L'italiano in 100 parole
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L'italiano in 100 parole

  1. 494 pagine
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L'italiano in 100 parole

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Quante volte al giorno usiamo la parola "sì"? Quanti di noi sanno che si tratta di un termine fondamentale per la storia della nostra lingua, da quando Dante battezzò l'italiano la "lingua del sì"? E quanti conoscono la storia di "darsena", "magazzino" e di tutti gli altri arabismi presenti nell'italiano? Anche se spesso non ce ne rendiamo conto, la lingua che usiamo ogni giorno è il frutto di un lungo percorso ricco di sorprese e di conferme. In questo libro il linguista Gian Luigi Beccaria ci guida attraverso le 100 parole - da "retorica" a "mercante", da "umanista" a "romantico", da "ciao" a "caffè", da "mafioso" a "azienda" - che hanno fatto dell'italiano e degli italiani quello che sono oggi. È un affascinante viaggio nella nostra lingua, ma anche una storia delle idee che, nel corso dei secoli, intorno ad alcune parole si sono consolidate e diffuse, diventando il "materiale mentale" degli uomini e della loro epoca. Perché, come ci ricorda Beccaria, "un insieme di parole contribuisce a sistemare il modo di pensare e percepire la realtà. È un mosaico che descrive simultaneità, incroci e convergenze, ricostruendo l'universo intellettuale di una generazione".

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2015
ISBN
9788858680483

1

Sao ko kelle terre

L’uso scritto della lingua italiana nasce oltre mille anni fa, non nella voce di parlanti che non sanno il latino e si esprimono nella loro lingua di tutti i giorni, ma formalizzato, burocratico, in un testo ufficiale, rituale, e quasi solenne.1 Il primo documento in lingua volgare è il Placito capuano, atto notarile redatto in latino a Capua nel marzo 960, dove si legge:
Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte S(a)nc(t)i Benedicti.
(Mi risulta che quelle terre, secondo i confini che qui sono stati descritti, trenta anni le ha possedute l’Abbazia di San Benedetto).
I monaci dell’abbazia vogliono definire la proprietà delle terre di loro possesso, e fanno convocare tre testimoni. Ripetendo la stessa formula, pronunciata in volgare, i tre testimoniano quanto a loro consta, che cioè l’abbazia è proprietaria da trent’anni di quelle terre.
La formulazione in volgare è richiesta non perché il notaio intenda riferire per iscritto, in modo fedele, ciò che i testimoni dicono per dichiarazione spontanea. Essi difatti non rilasciano una dichiarazione con parole loro, ma ripetono una formula concordata prima, per rispettare un’esigenza giuridica e ufficiale. La formula pronunciata ha una sua componente tecnica: sao (come in altre formule della stessa epoca attestate in documenti dello stesso genere: Placito di Sessa Aurunca, Placito di Teano) non significa semplicemente ‘so’ ma ‘mi consta’, e parte (Sancti Benedicti) ha il significato tecnico di ‘parte in causa’ (come in parte civile, controparte eccetera).
Il nostro volgare, sin dalla sua prima documentazione, segna una propria identità nella scrittura, non per iniziativa di analfabeti, ma «a opera di personaggi alfabetizzati, che percepiscono concretamente le differenze tra latino e volgare».2 Predestinazione, premonizione? Sarà il destino della nostra lingua: una lingua di cultura che con largo anticipo prefigura la vocazione a impieghi formali alti.
La storia della nostra lingua sarà accompagnata per secoli da una marcatura formale molto evidente.

2

Laudare

«Laudato si’ mi Signore…». È l’inizio del Cantico delle creature di san Francesco, il più antico componimento poetico dell’area italiana di cui si conoscano l’autore e la data di composizione (1224-1226). Accanto al documento ufficiale, dunque, un canto di lode che riprende lo schema della poesia biblica (il Cantico dei Cantici). In particolare rispecchia la latinità dei Salmi (Salmo 148: «laudate eum, sol et luna, laudate eum, omnes stellae et lumen» eccetera) e genericamente biblica («Altissimu onnipotente bon Signore» da Ecclesiaste 1, 8: «Unus est Altissimus Creator omnipotens») ed evangelica («nullu homo ene dignu te mentovare» da Matteo 3, 11: «non sum dignus vocari filius tuus») che intriderà non solo il testo di Francesco ma molta parte delle opere volgari a venire. I Salmi, a cui evidenti indicatori (laude, laudato, aere, nubilo, tribulatione, radiante, sustenta, sustentamento, clarite, flori, gloria, splendore, dignu, iocundo, humile) rimandano in quanto modello di riferimento del Cantico, per l’aspetto anche grafico e fonetico, erano nel Medioevo un testo popolare, usato anche come «lo strumento primo dell’apprendimento del latino e della scrittura: essi venivano sistematicamente mandati a memoria attraverso una continua, insistita esercitazione che durava lunghi anni, ed erano utilizzati come libro di scrittura elementare».1
Francesco scriveva in latino. Lo vediamo negli unici suoi autografi, una lettera a frate Leone, conservata nel Capitolo della Cattedrale di Spoleto, e la benedizione a frate Leone, con le lodi di Dio sull’altra pagina della pergamena. A questi testi era delegata certamente una funzione magico-sacrale: la pergamena che porta la benedizione «reca segni di una piegatura in quattro, perché, come ci dice Tommaso da Celano, era destinata a esser portata indosso fino al giorno della morte per fugare ogni tentazione».2 Ciò rientra nella fiducia riposta nella parola, che tra l’altro Francesco crede contribuisca a comporre il nome di Dio sia in bocca dei cristiani sia in bocca dei pagani (il suo già citato biografo, Tommaso da Celano, ricorda che un confratello gli chiese una volta perché raccogliesse perfino gli scritti dei pagani e Francesco gli rispose che tutte le lettere sono buone a comporre il nome di Dio e che «bonum quoque quod ibi est non pertinet ad paganos neque ad aliquos homines sed ad solum Deum cuius est omne bonum», ogni bene che si trova negli uomini, pagani o no, va riferito al solo Dio, fonte di qualsiasi bene).
Non era, dicevamo, consuetudine di Francesco scrivere in volgare. L’uso del volgare letterario era difatti in quegli anni ancora del tutto eccezionale (alla corte di Federico II si comincerà a poetare in volgare alcuni anni dopo la morte di Francesco). Francesco propendeva per il latino o per la lingua d’oïl: «Quando la dolcissima melodia gli ferveva nel petto, si manifestava all’esterno con parole francesi, e la vena della divina voce sussurrante, che il suo orecchio percepiva furtivamente, traboccava in giubilo alla maniera francese» (ancora Tommaso da Celano: «Dulcissima melodia spiritus intra ipsum ebulliens, exterius gallicum dabat sonum et vena divini susurri quam auris eius suscipiebat furtive, gallicum erumpebat in iubilum»). Francesco usa il volgare soltanto una volta, nel Cantico delle creature, quando sta appressandosi alla morte (quello è l’ultimo anno, o l’ultimo biennio, della sua vita), ed è tormentato da malattie gravi e dolorose. È totalmente cieco. Vuole dire qualcosa di essenziale, dare un’ultima ammonizione, esortare e pregare rivolgendosi ai suoi umili confratelli, quando già si è appartato dalla vita di un movimento che sta procedendo ormai su strade divergenti dalle intenzioni originarie.
La storia della nostra lingua comincia dunque con parole burocratiche-ufficiali e con parole di lode, non prerogativa soltanto della sfera religiosa, ma tratto dominante della poesia in lode di «donne della salute»: pensiamo naturalmente allo Stil nuovo, a Dante, che del tema della lode farà il motivo centrale per esempio della Vita nuova. In Guinizzelli il tema sarà attuato, secondo il modello della comparazione del Cantico dei Cantici, «mediante l’analogia agli spettacoli naturali più eletti»: «Io voglio del ver la mia donna laudare/ed asembrarli la rosa e lo giglio: […]».3

3

Rettorica

L’uso della lingua guidata dalla retorica (intesa come arte del discorso persuasivo) è un aspetto centrale della vita civile e politica del Duecento e del Trecento. Grande rilievo è riconosciuto al maneggio corretto ed efficace della parola, alla retorica come arte persuasiva, e insieme come “arte del rettore”, arte di chi governa (perciò era chiamata rettorica).1 Fondamentale dunque l’aspetto “civile” della rettorica («civile scienzia» la disse Brunetto). Le scuole di retorica (di grande prestigio quella di Bologna) hanno un ruolo determinante nella formazione dei ceti amministrativi del Comune. Sin dal XIII secolo, negli usi ufficiali si presta particolare attenzione all’eleganza stilistica applicata al volgare, in dipendenza dai dettami del latino. Anche la redazione di un atto pubblico, la stesura di una lettera d’affari, di una lettera diplomatica, richiedevano esecutori specializzati: esecutori (anzi «dittatori»), esperti epistolografi, perfezionati nelle artes dictandi. Lo erano giudici e notai, cancellieri e segretari, ai quali toccava stendere il «dettato» in forme corrette ed eleganti. La retorica guidava sia l’arte dell’epistolografia sia quella dell’oratoria. Giovanni Villani definì Brunetto Latini «sommo maestro in rettorica, tanto in bene saper dire come in bene dittare». Brunetto aveva nella sua Rettorica (Argom. 1.3) precisato: «Rettorica è scienzia di due maniere: una la quale insegna dire, e di questa tratta Tulio nel suo libro; l’altra insegna dittare», e (Argom. 1.5) «è rettorica quella scienzia per la quale noi sapemo ornatamente dire e dittare», «è scienza d’usare piena e perfetta eloquenzia nelle publiche cause e nelle private».
Un tratto qualificante del «bene dittare» (lo ha mostrato più di mezzo secolo fa Alfredo Schiaffini)2 è la presenza del cursus, vale a dire la ricerca di ritmi mediante il variare l’accostamento di piane e sdrucciole in corrispondenza delle pause e a fine periodo (il cursus planus, costituito da un polisillabo piano seguito da un trisillabo piano; il cursus velox, costituito da un polisillabo sdrucciolo più un quadrisillabo piano; il cursus tardus, costituito da un polisillabo piano e da uno sdrucciolo). Questa chiusura ritmica prende per esempio particolare spicco nel volgare di Guido Faba, professore all’Università di Bologna (dove aveva già operato, all’inizio del XIII secolo, un grande maestro di retorica come Boncompagno da Signa, studioso delle formule da usarsi nella corrispondenza latina). Guido Faba, nei casi fittizi messi a punto nelle lettere e nei discorsi della Gemma purpurea e dei Parlamenta et epistulae (1243 ca.), offre il prototipo della nostra prosa d’arte. Leggiamo nelle sue pagine i primi esempi dell’uso colto e ornato del volgare novello (si veda per esempio la deliziosa lettera in cui uno studente scrive al padre di mandargli subito «pecunia» per pagare le spese per l’università: «scì che in lo çardino in lo quale sono intrato, possa stare e cogliere fructo pretioso»).
Sin dai primordi dunque la nostra prosa volgare mutuava dallo stile alto latino varietà e sottigliezze retoriche, ricercando parallelismi, anafore, ripetizioni, figure etimologiche. Esempi di rilievo offrono le lettere di Guittone d’Arezzo, artefice della prosa letteraria volgare su temi d’impegno, e non soltanto nello stile epistolare. Oppure si pensi all’arte prosatoria messa in opera nel volgare da Guidotto da Bologna (autore del Fiore di Rettorica, 1260 ca.) e da Brunetto Latini, che seppe rendere familiare l’antica precettistica retorica di Cicerone (nella sua Rettorica Brunetto traduce, e con ampio commento, parte del De inventione ciceroniano).
Anche la nostra narrativa nasce tra Due e Trecento sotto il segno dell’importanza primaria conferita all’arte della parola. L’esordio della novellistica avviene con una raccolta asciutta, priva di digressioni: Il Novellino, la più importante raccolta di novelle italiane apparsa prima del Decameron. L’intento è quello di offrire un vasto assortimento di temi che mettano soprattutto in rilievo belle risposte, brillanti, argute e spiritose, grazie alle quali ci si può cavare d’impaccio, o che comunque di per sé danno prova di vivacità e prontezza di spirito. Si legge nel Proemio:
facciamo qui memoria d’alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di belli risposi e di belle valentie […] e chi avrà cuore nobile ed intelligenzia sottile, sì li potrà somigliare, per lo tempo che verrà per innanzi, ed argomentare, e dire.
Per l’importanza data al bel parlare, retorica e letteratura sono strettamente unite sin da questo antico testo. La “parola”, il «parlare» costituiscono il motivo conduttore. L’uomo ha da essere condotto non solo dalla parola di Dio, ma dalla nuova parola che riflette virtù mondane connesse (come si dice nel prologo) con l’«onestade» e la «cortesia» di coloro che hanno «i cuori gentili e nobili». Si sta imponendo una finalità non più esclusivamente etico-religiosa (o soltanto edonistica, come nei fabliaux francesi), ma mondano-pedagogica ed estetica insieme. Comincia a farsi sentire il peso di una nuova cultura urbana. Di fatto queste novelle si propongono in una Firenze sempre più «democratica» e mercantile. Si confronti Il Novellino originario, di fine Duecento, con la vulgata trecentesca: dopo aver raccontato di sovrani e cavalieri le novelle finiscono per intrattenerci anche su popolani e mercanti, offrendoci «un vero e proprio spaccato della società».3
Ci si sta avviando verso l’arte narrativa che raggiungerà il suo culmine col Decameron.

4

I grandi scrittori del Medioevo appartengono per certi versi più all’Europa che a singole nazioni. Dante, poniamo, ha di fronte una Romània con nuclei nazionali già differenziati ma permeata di correnti culturali che passano da un settore all’altro con intensità, correnti che nei secoli successivi subiranno di tanto in tanto delle fasi di arresto. Dante ha un senso forte dell’unità romanza: nel De vulgari eloquentia distribuisce a ciascuna lingua i meriti che le spettano, riconosce l’eccellenza del francese nella prosa e nei romanzi, del provenzale e dell’italiano nella lirica. Sa che ogni lingua ha i suoi «generi» preferiti. Le lingue mostrano le loro peculiarità per l’inclinazione verso generi letterari più che per un qualche genio (come si diceva nel Settecento) nazionale. Ma, se consideriamo meglio il mondo di Dante, e leggiamo il capitolo X del De vulgari eloquentia, ne desumiamo un atteggiamento già «umanistico» quando Dante esprime la preferenza sua per l’italiano, la lingua tra le tre principali romanze più vicina al latino; tant’è – egli scrive – che ne conserva nel «sì» la particella affermativa sic, mentre l’altre l’hanno mutata in oc (il provenzale) o in oïl (il francese). La lingua del «sì» è la «lingua nostra» (anzi, la «favella toscana»), come dirà nella Vita nuova («li primi che dissero [cioè ‘che poetarono’] in lingua di “sì”» XXV, 5); e nel Convivio (I, X, 12) parlerà della «gran bontade del volgare di sì» cui toccheranno sorti felici. Quando Dante nell’Inferno (XXXIII, 80) prorompe nell’amara invettiva contro Pisa la ghibellina, vergogna delle genti che abitano l’Italia, indicherà il nostro come il «bel paese là dove ’l sì suona».

5

Passione

Sono soprattutto le parole di intenso significato spirituale, filosofico, a risentire...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Copyright
  3. Premessa
  4. 1. Sao ko kelle terre
  5. 2. Laudare
  6. 3. Rettorica
  7. 4. Sì
  8. 5. Passione
  9. 6. Fedeli d’amore
  10. 7. Gentile
  11. 8. Angelo
  12. 9. Illustre
  13. 10. Volgarizzare
  14. 11. Pellegrino
  15. 12. Mercante
  16. 13. Arsenale
  17. 14. Plenilunio
  18. 15. Allegoria
  19. 16. Fresco
  20. 17. Otium
  21. 18. Umanista
  22. 19. Stampa
  23. 20. Prospettiva
  24. 21. Accademia
  25. 22. Aureo crine
  26. 23. Rinascimento
  27. 24. Corte
  28. 25. Imitazione
  29. 26. Questione della lingua
  30. 27. Sprezzatura
  31. 28. Signore
  32. 29. Amaca
  33. 30. Ingegno
  34. 31. Inganno
  35. 32. Metafora
  36. 33. Artificio
  37. 34. Capriccio
  38. 35. Etichetta
  39. 36. Pendolo
  40. 37. Cannocchiale
  41. 38. Buon gusto
  42. 39. Gazzetta
  43. 40. Caffè
  44. 41. Pedantismo
  45. 42. Ordine naturale
  46. 43. Illuminato
  47. 44. Fanatismo
  48. 45. Tolleranza
  49. 46. Progresso
  50. 47. Ottimismo
  51. 48. Pubblica istruzione
  52. 49. Lingua comune
  53. 50. Patria/nazione
  54. 51. Analisi
  55. 52. Sensibile
  56. 53. Atmosfera politica
  57. 54. Arioso
  58. 55. Purismo
  59. 56. Classicismo
  60. 57. Antico
  61. 58. Romantico
  62. 59. Sentimentale
  63. 60. Risorgimento
  64. 61. Toscano/italiano
  65. 62. Anello/ditale
  66. 63. Italiano/dialetto
  67. 64. Moschetto
  68. 65. Ciao
  69. 66. Mafioso
  70. 67. Bistecca/cotoletta
  71. 68. Treno
  72. 69. Tram
  73. 70. Automobile
  74. 71. Autista
  75. 72. Il verso è tutto
  76. 73. Futurismo
  77. 74. Avanguardia
  78. 75. Italiano medio
  79. 76. Introverso
  80. 77. Interfaccia
  81. 78. Obliterare
  82. 79. Antilingua
  83. 80. Operatore tecnico
  84. 81. Audience
  85. 82. Digestimola
  86. 83. Paparazzo
  87. 84. Bar
  88. 85. Okay
  89. 86. Morbidità
  90. 87. Andare in tilt
  91. 88. Crescita sostenibile
  92. 89. Convergenze parallele
  93. 90. Contestazione
  94. 91. Cantautore
  95. 92. Azienda
  96. 93. Scendere in campo
  97. 94. Seconda repubblica
  98. 95. Vu cumprà
  99. 96. “Da matti”
  100. 97. “Come dire”
  101. 98. Identità
  102. 99. Paesaggio
  103. 100. Memoria
  104. Note
  105. Riferimenti bibliografici
  106. Indice