numero era considerevolmente aumentato da quando era in corso la guerra con l’imperatore: le donne erano giunte anche dal contado, dopo aver subito le scorrerie degli eserciti sui loro campi, ed erano andate ad ingrossare le fila delle meretrici già presenti in città; inoltre, il gran numero di soldati che di continuo si avvicendavano dentro e fuori Milano aveva favorito il crescere di quegli squallidi commerci.
Come sempre dopo ognuno di questi incontri, Matthew provava un’ansia profonda: il suo pensiero correva a Marthine, che aveva visto per l’ultima volta a Rochester, quasi due anni prima, nella stessa miserevole condizione. Chissà se era fuggita, chissà se era riuscita a sottrarsi a quella vita di abiezione? Incolpevole vittima di una situazione assurda, la donna aveva dovuto lasciare il suo villaggio, colpita da un’infamante accusa di stregoneria e si era rifugiata in una città dove nessuno la conosceva: qui, non avendo altro mezzo di sostentamento, era stata costretta a prostituirsi, per non morire di fame. Quella stessa accusa aveva causato l’uccisione di un’altra innocente, Mary, che Matthew, nella sua pochezza, non era stato in grado di salvare. Sebbene fosse passato tanto tempo, il frate non riusciva a spogliarsi del suo senso di colpa che, lungi dall’affievolirsi, di tanto in tanto si ripresentava accresciuto e straziante.
Mentre andava rimuginando questi pensieri, Matthew oltrepassò la Porta Cumana, che immetteva nel Broletto Nuovo: qui, sovrastanti il brusio della folla, si levavano stentoree le voci di due banditori del comune che, issati su un panchetto allestito davanti al palazzo, declamavano a turno i consueti divieti che la cittadinanza era tenuta a rispettare.
«...e inoltre si ordina che nessun uomo giochi o presti denaro per giocare alla biscazza né ad altro gioco equivalente, sotto pena di sessanta soldi. Si impone altresì che qualunque altro gioco considerato come lecito sia vietato di notte, nelle strade, nelle taverne o in ogni altro luogo, potendosi esso svolgere soltanto nelle ore del giorno. Per quanto concerne i delitti, si stabilisce che qualunque persona, di qualunque sesso, purché maggiore di dodici anni, compia furto di cose che valgano più di sei denari, pagherà ammenda di venti soldi. Chiunque prenderà il ladro e non lo consegnerà all’arciprete o al suo messo, sarà multato di sessanta soldi...»
Apparentemente incurante delle annoiate voci dei banditori, la folla proseguiva i suoi traffici: sotto l’enorme portico che costituiva il piano terreno del palazzo comunale, mercanti riccamente vestiti contrattavano fra loro, mescolati a notai e ufficiali giudiziari, provenienti dalle contigue carceri della Malastalla. Sei cavalli, bardati con le insegne del podestà, erano legati ai pilastri che reggevano gli archi del portico, segno che in quel momento nella sala superiore si stava svolgendo una riunione di notabili.
Gli occhi di Matthew si soffermarono sul rilievo di pietra che, una ventina d’anni prima, era stato posto sulla facciata del palazzo, dedicato al podestà che aveva dato inizio alla costruzione del Broletto. L’uomo era raffigurato a cavallo, in severa attitudine guerresca: un’iscrizione sottostante lo identificava in Oldrado da Tresseno, sottolineandone l’importanza come persecutore di eretici. «Catharos, ut debuit, uxit» citava l’epigrafe: malgrado il tepore della giornata estiva, il frate rabbrividì, nel leggere quelle parole che, ancora una volta, lo riportavano indietro nel tempo. Anche qui, come in terra di Francia, come nella valle Augusta, come ovunque ormai, si parlava di eresie, di uomini e donne torturati e uccisi per essersi discostati dalla fede di Roma. L’abate di San Simpliciano, pur non conoscendo i veri motivi che avevano condotto il frate in Italia fin dalla lontana Inghilterra, gli aveva raccomandato cautela per i contatti personali che avrebbe avuto in città: bastava poco in quei tempi, gli aveva detto, perché qualcuno fosse tacciato di eresia. Gli stessi appartenenti all’ordine degli umiliati avevano subito reprimende da parte del papa, con conseguente imposizione di una nuova regola canonica, poiché le loro abitudini di vita comunitaria erano in odore di eresia: eppure, aveva aggiunto Arnolfo, si trattava di confratelli degnissimi, dediti alle più dure fatiche dei campi nel contado e alla produzione di lana, attività in cui erano maestri. Matthew si era stupito delle parole pietose dell’abate, ben sapendo quanto spesso i vari ordini religiosi fossero in oscuro contrasto l’uno con l’altro. Evidentemente Arnolfo, nonostante i suoi importanti legami con i più svariati membri del potere milanese, era un uomo giusto, capace di distinguere la buona dalla cattiva fede, attento soprattutto alla salute spirituale delle anime che gli erano state affidate. Nutriva una certa diffidenza verso i frati minori, che, incaricati dall’arcivescovo Leone da Perego a perseguire l’eresia, con spietata determinazione cercavano e denunciavano chiunque a Milano fosse sospettato di discostarsi dalle regole della Chiesa di Roma. Allo svolgimento di questo ingrato lavoro inquisitorio collaboravano anche i domenicani: l’abate aveva raccomandato a Matthew di tenersi lontano dai membri di questi due ordini durante lo svolgimento delle indagini, per evitare il rischio di essere coinvolto suo malgrado in maneggi oscuri e pericolosi. Lui, per parte sua, avrebbe invece dovuto continuare a mantenere rispettosi rapporti di collaborazione con gli inquisitori, per non incorrere nelle ire dell’arcivescovo, della cui benevola protezione avrebbe avuto bisogno anche San Simpliciano.
Un improvviso sbuffo di vento, insinuatosi tra le arcate che immettevano nel Broletto, portò alle narici di Matthew un odore intenso: proveniva dalla Porta Orientale, dove era in piena attività il mercato del pesce. Sorridendo tra sé all’idea che quel puzzo arrivasse di tanto in tanto anche tra le sacre navate della vicina Basilica Maggiore, il frate proseguì verso la sua meta. Uscito dal Broletto, si avviò tra i vicoli che lo avrebbero condotto verso il monastero di Santa Maria al Lentasio.

Capitolo 2

Bella si rivestì in fretta. L’odore dolciastro dell’uomo che aveva appena giaciuto con lei impregnava ancora l’aria: nemmeno la stretta porta che metteva in comunicazione il fondo della stanza con l’orto retrostante riusciva a dar sfogo al caldo soffocante di quel primo accenno di estate. Dopo aver rassettato il giaciglio, la donna si sedette sul panchetto e rovesciò sul tavolo una piccola borsa di denari. Detergendosi la fronte sudata, li contò attentamente, impilandoli uno sull’altro; quando fu certa di aver calcolato con precisione il suo guadagno della giornata, ripose le monete in un sacchetto di cuoio, stringendone accuratamente i lacci. Poi, lanciando uno sguardo furtivo verso la porta, ad assicurarsi che nessuno la vedesse, lo nascose in una fenditura del muro, ben celata dalla testata del cassone di legno che conteneva il pagliericcio.
Le tremavano le mani. Come sempre, dopo gli incontri con Lanfranco la assaliva la paura di essere stata riconosciuta, sebbene fossero passati quasi vent’anni e il suo viso di ragazzina avesse assunto le fattezze della donna matura, segnato, per di più, dalla sofferenza. Quel mestiere, esercitato per necessità, le aveva cambiato l’anima, oltre che il corpo. Bella sapeva di essere diventata, anche fisicamente, un’altra persona: eppure, ogni volta, gli occhi duri di quell’uomo la frugavano, la studiavano, come in cerca della risposta a un dubbio che avrebbe potuto generare un sospetto o, Dio non volesse, una certezza. Si era sempre chiesta per quale tortuosa ragione del destino Lanfranco avesse eletto proprio lei, fra le tante prostitute della città, come abituale sfogo per i vigorosi appetiti che, malgrado l’età non più giovanissima, nutriva ancora. Anche se le sue visite non andavano soggette a scadenze fisse, erano passati ormai quattro anni da quella prima volta in cui, incontrandola nei pressi del Broletto in attesa di clienti, l’uomo l’aveva abbordata. Fissandola con curiosità crescente, le aveva chiesto il suo nome. «Bella» aveva risposto. «Bella e poi?» aveva insistito lui con tono inquisitorio. «Bella e basta, signore» aveva replicato dura, mentre i suoi occhi ingaggiavano una sfida con quelli del suo interlocutore. Lui non aveva indagato oltre e l’aveva accompagnata nella sua casupola, incastrata tra molte altre, appena al di fuori delle mura, oltre la Porta Romana. Lei non lo aveva riconosciuto subito. Anche il suo volto portava i segni degli anni: le guance si erano imbolsite, conferendogli una espressione mansueta, smentita, tuttavia, da frequenti lampi di ferocia nello sguardo. Era stata proprio una di quelle occhiate, scoccata all’atto del pagamento di una delle sue prestazioni, ad averle fatto finalmente capire chi quell’uomo le ricordasse. E con la memoria era venuta la paura, trasformatasi in terrore quando, in occasione di un successivo incontro, era riuscita a farsi dire il nome della sua famiglia. Da allora, aveva vissuto con un’inquietudine crescente, con l’angoscia continua che, prima o poi, anche lui avrebbe ricordato: tuttavia, non era stato possibile evitarne la compagnia che, al contrario, era diventata un’opprimente consuetudine.
Lanfranco Calgario era stato l’assassino di Caterina, la sua padrona.
Diciassette anni prima, Bella non era che una giovanissima serva di casa Gisalbertini, a Calepio. Quando, due anni dopo la morte della madre, Caterina si era invaghita del giovane e prestante pronipote dell’arcivescovo di Milano, che frequentava con regolarità il palazzo di famiglia, lei era già la sua domestica personale. Aveva seguito con apprensione il protrarsi di quella storia, temendo future possibili conseguenze, che, di fatto, si erano verificate. Il padre di Caterina, prostrato per la scomparsa della moglie, si era ammalato e, in capo a sei mesi era morto. La giovane si era ritrovata sola: suo fratello Gerardo era partito l’anno prima per la Lomellina, al seguito di una spedizione contro i Pavesi, e non aveva più fatto ritorno. Caterina, troppo giovane e inesperta per raccogliere su di sé la responsabilità di un’intera casata, aveva a lungo rimandato le decisioni da prendere riguardo al palazzo di famiglia e alle terre della proprietà. Sopraffatta da troppi lutti, aveva cercato rimedio al dolore tra le braccia avide di Lanfranco che, nel giro di qualche mese, l’aveva messa incinta. Bella ricordava ancora la gioia trepidante sul viso della sua padrona quando l’aveva informata del suo stato, raccomandandole il segreto con chiunque, fino a dopo la nascita del bambino. Lanfranco, aveva aggiunto, l’avrebbe sposata l’anno successivo, al suo ritorno da Genova, dove, insieme ad altri notabili di Milano, stava per recarsi in qualità di ambasciatore, a definire i termini della pace tra quella città e Alessandria, in guerra tra di loro fino a pochi mesi prima.
In attesa del suo ritorno, Caterina aveva affidato il palazzo e la conduzione delle terre a Montenario Goldanica, il notaio di suo padre, incaricandolo di stipulare dei contratti di livello con la famiglia dei Bernat...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prologo
  4. Capitolo 1
  5. Capitolo 2
  6. Capitolo 3
  7. Capitolo 4
  8. Capitolo 5
  9. Capitolo 6
  10. Capitolo 7
  11. Capitolo 8
  12. Capitolo 9
  13. Capitolo 10
  14. Capitolo 11
  15. Capitolo 12
  16. Capitolo 13
  17. Capitolo 14
  18. Capitolo 15
  19. Capitolo 16
  20. Capitolo 17
  21. Capitolo 18
  22. Capitolo 19
  23. Capitolo 20
  24. Capitolo 21
  25. Capitolo 22
  26. Capitolo 23
  27. Capitolo 24
  28. Capitolo 25
  29. Capitolo 26
  30. Capitolo 27
  31. Capitolo 28
  32. Capitolo 29
  33. Capitolo 30
  34. Capitolo 31
  35. Capitolo 32
  36. Capitolo 33
  37. Capitolo 34
  38. Capitolo 35
  39. Capitolo 36
  40. Capitolo 37
  41. Capitolo 38
  42. Capitolo 39
  43. Capitolo 40
  44. Capitolo 41
  45. Capitolo 42
  46. Capitolo 43
  47. Capitolo 44
  48. Capitolo 45
  49. Capitolo 46
  50. Capitolo 47
  51. Capitolo 48
  52. Capitolo 49
  53. Capitolo 50
  54. Capitolo 51
  55. Nota dell’autrice
  56. Ringraziamenti
  57. Indice