Il disagio della libertà (VINTAGE)
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Il disagio della libertà (VINTAGE)

Perché agli italiani piace avere un padrone

  1. 176 pagine
  2. Italian
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Il disagio della libertà (VINTAGE)

Perché agli italiani piace avere un padrone

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Tra il 1922 e il 2011 abbiamo avuto il Ventennio fascista e il quasi-ventennio berlusconiano. Perché? Una risposta possibile è che siamo stati formati dalla nostra storia come un popolo incline all'arbitrio ma indifferente alla libertà, almeno quella vera, faticosa, fatta di coscienza e impegno, diritti ma anche doveri. Sembra che la libertà ci metta a disagio sicché siamo pronti a spogliarcene in favore di un qualunque Uomo della Provvidenza. Un'indagine colta e curiosa, che è anche un appello a ritrovare il senso alto della politica e della condivisione di un destino.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
ISBN
9788858680612
Categoria
Sociology

1

La servitù volontaria

Una domanda che ho sentito ripetutamente porre nelle conversazioni con amici stranieri è come mai gli italiani tengano così poco alla libertà da avervi più volte rinunciato nel corso della loro storia senza eccessive preoccupazioni. A prima vista la questione potrebbe sembrare fuori luogo. Proprio agli occhi di molti visitatori stranieri, il nostro appare come uno dei Paesi dove la libertà abbonda, in certi casi straripa. Molti costruiscono una casa dove sarebbe (sarebbe, condizionale) proibito, molti saltano i semafori perché si annoiano ad aspettare che la luce diventi verde, molti non pagano le tasse perché quei soldi meglio tenerseli, molti parcheggiano dove viene più comodo perché tanto è questione di un minuto, molti piantano enormi cartelloni pubblicitari anche dove rappresentano un pericolo per la circolazione, molti gettano i rifiuti sulla strada, sulla spiaggia, nei boschi, insomma dove capita. Non sono queste altrettante manifestazioni di libertà? Una libertà addirittura sconfinata, come tale sconosciuta ad altri europei? La verità è che il concetto di libertà, anzi la stessa parola «libertà», può avere molteplici accezioni, coinvolge questioni complesse e talora ambigue. Infatti si è cercato infinite volte nel corso dei secoli di dargli una definizione valida una volta per tutte.
C’è tuttavia un elemento comune a tutte queste definizioni, lo stesso cantato con semplicità dal poeta civile Giorgio Gaber su parole del talentuoso paroliere Sandro Luporini: «La libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione». Non sappiamo se Gaber, o Luporini, avessero letto Antonio Gramsci, ma è possibile. Fatto sta che la canzone La libertà ha straordinari punti di contatto con ciò che Gramsci scriveva in Passato e presente sulla cattiva qualità dell’individualismo italiano.
Questo individualismo è proprio tale? Non partecipare attivamente alla vita collettiva [...] significa forse non essere «partigiani», non appartenere a nessun gruppo costituito? [...] Niente affatto. Significa che al partito politico o al sindacato economico «moderni» [...] si preferiscono forme organizzative di altro tipo, e precisamente di tipo di «malavita», quindi le cricche, le camorre, le mafie, sia popolari sia legate alle classi alte.1
È passato poco meno di un secolo da quando Gramsci scriveva queste parole significative, che in un certo senso sono state riprese in un saggio anche da Maurizio Viroli, professore ordinario di Teoria politica a Princeton. Viroli scrive che esistono due distinte libertà, la libertà dei servi e la libertà dei cittadini.
La libertà dei servi o dei sudditi consiste nel non essere ostacolati nel perseguimento dei nostri fini. La libertà del cittadino consiste invece nel non essere sottoposti al potere arbitrario o enorme di un uomo o di alcuni uomini. Poiché in Italia si è affermato un potere enorme, siamo – per il solo fatto che tale potere esiste – nella condizione dei servi.2
Se vogliamo tenere per buona questa definizione, si vede che i piccoli (o grandi) gesti di libertà o di disobbedienza citati più sopra, sono in realtà atti di arbitrio, piccoli gesti di quotidiana anarchia, licenze e abusi che non preoccupano chi detiene il potere. L’essenza della democrazia è da cercare negli equilibri, tra istituzioni e tra individui, che sorreggono la legalità; in Italia invece sembra spesso che sia vero il contrario: una diffusa violazione delle norme sostituisce il loro rispetto. Non è solo la (cattiva) politica a sabotare la democrazia ma anche una parte consistente dei cittadini. D’altra parte se non ci fosse una base di consenso piuttosto ampia, la politica non si permetterebbe di fare ciò che spesso fa.
Il potere utilizza queste manifestazioni d’insofferenza verso le regole come una valvola di sfogo che aiuta a distogliere l’attenzione da problemi più seri, evita gesti più consapevoli di autentica indignazione, o rivolta, eguaglia tutti nell’insolvenza davanti alla legge.
Infatti la libertà intesa come possibilità di fare i propri comodi ad libitum trascurando le regole, ignorando la libertà degli altri, è esattamente quella dei servi. Antonio Gramsci, nel saggio citato sopra, aveva individuato con nettezza anche il carattere di fondo di questa falsa libertà quando analizza l’«antistatalismo» ovvero il «sovversivismo primitivo ed elementare» cui si assiste così di frequente in Italia.
Naturalmente nelle classi popolari, cioè nelle classi subalterne. Negli strati superiori e dominanti vi corrisponde un modo di pensare che si può dire «corporativo», economico, di categoria, e che del resto è stato registrato nella nomenclatura politica italiana col termine «consorteria».
Ai nostri giorni si è molto parlato di «casta» grazie a un bel saggio così intitolato.3 Gramsci l’aveva definita «consorteria», i termini sono diversi, ma il fenomeno è lo stesso.
Del resto il «sovversivismo primitivo ed elementare» di molti si rispecchia nella analoga libertà ad libitum di chi fa un uso arbitrario del potere anche quando sarebbe, di per sé, legittimo. Chi piega al suo arbitrio un potere deve ignorare le regole, in particolare quelle che assicurano il funzionamento di una democrazia, avendo al suo servizio le istituzioni e gli uomini che le incarnano. Un esempio clamoroso si è avuto in Italia il 5 aprile 2011 quando 314 deputati della maggioranza hanno votato a favore della tesi secondo la quale Silvio Berlusconi era davvero convinto che la minorenne Karima El Mahroug, detta Ruby, fosse la nipote di Mubarak, all’epoca dei fatti presidente egiziano. Perché 314 deputati al Parlamento si sono assoggettati a questa farsa? La ragione, diciamo, giuridica era la seguente: se Berlusconi era davvero convinto che la ragazza fosse la nipote di Mubarak, brigando per farla rilasciare dalla Questura di Milano egli aveva agito nell’esercizio delle sue funzioni di capo del Governo. Dunque il caso poteva essere giudicato solo dal tribunale dei ministri e non da una corte ordinaria.
È un caso evidente di esercizio servile della funzione parlamentare. Il capo del Governo esercita in modo arbitrario il suo potere quando preme sulla Questura per far rilasciare una minorenne la quale, una volta rimessa in libertà, viene subito affidata alla «tutela» di una prostituta. Trecentoquattordici deputati perfezionano l’operazione fingendo di credere alla buona fede del loro leader. Abbondano sul mercato i giuristi pronti a escogitare le formule più ingegnose per dare veste legale all’arbitrio. Quei deputati, senza saperlo, dettero verità alla diffusa deformazione di un verso dell’inno nazionale per cui «Stringiamci a coorte» diventa un ribaldo «Stringiamoci a corte».
Non è però il capo del recente Governo, ormai deposto, l’argomento che qui interessa di più. Chiunque può comportarsi in modo offensivo purché sia pronto a scontarne le conseguenze. Il vero interesse, la curiosità di capire, la suscitano gli altri, quelli che dovrebbero reagire e invece tacciono, che dovrebbero rifiutarsi e invece consentono, le moltitudini che potrebbero indignarsi e invece fanno atto d’obbedienza o volgono il capo altrove.
La casa editrice Chiarelettere ha ripubblicato il famoso saggio di Étienne de La Boétie Discorso sulla servitù volontaria.4 In questo breve testo c’è una buona risposta al nostro quesito. La tesi di fondo è semplice: i tiranni hanno molto potere solo perché i sudditi gli consentono di esercitarlo. Morto a soli trentatré anni, de La Boétie va ricordato per numerose ragioni, due delle quali hanno particolare rilievo. La prima – che lo avvicina alla nostra cultura – sono i suoi studi nella facoltà di Diritto dell’università di Orléans dove lesse i grandi umanisti italiani, da Lorenzo Valla ad Angelo Poliziano. Questi testi gli fecero scoprire gli ideali repubblicani propri dei secoli in cui la ricerca, il pensiero e le arti facevano primeggiare la civiltà italiana nel mondo. L’altra ragione è che de La Boétie era amico di Montaigne tra le cui braccia è spirato. Si sostiene non a torto che il dolore di quel trapasso sia stato una delle cause che hanno spinto il filosofo a scrivere i suoi celebri Saggi.5
In una società corrotta, dice de La Boétie che avvicina anch’egli servilismo e corruzione, molti finiscono per preferire i comodi del cortigiano alle libertà del cittadino che possono essere faticose, richiedono costante vigilanza e impegno. Nel suo breve testo egli scandaglia il rapporto che lega i dominati al dominatore. Una delle ragioni che adduce è che il tiranno è capace di suscitare una specie di innamoramento collettivo nei suoi confronti per cui si vedono: «Migliaia di uomini asserviti miseramente, con il collo sotto il giogo, non perché costretti da una forza più grande, ma in qualche modo, come sembra, incantati e affascinati dal solo nome di uno».
È un passaggio chiave del suo ragionamento. Lo psicologo Gustave Le Bon lo riprenderà nel suo Psicologia delle folle.6 A noi però, pensando ai 314 sventurati che si sono coperti di ridicolo alla Camera, ne interessa un altro. È quello in cui il pensatore descrive in che modo l’esercizio arbitrario di un potere viene trasmesso e amplificato.
Chi pensa che le alabarde, le sentinelle, i posti di guardia difendano il tiranno, a mio giudizio sbaglia di grosso. Credo che egli se ne serva più per il cerimoniale e come spauracchio che non per la fiducia che vi ripone. Gli arcieri vietano l’ingresso al palazzo a chi è mal vestito e privo di mezzi, non già a individui ben armati e intraprendenti. [...] Non sono gli squadroni a cavallo, non sono le schiere dei fanti che difendono il tiranno [...] sono sempre quattro o cinque che mantengono il tiranno; quattro o cinque che gli tengono in schiavitù tutto il paese; è sempre stato così: cinque o sei individui sono ascoltati dal tiranno, o perché si sono fatti avanti da soli, o perché sono stati chiamati da lui come complici delle sue crudeltà, compagni dei suoi piaceri, ruffiani delle sue dissolutezze e soci delle sue ruberie. Quei sei consigliano così bene il capo da far pesare sulla società non solo le sue malvagità ma anche le loro, quei sei hanno poi sotto di loro altri seicento profittatori, che si comportano nei loro riguardi così come essi stessi fanno col tiranno. Quei seicento ne hanno sotto di loro seimila cui fanno fare carriera, ai quali fanno avere il governo delle province o il controllo del denaro. [...] Dopo costoro ne viene una lunga schiera e chi vorrà divertirsi a sbrogliare questa rete vedrà che non sono seimila, ma centomila, ma milioni che grazie a questa corda stanno attaccati al tiranno.
Da quando, poco più che ventenne, de La Boétie scriveva queste righe, sono passati parecchi secoli. Il meccanismo li ha scavalcati ed è arrivato, intatto, fino all’aula di Montecitorio.
Torna dunque la domanda iniziale: perché gli italiani, compresi i loro legislatori, si disfano tanto facilmente della libertà al prezzo della vergogna o del ridicolo? Esistono risposte facili: le ragioni di partito e di bandiera, non perdere il favore del capo ed essere rieletti, tenere in vita la legislatura per assicurarsi il diritto alla pensione, eccetera. Ma ci sono anche ragioni più profonde che risalgono all’antropologia, al modo in cui gli italiani hanno organizzato la loro convivenza, al modo in cui molti di loro, compresi numerosi membri del Parlamento, la vivono.
Gli amministratori locali ricevuti in udienza che si sbellicano alla barzelletta berlusconiana (vetusta) sulla «mela che sa di fica» sono un altro esempio eloquente di servitù volontaria, così come lo sono quelli che cantano in coro su una povera melodia da parrocchia Menomale che Silvio c’è, o i candidati alla carica di governatore regionale che leggono, sempre in coro, il giuramento di fedeltà «al presidente Silvio Berlusconi». A suo tempo vigeva un cerimoniale diverso: «Saluto al Duce!», «A noi!» sicuramente più sobrio come atto di sottomissione. Alcuni candidati governatori per la verità si vergognavano visibilmente di partecipare al coretto. Il video che ancora circola su YouTube ne mostra un paio che cercano di nascondersi dietro gli altri nel momento più umiliante. Sono coloro che, riluttanti, ammettono la loro condizione di servitori.
Ora, per chi si riconosce servo nell’atto di servire c’è qualche speranza che prima o poi provi disgusto o vergogna per la sua condizione. I peggiori sono quelli in buona fede che ritengono davvero di servire non un uomo ma una causa, oppure, all’estremo opposto, quelli che si fingono liberi e di tanto in tanto osano, calcolando attentamente i margini di rischio, muovere critiche al loro padrone. Poi ci sono gli adulatori di professione che sforzano la propria fantasia alla ricerca di modi sempre nuovi di adulare. Il fenomeno era già noto nel I secolo d.C. Tacito negli Annales (I-8.4) racconta un episodio interessante. Pare che sotto Tiberio a Roma fossero in molti a inventare sempre nuovi gesti di servilismo nei confronti dell’imperatore che del resto li gradiva. Tra gli altri un tal Valerio Messalla. Arrivò a proporre che il giuramento di fedeltà a Tiberio venisse rinnovato ogni anno e quando l’imperatore gli chiese se avesse presentato quella proposta dietro suggerimento rispose che nelle questioni riguardanti lo Stato seguiva solo la sua coscienza, anche se rischiava di urtare qualcuno. Commenta il grande storico: «Ecco una forma di adulazione che non era ancora stata inventata».
Invece numerose nuove forme di lusinga sono state i...

Indice dei contenuti

  1. Il disagio della libertà
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Prefazione in forma di apologo
  5. 1. La servitù volontaria
  6. 2. Una libertà usa e getta
  7. 3. Quei brutti anni della nostra vita
  8. 4. Un santo in paradiso
  9. 5. Nemmeno la geografia ci ha aiutato
  10. 6. La doppia morale
  11. 7. Servire l’altare
  12. 8. Nel grembo della famiglia
  13. 9. Chi dovrebbe guardare lontano. E non lo fa
  14. 10. La ricerca come libertà
  15. 11. Sapere aiuta a essere liberi
  16. 12. Dove la libertà ebbe sorte migliore
  17. 13. Un’esperienza italiana
  18. Bibliografia e note