Meno internet più cabernet
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Meno internet più cabernet

Il grande spettacolo del progresso tra Michelangelo e Google

  1. 284 pagine
  2. Italian
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Il grande spettacolo del progresso tra Michelangelo e Google

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Che cosa hanno in comune Google e la barriera del suono, gli asini e i calci di rigore, la Cappella Sistina e il regno di Facebook? Apparentemente nulla, ma cambiando prospettiva, e guardando le cose senza preconcetti, se ne può cogliere l'intimo legame, e scoprire che il mondo in cui viviamo non è poi così scontato. In questo viaggio sorprendente per i sentieri tortuosi del progresso umano, sulle tracce dei pionieri che hanno saputo andare oltre il senso comune, Massimo Marchiori ci accompagna lungo l'evoluzione umana, tecnologica ma anche sociale, e le reciproche relazioni, che trovano la propria sintesi nelle pulsioni dell'uomo. Dall'elefante di Internet all'insolita storia della salamandra, dall'algoritmo della carta igienica alla scoperta della vera "mamma di Google", il libro affronta con leggerezza di tono e profondità di argomenti le contraddizioni del mondo reale e di quello virtuale, e le questioni calde della comunicazione del sapere e del futuro del progresso. Un futuro in cui l'uomo, nonostante tutto, è ancora il protagonista.

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Informazioni

Editore
ETAS
Anno
2015
ISBN
9788858680278

1

Il progresso

Il progresso



Progresso è una parola talmente abusata che spesso la diamo per scontata. Come accade di frequente anche per tante altre parole: finiamo con abituarci a pronunciarle, senza pensare a cosa veramente significano. E molte volte, se ci fermassimo un attimo a pensarci su, vedremo come in realtà il loro significato sia molto meno ovvio di quel che sembra.
Che cos’è dopotutto il progresso? Migliorarsi, certo. Il progresso dovrebbe migliorare il mondo. Ma che cosa vuol dire migliorarsi? Vuol dire far stare meglio la gente? E cosa vuol dire far stare meglio la gente? Vuol dire farla felice?

DOVE STIAMO ANDANDO?

Se il progresso equivale alla felicità, allora non è così facile da definire. Potremmo per esempio provare a misurare il progresso in base al reddito medio, o in base al prodotto interno lordo. Ma queste misure fluttuano nel tempo, contrariamente alla nostra idea di progresso che migliora sempre il passato: a seconda del periodo, andiamo avanti o torniamo indietro. Misurare il progresso con i soldi non sembra una buona soluzione, anche perché dopotutto i soldi ci sono da un bel po’ di tempo, e quello che cambia è solo la loro distribuzione. D’altro canto, il famoso vecchio detto popolare “i soldi non fanno la felicità” sembra proprio giustificato: si è visto che il reddito non influisce sulla felicità di vita se non in misura molto piccola, meno del 7%. Perché in effetti è il concetto stesso di felicità a essere sfuggente: e come i soldi, anche altri elementi che sono stati analizzati contano pochissimo. Per esempio l’età, il lavoro, l’istruzione, il posto dove si vive, la razza, sono tutti fattori che incidono sempre in piccolissima parte sulla felicità che compone la vita di un uomo.
Parlare di progresso come felicità è quindi lecito, ma non così semplice. Un aborigeno dell’Africa può essere molto più felice di un europeo che vive in una grande città con un buon reddito. L’aborigeno può non sapere nulla di smartphone, televisori ultrapiatti, rete Internet, e cionondimeno essere più felice di una persona piena di accessori tecnologici di ultima generazione. Quindi, parlare di progresso come felicità è difficile, come lo è cercare di afferrare la felicità stessa.
Niente felicità dunque: dovremo trovare qualche altro modo di intendere il progresso, qualcosa che non sia così sfuggevole, che possa essere definito e misurato. Da questo punto di vista, un’area più sicura sembra quella, per esempio, del progresso tecnologico. La tecnologia migliora sempre, produce meraviglie sempre più avanzate, e in generale avanza la condizione umana. Questo tipo di progresso sembra quindi effettivamente semplice da descrivere, ma in realtà le cose non sono così scontate. Come valutiamo veramente il progresso tecnologico? Misurando lo spessore dei nostri telefonini? Ma non è detto che uno smartphone più avanzato sia meno spesso di un vecchio cellulare. In ogni caso, l’intera varietà delle tecnologie non si riduce a un telefonino. E magari non è neanche detto che il progresso scientifico contribuisca sempre alla felicità. Racconta Pirandello ne Il fu Mattia Pascal:
In un tram elettrico, il giorno avanti, m’ero imbattuto in un pover’uomo, di quelli che non possono fare a meno di comunicare a gli altri tutto ciò che passa loro per la mente. – Che bella invenzione! – mi aveva detto – Con due soldini, in pochi minuti, mi giro mezzo Milano. Vedeva soltanto i due soldini della corsa, quel pover’uomo, e non pensava che il suo stipendiuccio se n’andava tutto quanto e non gli bastava per vivere intronato di quella vita fragorosa, col tram elettrico, con la luce elettrica, ecc., ecc. Eppure la scienza, pensavo, ha l’illusione di render più facile e più comoda l’esistenza! Ma, anche ammettendo che la renda veramente più facile, con tutte le sue macchine così difficili e complicate, domando io: “E qual peggior servizio a chi sia condannato a una briga vana, che rendergliela facile e quasi meccanica?”
Ora, ci sarebbe da dibattere se Pirandello avesse o no ragione. La stessa critica potrebbe essere fatta oggi sostituendo il tram elettrico con Internet, o con gli smartphone, ma non è la parte che ci interessa. La parte più interessante è che, forse senza saperlo, Pirandello ci sta offrendo una possibile definizione di progresso: rendere più facile e comoda l’esistenza. Ma anche questa semplice definizione ha le sue insidie, perché dovremmo definire la facilità e la comodità. Tra facilità e felicità c’è solo una lettera di differenza, e in effetti questi due concetti sono entrambi difficili da afferrare pienamente.
Occorre perciò iniziare questo nostro viaggio sapendo che ci muoviamo su un terreno sconnesso: parliamo di progresso, ma non sappiamo bene né come definirlo né come misurarlo. Per questo può darsi, come diceva Pirandello, che sia solo un’illusione. Un paradosso quindi, scientificamente un vero disastro. Ma quello che possiamo fare è cominciare a esplorarlo iniziando dal progresso tecnologico, con le sue conseguenze per le nostre vite. E dalle sue mille facce estrarre un minimo di senso, che possa almeno darci qualche suggerimento sul nostro presente, e qualche scorcio sulla direzione verso cui il progresso, o la sua illusione, ci sta portando.

IL COLPO DI GENIO

Che cos’hanno in comune l’elenco telefonico di Roma, la quinta sinfonia di Beethoven e I promessi sposi? Apparentemente nulla. In realtà sono tutte espressioni della stessa cosa: l’informazione. Comprendere e gestire l’informazione è stata una conquista non da poco per l’umanità. In un certo senso, è la caratteristica fondamentale del progresso: prendiamo quello che già sappiamo e costruiamo nuova informazione, arricchendo quella precedente, aumentando il livello di complessità.
Ma se il progresso è aumento dell’informazione, viene naturale chiedersi dove possiamo arrivare. C’è un limite? Ci sarà un momento in cui avremo raggiunto lo stadio finale, e potremo dire ora basta, sappiamo tutto, possiamo fermarci? Un momento in cui tutto sarà inventato, tutte le scoperte fatte, tutte le storie già scritte, tutta la musica già composta, dove insomma tutto sarà svelato?
La naturale risposta a questa domanda è no, ed è la bellezza e la dannazione dell’informazione e del destino dell’uomo. La cosa stupenda e terribile allo stesso tempo è che avremo sempre cose nuove da scoprire, da ascoltare, da sapere, da leggere, da inventare, e non avremo mai finito. Non ci sarà mai una generazione talmente fortunata da potersi godere tutto il possibile: quella successiva ne saprà sempre di più. L’unico limite al sapere, verrebbe da dire, è dato dai nostri pensieri. E quanti sono i nostri pensieri? Senza limite, quindi infiniti. Il progresso che non ha mai fine.
Ciononostante, siamo stati indubbiamente bravi a progredire, perlomeno nelle scienze. Perché il problema da affrontare non era per nulla facile: se ci sono infiniti pensieri, infinite forme di conoscenza, infinite cose da sapere, come faccio a gestire tutto questo? Come si gestisce l’infinito?
Il primo passo è stato, possiamo dirlo, un vero e proprio colpo di genio. Prendiamo delle cose che sappiamo fare in quanto uomini, anzi in quanto animali: per esempio, i suoni. Quanti suoni sappiamo fare? Pochi, molto pochi, troppo pochi per gestire l’infinito. Ma ecco l’idea fantastica: usiamo questi suoni come mattoni, come pezzi, e mettiamo più suoni vicino. In altre parole, passiamo di livello: dal singolo suono alle sequenze di suoni. Il senso del suono non è più isolato, ma diventa socialmente complesso: dipende dai suoni che lo precedono ed è collegato ai suoni che lo seguono. E allora, facendo questo salto di livello, quante sequenze di suoni possiamo costruire? Meraviglia delle meraviglie: infinite!
Fatto il salto, ecco che nasce il linguaggio. Ed ecco che dopo, con un altro sforzo, nasce la scrittura, dove ai suoni vengono associati dei simboli, simboli scritti, alfabeti. Poche lettere, per un universo infinito di possibilità. Per esempio, il nostro alfabeto è composto da ventisei lettere. Mettiamoci per comodità anche qualche altro simbolo tipografico, magari tutti i simboli che appaiono su una tastiera. Sempre pochi, circa una settantina in tutto. Con questi simboli, che sono in numero finito, possiamo affrontare il compito immane di afferrare l’infinito. Possiamo codificare informazione, via via aggiungendo a quello che già sappiamo, senza mai avere limite. In pratica abbiamo preso la complessità potenziale dell’infinito e l’abbiamo ricondotta a mezzi infinitamente più piccoli: pochi elementi che possiamo gestire e usare per la nostra corsa verso il progresso.
Dall’infinito al finito, il vero colpo di genio.

ANALOGICO E DIGITALE

Se il progresso è informazione, le prime vere rivoluzioni nella storia umana sono state quindi l’introduzione del linguaggio e della scrittura, che hanno permesso di afferrare una complessità senza limiti e affrontarla con gradualità, generazione dopo generazione. Una rivoluzione appunto. Ma le rivoluzioni non restano isolate: portano a grandi cambiamenti, seguiti da periodi di cambiamenti minori che però man mano si accumulano. Come l’acqua in una diga: possiamo scaricarla, ma alla fine arriva sempre altra acqua, altro progresso che si accumula, finché quella vecchia diga non resisterà più e occorrerà un’altra rivoluzione, che romperà la diga che frenava il progresso.
Così, dopo le rivoluzioni del linguaggio e della scrittura, l’informazione cresce, si accumula, aumenta di livello, finché le dighe non reggono, e c’è bisogno di un’altra rivoluzione: quella digitale.
Il vecchio mondo era analogico, il nostro nuovo mondo è digitale. Tant’è che le parole analogico e digitale sono anche diventate sinonimo di antico e moderno. Lui è analogico, che barba! L’altro sì che è moderno, è digitale! L’uno è ancorato al passato, l’altro è già nel futuro, e cavalca l’onda del progresso.
Parliamo per esempio di telefoni cellulari. Adesso viviamo nell’epoca degli smartphone, della telefonia 4G proiettata verso il 5G. La G sta per Generazione, e se siamo alla quarta/quinta generazione vuol dire che ce n’è anche stata una prima. Negli anni Ottanta c’erano quindi i telefonini di prima generazione, 1G. Erano grandi e scomodi, la batteria pesava, avevano l’antenna che sporgeva (orrore!) dal cellulare, e visti con gli occhi di oggi erano più simili a sgraziati mattoni che a telefoni. Ma il progresso avanza, e ora abbiamo apparecchi di ultima generazione: smartphone connessi alla rete ultraveloci ultrapiatti con schermo touch fotocamera barometro e chi più ne ha più ne metta. Tutto bene dunque, dall’1G siamo passati al 2G, e così via fino al 4G e al 5G: via quei vecchi mattoni, il progresso non si ferma, e con lui l’informazione che avanza.
Ma al di là del fatto che c’è sempre una generazione successiva, alcuni passaggi generazionali sono sempre più importanti di altri. Nel caso dei nostri telefonini, il vero passaggio epocale è stato quello tra la prima e la seconda generazione, tra gli 1G e i 2G. Per certi versi una vera e propria rivoluzione, che ha cambiato tutto il modo in cui l’informazione viene trasmessa e ricevuta. I cellulari 1G erano analogici. I cellulari dai 2G in poi sono diventati digitali. Con enormi vantaggi: tantissime persone ora possono usarli contemporaneamente, e anche navigare in Internet, vedere filmati via web, essere sempre connessi al mondo.
Lo stesso passaggio rivoluzionario da analogico a digitale, a sancire la nuova era tecnologica, è avvenuto in moltissimi altri campi. Per esempio nel cinema, dove invece di girare con la cara vecchia pellicola di cellulosa si è passati a girare in digitale: scene come nel film Nuovo Cinema Paradiso, dove nastri di pellicola cinematografica vengono tagliati con la forbice, e facilmente prendono fuoco, ora risultano già quasi incomprensibili nella nuova era del digitale.
Oltre al cinema, naturalmente, il progresso è entrato direttamente nelle case, davanti ai nostri occhi: con la televisione. La cara vecchia televisione, che ora usa quella tecnologia con due magiche paroline: digitale terrestre. Digitale, sì, perché la prima televisione era analogica, appunto. Come i telefonini, 1G. Poi è arrivato il digitale terrestre, la tv 2G. In questo modo siamo riusciti a passare dai pochi canali che avevamo prima a un mondo dove sono possibili centinaia di canali, senza più problemi di intasamento delle frequenze. Il progresso tecnologico che porta un grande beneficio: un’esplosione di canali, e quindi di informazione. Basta con il mondo paleolitico dove c’erano solo dieci o venti canali, ora i canali sono centinaia, l’informazione si è moltiplicata, la ricchezza dell’offerta televisiva è enorme rispetto al passato. È la magia del digitale che avanza.
La rivoluzione digitale ha quindi cambiato le nostre vite, in tantissimi modi. Il progresso è digitale, il vecchio è analogico. Ma al di là dei cambiamenti benefici che stiamo sperimentando, e al di là degli slogan, cosa vogliono dire veramente analogico e digitale? L’origine delle parole spesso è rivelatrice, ma in questo caso non è utile, almeno apparentemente: analogico deriva dal greco e più o meno significa “discorso simile”; digitale ha radici ancora più travagliate che si possono ricondurre al latino digitus attraverso l’inglese digit, la cifra. Queste spiegazioni di per sé non aiutano molto a capire cosa distingue il moderno digitale dall’analogico. Perché in effetti la spiegazione di questa rivoluzione è più complessa, ed è però del tutto simile ai princìpi che hanno portato alle prime rivoluzioni, quelle del linguaggio prima e della lingua scritta poi. Pensiamo a quello che è successo in quelle rivoluzioni: sono stati creati dei simboli, un numero finito di simboli, per riuscire a gestire l’infinito, la complessità della realtà e dei nostri pensieri. Le prime rivoluzioni informative, in sintesi, sono state questo: riuscire a gestire l’infinito tramite mezzi finiti.
La stessa identica cosa accade nella rivoluzione successiva, quella dall’analogico al digitale. Quando l’informazione è infinita, e quindi infinitamente complessa, cerchiamo di renderla più facilmente gestibile trascinandola nel finito, in un’arena dove possiamo avere successo pur con i nostri limitati mezzi.
Il problema da cui deriva tutto è che la realtà che ci circonda non è per nulla semplice: è un sistema complesso con un grado di complessità essenzialmente infinito. Quindi, se vogliamo ragionare sulla realtà, manipolarla, insomma vivere meglio, dobbiamo affrontare questa infinita complessità, e domarla. Come si era in parte già fatto appunto con il linguaggio e la scrittura, ma a un livello ancora più potente. Pensiamo a cosa succede quando vogliamo misurare qualcosa, per esempio quanto è lungo un oggetto. Una semplice proprietà di un oggetto fisico. Eppure, anche solo lasciando da parte tutte le altre complessità di quell’oggetto, già la lunghezza di per sé è un ostacolo formidabile, avendo potenzialmente infinita complessità. Un oggetto è composto di un certo materiale, che a sua volta ha una componente molecolare, che a sua volta ha una componente atomica, e così via. Come possiamo misurare questa complessità? Avremmo bisogno di tecnologie in grado di penetrare dentro l’infinitamente piccolo, ammesso che si possa fare e che ci sia una fine all’infinitamente piccolo. Le lunghezze sono quindi analogiche, come la nostra realtà.
Eppure, nella realtà di tutti i giorni questo non è un problema: per misurare prendiamo un metro, e misuriamo. E che cos’è un metro? È la versione digitale delle lunghezze. Se non possiamo misurare l’infinitamente piccolo, semplifichiamo, e passiamo a un gestibile finito. Ed ecco che un metro magicamente viene diviso in parti finite, per esempio in millimetri: mille parti finite che fanno un metro, la realtà che viene resa digitale. Questo passaggio, dall’analogico al digitale, comporta così i vantaggi che tutti vediamo: misuriamo con semplici metri, possiamo fare semplici calcoli su quanto grande è un oggetto, quanto grande è una stanza, sapere se un mobile passa per la porta guardando solo il suo foglio informativo, arredare un appartamento sulla carta o al computer prima di comprare cucina e mobili, e così via, fino a tutte le implicazioni sempre più complesse, permesse dall’avere una misurazione finalmente digitale invece che analogica.
Il passaggio dall’analogico al digitale è quindi il naturale completamento del tentativo dell’uomo di afferrare l’infinito e renderlo gestibile, finito. Dal cielo alla terra, dall’infinito divino al finito terreno.
Tornando all’esempio dei cellulari, il loro problema principale è stato sin dall’inizio gestire il suono. Il suono è parte della realtà, e come tale infinito, fatto di infinite modulazioni, ancora più complesso di una singola misura di lunghezza. Ecco quindi che i cellulari iniziano da analogici, perché cercano di gestire il suono in una maniera vicina alla realtà, cioè tentando di copiarlo. Copiano la forma d’onda del suono, la trasmettono con tutta la sua complessità nell’aria, e poi la riproducono. Quando si passa alla generazione digitale, questa complessità viene invece domata: la forma d’onda viene trascinata nel dominio delle cifre finite, ridotta usando l’equivalente del caro vecchio metro, e quindi la sua complessità è ora infinitamente minore. Ed ecco la magia: il suono digitale occupa meno spazio, e posso trasmettere nell’aria molte più telefonate in parallelo. E posso anche memorizzare quel suono, e come il suono anche il video, ed ecco che un film non ha più bisogno di una pellicola di cellulosa, così come una macchina fotografica non ha più bisogno di una pellicola: il tutto viene digitalizzato e quindi compresso, l’infinito che viene ridotto e diventa finito, quindi posso memorizzarlo su dischi, schedine di memoria, trasmetterlo su Internet o anche di nuovo nell’aria, ecco il digitale terrestre, con la sua esplosione di canali, mentre prima le trasmissioni analogiche occupavano troppo spazio.
Accade così che anche questa rivoluzione più moderna, dall’analogico al digitale, è del tutto simile alle altre rivoluzioni dell’informazione, linguaggio e scrittura. La magia del digitale, ancora una volta nella storia dell’uomo, è una rivoluzione che si ripete: spremere l’infinito della realtà, poco digeribile, e dare un succo finito, così rinfrescante per l’uomo, sempre più assetato di informazione.

LO SPAZIO-TEMPO

Siamo agli inizi del ventesimo secolo, nel 1908, e qualcuno è alla guida della sua auto sportiva. Il guidatore è appassionato di motori, gli piace correre, anc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Prologo
  5. 1 Il progresso
  6. 2 La Grande Rete
  7. 3 I sistemi informativi
  8. 4 I sistemi sociali
  9. 5 L’intelligenza
  10. 6 L’Altra Rete
  11. 7 L’Uomo
  12. 8 Oltre i limiti
  13. 9 Il Grande Spettacolo
  14. 10 Meno Internet più Cabernet