I Papi della pace
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I Papi della pace

L'eredità dei santi Roncalli e Wojtyla per papa Francesco

  1. 176 pagine
  2. Italian
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I Papi della pace

L'eredità dei santi Roncalli e Wojtyla per papa Francesco

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Il "prete buono, umile, con una grande santità" Giovanni XXIII e il "grande missionario" Giovanni Paolo II, proclamati santi il 27 aprile 2014, di cui sono stati riconosciuti il "servizio alla pace tra le nazioni" e la "mite fermezza" nel promuovere un'"autentica dignità dell'uomo", sono tra le figure che hanno orientato in maniera decisiva l'impegno per la pace di papa Francesco. Attraverso discorsi, documenti, testimonianze e un'intervista esclusiva al cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, i vaticanisti Nina Fabrizio e Fausto Gasparroni ripercorrono i più importanti momenti storici in cui i tre pontefici si sono battuti contro i conflitti esplosi nel mondo dal dopoguerra a oggi: dall'enciclica Pacem in Terris di Roncalli nel pieno della Guerra fredda agli interventi di Wojtyla per la pace nei Balcani, fino all'appello di Bergoglio contro l'intervento armato in Siria, gli autori ci permettono di osservare da una prospettiva inedita l'impegno dei tre papi per costruire rapporti tra le nazioni basati sul dialogo e l'amore reciproco e portano alla luce le radici di quella "Chiesa di pace" che ha trovato ulteriore compimento nel pontificato di Francesco.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2014
ISBN
9788858670033
Categoria
Religion

GIOVANNI PAOLO II

«Come al tempo delle lance e delle spade,
così anche oggi, nell’era dei missili,
a uccidere, prima delle armi, è il cuore dell’uomo.»

1

Il cantiere della pace

La sera del 27 ottobre 1986 nella cittadina di san Francesco, il santo della fraternità tra i popoli, spirava un vento gelido. Mentre Giovanni Paolo II prendeva la parola per pronunciare il discorso conclusivo di uno dei momenti del suo pontificato che più resteranno scolpiti nella memoria di tutti, la Giornata mondiale di preghiera per la pace, i leader religiosi, convenuti da ogni parte del mondo per partecipare a un evento senza precedenti, seduti alle sue spalle, tentavano di ripararsi come potevano dal freddo pungente. Il Dalai Lama, autorità dei buddhisti tibetani, intirizzito, si portava la tonaca giallo ocra e amaranto fin sopra la bocca e affondava continuamente il viso tra le pieghe della veste nel tentativo di scaldarsi. Alla sua sinistra Maha Ghosananda, la testa fasciata in un velo color arancio stretto per proteggersi dal vento, si sistemava sulle gambe una coperta di lana prontamente offerta. Dall’altro lato, sempre alle spalle di Wojtyla, l’arcivescovo di Canterbury, George Carey, che indossava solo la talare viola, senza cappotto né copricapo, raccoglieva le mani attorno alla bocca per soffiarci sopra aria calda, dissimulando con smorfie contrite le conseguenze della rigida temperatura.
Un passo avanti a loro, in piedi, veste e cappotto bianchi, un impassibile Wojtyla si rivolse «in spirito di profondo amore e rispetto» ai presenti che chiamò fratelli. «Anche se ci sono molte e importanti differenze tra noi» affermò, «c’è anche un fondo comune, donde operare insieme nella soluzione di questa drammatica sfida della nostra epoca: vera pace o guerra catastrofica?» E proseguì: «Per la prima volta nella storia ci siamo riuniti da ogni parte, Chiese cristiane e comunità ecclesiali e religioni mondiali, in questo luogo sacro dedicato a san Francesco per testimoniare davanti al mondo, ciascuno secondo la propria convinzione, la qualità trascendente della pace. La forma e il contenuto delle nostre preghiere sono molto differenti […] e non è possibile ridurle a un genere di comune denominatore. Sì, ma in questa stessa differenza abbiamo scoperto di nuovo forse che, per quanto riguarda il problema della pace e la sua relazione all’impegno religioso, c’è qualcosa che ci unisce».1
Per Giovanni Paolo II, la pace andava auspicata, professata, implorata ma soprattutto manifestata, attraverso un impegno concreto nel tempo. Doveva divenire, agli occhi del mondo, un’icona in grado di entrare nella memoria collettiva, imprimersi nelle coscienze come un simbolo potente. La pace, in breve, doveva essere un gesto, con tutte le implicazioni tangibili che i gesti possiedono.
Non a caso, la scenografia dell’evento destinato a entrare nella storia contribuiva non poco a dare sostanza allo «spirito di Assisi» che nasceva quel giorno e che già allora, lungi dall’esaurirsi in un unico episodio, intendeva proiettarsi nel futuro, nella consapevolezza che quella della pace è una strada lunga e costellata di insidie.
L’immagine del momento conclusivo di un’iniziativa che aveva avuto una gestazione non facile, percorsa da critiche e dubbi, sia interni sia esterni alla Chiesa, va vista prima frontalmente. La figura di Giovanni Paolo II, l’unica di bianco vestita, si stagliava al centro di una delle tre file degli oltre cento variopinti leader religiosi che, seduti, ascoltavano il suo appello. Alle loro spalle la scritta PACE campeggiava in diverse lingue. Poi, dall’alto, le file di sedie disposte sui tre lati del palco bianco innalzato nella piazza inferiore della Basilica di San Francesco, sembravano assumere la forma rassicurante di un abbraccio in cui contenere il mondo. È la fotografia finale di un’iniziativa fortemente voluta da Giovanni Paolo II, non da tutti sostenuta con la stessa convinzione ma infine impostasi con successo.
Quella preghiera, comune anche se distinta, praticata insieme ma separati, nella formula rispettosa degli uni accanto agli altri, senza confusioni di sorta, che caratterizzava la giornata di Assisi, riusciva nell’intento di restituire al mondo un momento unificante, un gesto di simbolica tregua gravida di speranza.
Per quell’appuntamento, Giovanni Paolo II aveva indetto anche una Giornata di digiuno, inaugurando la tradizione di un gesto che ripeterà altre quattro volte nel corso del suo pontificato: il 9 gennaio 1993, sempre ad Assisi, dedicando la Giornata interreligiosa alla pace in Europa e specialmente in Bosnia; ancora per la Bosnia il 21 gennaio del 1994, il 14 dicembre del 2001, a breve distanza dall’attacco alle Torri Gemelle, e infine il 5 marzo 2003, per la causa della pace, soprattutto in Medio Oriente, dove gli Stati Uniti preparavano un nuovo attacco all’Iraq.
Convocare ad Assisi il 27 ottobre 1986, quando lo scenario della Guerra fredda si avviava al tramonto ma ancora tre lunghi anni dovevano trascorrere per giungere al crollo del Muro di Berlino il 9 novembre 1989, era stata una delle grandi intuizioni di Giovanni Paolo II. Persuaso che la Chiesa dovesse riprendere e sviluppare le premesse gettate dalla Pacem in Terris e dalla creazione della Giornata mondiale della pace della Chiesa cattolica, introdotta da Paolo VI nel 1968 il giorno di Capodanno, papa Wojtyla abbracciò fin dal primo momento con convinzione l’iniziativa interreligiosa. Anche in seguito, non si curò mai di chi evocava con accezione negativa lo «spirito di Assisi», visto più come fumo dell’irenismo che non come soffio di speranza, né di chi tentava di catalogarlo come una specie di frutto avvelenato del Concilio Vaticano II per le sue presunte implicazioni sincretistiche.
Se infatti per alcuni storici la Giornata interreligiosa del 1986 segna lo spartiacque del nuovo atteggiamento del cattolicesimo contemporaneo verso le religioni,2 una sorta di pietra miliare in quel coraggioso cammino intrapreso da papa Wojtyla che lo portò a essere il primo Papa a varcare la soglia di una sinagoga (a Roma, nell’aprile dello stesso anno, come vedremo) e di una moschea (a Damasco, nel 2001), arrivarvi non fu comunque semplice e le resistenze non mancavano. La prospettiva profetica del polacco Wojtyla, secondo alcuni, si spingeva troppo oltre sconfinando in un territorio di possibili e pericolose confusioni.

L’anno internazionale della pace

In un mondo alla vigilia di importanti e profondi cambiamenti il Pontefice aveva dunque individuato un ruolo specifico che le religioni dovevano giocare per favorire la pace, ed era determinato a promuoverlo con forza.
Il 1986 era stato proclamato dalle Nazioni Unite anno internazionale della pace, iniziativa cui la Santa Sede aderì con il suo messaggio del 1° gennaio.3
Il progressivo disgelo fra Stati Uniti e Unione Sovietica era solo all’inizio. Il segretario del Pcus Gorbaciov, nominato alla guida del Cremlino nel 1985 e promotore della perestrojka e della glasnost, aveva lanciato quello stesso anno un’audace proposta al presidente americano Ronald Reagan, indicando le tappe di un reciproco disarmo. I due leader mondiali si erano incontrati per la prima volta, in un’iniziativa di portata storica, il 19 novembre del 1985 a Ginevra. Ma il processo avviato subiva momenti di stop and go che non lasciavano intravedere una prosecuzione certa. D’altra parte, se il mondo andava conoscendo altri momenti simili di speranza per il futuro e per la pacificazione delle Nazioni, contemporaneamente l’assetto bipolare andava sgretolandosi in un più complicato e magmatico quadro multipolare in cui nuovi attori, oltre agli Stati nazione, emergevano sulla scena.
Un panorama che si renderà evidente solo dopo il crollo dell’Urss e l’esplosione del mondo globalizzato ma di cui si potevano già intravedere alcuni protagonisti e intuire alcuni sviluppi. Non solo le organizzazioni internazionali come l’Onu o regionali come la futura Unione Europea, anche le società multinazionali, le religioni, la grande finanza, i sistemi globali dell’informazione si andavano consolidando come forze transnazionali. Tra queste, minacciose, si agitavano pure le forze del terrorismo internazionale.
Pochi giorni prima del messaggio di Capodanno, la mattina del 27 dicembre, un gruppo di terroristi palestinesi aveva provocato, quasi in contemporanea, due sanguinosi attentati, prima nell’aeroporto di Fiumicino, vicino a Roma, e, a pochi minuti di distanza ma oltre mille chilometri più a nord, in quello di Vienna. Tredici furono le vittime in Italia, tre persone rimasero uccise in Austria. Più di cento, in totale, furono i feriti. Due mesi prima l’aviazione israeliana aveva bombardato la sede dell’Olp a Tunisi, dove si era trasferita dal Libano, mentre la Libia si candidava in quello stesso anno turbolento a divenire una delle basi regionali del terrorismo di matrice palestinese. Il Medio Oriente, con la sua instabilità, rappresentava ancora e sempre di più una delle maggiori minacce al raggiungimento di una pace mondiale.

Appuntamento ad Assisi, casa di san Francesco

Con questi eventi alle spalle si arrivò al 25 gennaio 1986, la data in cui Giovanni Paolo II annunciò, a sorpresa, l’iniziativa di Assisi.
Il luogo prescelto era già di per sé carico di promesse.
Durante la Festa della Conversione di san Paolo, nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, la stessa da cui papa Giovanni aveva annunciato l’apertura del Concilio Vaticano II, il 25 gennaio 1986 Wojtyla si rivolse a tutti «i fratelli e sorelle cristiani e a tutte le persone di buona volontà. […] Nessun cristiano, anzi nessun essere umano che creda in Dio, creatore del mondo e signore della storia» premise, «può restare indifferente di fronte a un problema che tocca così intimamente il presente e il futuro dell’umanità. È necessario che ciascuno si mobiliti per recare il proprio contributo alla causa della pace. La guerra può essere decisa da pochi, la pace suppone il solidale impegno di tutti».
Da qui, l’appello a unirsi «durante questo anno in insistente e fervorosa preghiera per implorare da Dio il grande dono della pace».
Giovanni Paolo II spiegò che «la Santa Sede desidera contribuire a suscitare un movimento mondiale di preghiera per la pace che, oltrepassando i confini delle singole Nazioni e coinvolgendo i credenti di tutte le religioni, giunga ad abbracciare il mondo intero». Ed ecco, infine, l’annuncio inaspettato: «Sto avviando opportune consultazioni con i responsabili non solo di varie Chiese e Comunioni cristiane, ma anche di altre Religioni del mondo, per promuovere con essi uno speciale incontro di preghiera per la pace, nella città di Assisi, luogo che la serafica figura di san Francesco ha trasformato in un centro di fraternità universale. Sarà una giornata di preghiera», concluse il Papa, «la data e le modalità di tale incontro saranno precisate, non appena sarà possibile, d’intesa con coloro che accetteranno l’invito a partecipare».4
L’organizzazione dell’evento, infatti, nove mesi prima di tradursi in realtà era ancora alle battute iniziali e già serpeggiavano i primi malumori nella curia romana. Il Papa voleva spingersi pericolosamente fino all’eresia del sincretismo? Riunire assieme i capi religiosi di tutto il mondo per una preghiera comune a Dio, invocandolo con tutti i suoi nomi, significava forse che la Chiesa cattolica metteva tutte le religioni sullo stesso piano? Wojtyla intendeva trasformare il Vaticano in una sorta di Onu delle religioni, comprese quelle politeiste? Questo sarebbe stato, in fin dei conti, il messaggio lanciato da Assisi al di là delle sue intenzioni di promozione della pace? E come comporre l’evento in un mosaico coerente in cui ciascuno rappresentasse una tessera dai confini ben definiti pur contribuendo all’immagine complessiva?
Per dipanare la matassa, non priva di implicazioni teologiche, Wojtyla si affidò soprattutto al consiglio di tre cardinali, l’olandese Johannes Willebrands, ex presidente del Segretariato per l’unità dei cristiani, il nigeriano Francis Arinze, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso e il cardinale francese Roger Etchegaray, presidente della Pontificia commissione Iustitia et Pax.5 Quest’ultimo soprattutto, un prelato energico che nelle molteplici missioni speciali che gli saranno affidate da Giovanni Paolo II, quasi di diplomazia parallela, avrebbe messo tutta la forza delle sue origini montanare, fu incaricato di tradurre l’intuizione del Papa in un programma concreto che definisse «il chi, il cosa, il quando, il dove e il come». Etchegaray doveva individuare la formula adatta a trasformare in segno tangibile l’idea di Wojtyla che le tradizioni religiose erano dotate di «profonde risorse» per fronteggiare i conflitti internazionali, prima fra tutte l’impegno nella preghiera.
Raccogliendo anche suggerimenti che nel frattempo arrivavano da più parti, cominciò a essere definito un programma di massima.
Dopo aver stabilito che la cornice dove incontrarsi sarebbe stata Assisi, la città del Poverello, si decise che l’evento avrebbe incluso anche una parte di pellegrinaggio. A Wojtyla l’idea di farsi pellegrino tra i pellegrini piacque molto. Una volta arrivati nella città di San Francesco, il Pontefice avrebbe accolto gli altri capi religiosi nella Porziuncola, la cappella nella pianura di Assisi a cui San Francesco era molto legato. Da qui ogni leader religioso avrebbe raggiunto un luogo diverso dove pregare assieme ai suoi correligionari per novanta minuti. Successivamente tutti assieme sarebbero confluiti a piedi nella piazza centrale, di fronte alla Basilica di Assisi, per innalzare una preghiera, ciascuno secondo la propria tradizione. Quindi Wojtyla, promotore dell’evento, avrebbe preso la parola per un discorso conclusivo. Infine, tutti insieme avrebbero rotto il digiuno.
Giovanni Paolo II sapeva bene che la preghiera comune doveva rispettare le specifiche identità religiose. Il pericolo di interpretazioni sincretistiche fu sciolto con la proposta non di pregare assieme ma di «stare insieme per pregare». Un confine teologico che apriva l’orizzonte alla possibilità di dare un’immagine unitaria e viva.
Mentre i preparativi andavano avanti riscuotendo continue adesioni, fu il vice del cardinale Etchegaray a Iustitia et Pax, il vescovo Jorge Mejía, che era stato anche ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Introduzione
  5. GIOVANNI XXIII
  6. GIOVANNI PAOLO II
  7. FRANCESCO
  8. INTERVISTA AL CARDINALE PIETRO PAROLIN, SEGRETARIO DI STATO VATICANO
  9. Ringraziamenti